CAGNOLATI (Canholatus, Canheolatus, Canolati, Cagnolato), Bartolomeo
Chierico milanese, figlio di un "dominus Ubertus" che era già morto nel settembre del 1320, il C. è sopravvissuto nella memoria dei posteri per il fatto di essere stato coinvolto in un non ben chiaro affare di negromanzia connesso in qualche modo con le accuse di pratiche magiche e di sortilegio avanzate contro Matteo Visconti e i suoi figli, nel quadro dei processi per eresia promossi contro i signori ghibellini di Milano dalla Curia pontificia nel primo ventennio del sec. XIV. Le poche notizie sicure della biografia del C. si ricavano infatti quasi tutte dalle deposizioni che egli rese in proposito davanti a una commissione d'inchiesta appositamente costituita in Avignone dal papa Giovanni XXII e costituita dai cardinali Bertrando del Poggetto e Arnaud de Via e dal cancelliere di S. Romana Chiesa, Pierre Texier. La scelta degli ecclesiastici, se prova - come fa opportunamente rilevare il Biscaro - la volontà del pontefice di affidare l'intera faccenda a persone che godessero della sua piena fiducia e sapessero agire con la massima riservatezza, testimonia, d'altro canto, la gravità dell'affare e l'importanza che vi annetteva Giovanni XXII.
Verso la metà di ottobre del 1319 il C., che si trovava "in villa de Panhano" (Pagnano, presso Asso), dove si era rifugiato per sfuggire al carcere, in quanto debitore insolvente, venne raggiunto da un ordine di Matteo Visconti di presentarsi a palazzo per un colloquio. Matteo, ricevutolo alla presenza del giudice Scotto da San Geminiano, e di un medico, il maestro Antonio Pelacane, fece mostrare al C. una statuina d'argento di un uomo ignudo con le fattezze del pontefice Giovanni XXII, sulla cui fronte erano state incise le parole "Iacobus, Papa Johannes" e sul petto un simbolo cabalistico (che poi risultò essere il segno del pianeta Saturno), e il nome di uno degli spiriti del male, Amaymon, avente il suo dominio in Occidente.
Matteo aveva deciso di far lanciare contro il papa un maleficio: desiderava sapere se il C. sarebbe stato disposto a cooperare. Invitato a fare, secondo i rituali della negromanzia che così bene conosceva, delle subfumigationes sulla statuina, il chierico - forse preoccupato per i suoi rapporti con la Chiesa, qualora la cosa si fosse risaputa - cercò di esimersi in tutti i modi, obbiettando tra l'altro di non possedere l'elemento base per le subfumigationes, cioè l'estratto di un'erba velenosa detta "mapello". Poco soddisfatto delle sue parole, il Visconti licenziò il chierico milanese piuttosto bruscamente lasciandogli intendere che, se avesse svelato ad alcuno ciò che era stato detto o fatto nel corso del loro colloquio, avrebbe pagato con la vita.
Il C. rientrò in Pagnano deciso a informare il papa, perché potesse premunirsi tempestivamente contro il pericolo che lo sovrastava: si mise perciò in contatto con uno dei principali esponenti della fazione milanese antiviscontea, Simone Della Torre, che sapeva devoto al pontefice, e al quale rivelò ogni cosa con la preghiera di avvertirne la Curia romana. Il Della Torre si affrettò a informare la Curia ad Avignone e da qui giunse al C. l'ordine di presentarsi. Intanto Matteo Visconti aveva convocato il C. a Milano per un nuovo colloquio.
Ricevuto dal Visconti, questi gli comunicò l'intenzione di affidargli la statuina d'argento di Giovanni XXII, affinché la facesse suffumigare da un noto negromante veronese, P. Nani. Benché intuisse di rendere ancora più delicata la sua posizione, il C. preferì rifiutare ancora una volta le proposte del Visconti, adducendo la scusa del cattivo stato della sua salute e suscitando, in tal modo, lo sdegno di Matteo.
Sul finire dell'anno il chierico si mise in viaggio per Avignone dove era stato convocato, facendo però prima una deviazione per Milano, allo scopo preciso di procurarsi notizie sugli ulteriori sviluppi della vicenda. A Milano ebbe un colloquio col giudice Scotto da San Geminiano, da cui seppe che il maleficio era stato compiuto sulla statuina, secondo tutte le regole.
Non possiamo dire, a causa del silenzio delle fonti, quando e in seguito a quali vicende il C. giunse ad Avignone. Risulta tuttavia che egli vi si trovava già agli inizi del 1320: il 9 febbraio, infatti, venne interrogato dalla commissione pontificia d'inchiesta, alla presenza di Gerardo de Lalo, notaro di S. Romana Chiesa, che redasse e autenticò gli atti dell'istruttoria. Il C. aveva allora già avuto, però, un colloquio con Giovanni XXII - al quale forse furono presenti, secondo un'ipotesi del Biscaro, Bertrando del Poggetto, Arnaud de Via e lo stesso Gerardo de Lalo - subito dopo il suo arrivo nella città pontificia. Sia il papa sia i commissari dovettero nel complesso prestar fede alla deposizione del chierico milanese, la cui presenza in Avignone si cercò con tutti i mezzi di circondare del massimo riserbo, con probabilità per proteggere il testimonio dalle eventuali rappresaglie di Matteo Visconti. Ad Avignone, inoltre, il C. fu quasi sicuramente incaricato di seguire da vicino gli oscuri maneggi avviati dal signore di Milano ai danni del pontefice e di tenerne in ogni caso informata la Curia. Gli furono consegnate anche lettere autografe del cardinale Napoleone Orsini che, per ogni evenienza, servissero a giustificare il suo viaggio in Francia. Così provveduto, il C. dovette rientrare in Italia sullo scorcio del mese di febbraio o agli inizi di marzo, e si ritirò nella sua abitazione di Pagnano. Ma gli avvenimenti non tardarono a precipitare. Nel marzo, mentre si trovava a Milano per affari, il C. s'imbatté in un gruppo di armati di Matteo Visconti, capitanati da Cossugo e da Bertramino Prendebon; venne condotto con la forza davanti a Scotto da San Geminiano, che ordinò l'immediata carcerazione. E in carcere il C. rimase, brutalmente trattato, per quarantadue giorni, sino a primavera inoltrata, quando fu liberato grazie alle pressioni e all'interessamento di alcuni suoi amici facoltosi e influenti, i quali per lui pagarono anche una cauzione di 2.000 fiorini.
Pochi giorni dopo la sua scarcerazione, il C. ricevette il 16maggio, da parte del figlio di Matteo Visconti, Galeazzo, l'ordine di recarsi presso di lui a Piacenza.
Raggiunto il Visconti, da cui fu assai ben accolto, il C. rimase al suo seguito per alquanto tempo, seguendolo anche nel Lodigiano per l'assedio del castello di Maleo e poi di nuovo a Piacenza.
Col Visconti, che già si, era scusato con il C. per il trattamento inflittogli a Milano nella quaresima precedente, il chierico ebbe, qualche giorno dopo il suo arrivo, un colloquio privato sul delicato argomento. Galeazzo affermò che, se il C. era stato sospettato di avere rivelato ogni cosa e di avere in tal modo fatto fallire il maleficio, ciò era potuto avvenire perché a loro risultava per certo che egli si era incontrato con il papa e con i suoi più diretti collaboratori. Il chierico, dopo essersi ancora una volta scagionato da tali accuse, osservò che il fallimento delle pratiche magiche doveva, a suo avviso, impuntarsi esclusivamente al fatto che i riti non erano stati bene eseguiti. Quindi, ad un'esplicita richiesta del suo interlocutore, mostrò sia pure dopo qualche incertezza - di essere disposto a compiere le pratiche rituali per il maleficio, pratiche che, in caso contrario, avrebbe compiuto - secondo quanto affermò il Visconti - "magistrum Dante Aleguiro de Florencia", già da lui fatto venire a Piacenza. Dopo questo colloquio, il C. si recò a Milano per ben due volte, allo scopo di procurarsi il necessario estratto velenoso di mapello e si fece consegnare la statuina di Giovanni XXII.
Sul finire del mese di luglio riuscì però ad eclissarsi con il malefico oggetto, fuggendo da Piacenza e (come sembra ragionevole supporre) attraverso il Monferrato (per Asti, dove il legato Bertrando del Poggetto stava organizzando la lotta contro i ghibellini lombardi) passò in Francia cercando rifugio ad Avignone. E qui, per la seconda volta, si presentò alla commissione di inchiesta per essere interrogato (11 sett. 1320). A conferma della sua deposizione, il C. esibì alla commissione la famosa statuina e tre lettere di Galeazzo Visconti: due, datate rispettivamente il 15 e il 19 maggio 1320, per indurlo a recarsi a Piacenza; la terza, senza data, per esortarlo a portare a termine la loro impresa.
Fece inoltre i nomi delle persone che avevano assistito alle diverse fasi dell'istruttoria e alla tortura cui era stato sottoposto per ordine del giudice Scotto da Vigevano.
La commissione mostrò di ritenere nel suo complesso attendibile la versione dei fatti fornita dal C., versione la cui veridicità poteva del resto venire facilmente controllata direttamente a Milano, data la notorietà di cui il C. doveva allora godere sia come medico, sia come cultore dell'astrologia e della magia. D'altra parte, l'amicizia che legava il chierico milanese a Simone della Torre rende legittima l'ipotesi che egli fosse un guelfo e un sostenitore della fazione cittadina tradizionalmente avversa ai Visconti: ipotesi confermata dal fatto che, quando il C. viene ricordato per la prima volta nei documenti a noi noti, nel 1319, si trovava al bando del Comune di Milano - e verosimilmente già da tempo - in un paesino sul confine comasco e adiacente ai territori tra Incino e Lecco, nei quali si era affermata appunto in quegli anni la rivolta guelfa e antiviscontea dei Carcano, dei Parravicini, e dei Bernareggi.
Dopo la seconda deposizione del C. davanti alla commissione d'inchiesta creata da Giovanni XXII, Punico riferimento sicuro a una presenza del chierico milanese in Avignone è costituito da una ricevuta di pagamento rilasciatagli dalla Camera apostolica nel maggio del 1327. Ci sono tuttavia valide ragioni per ritenere che sia da identificarsi nel C. l'ignoto beneficiario di una serie di pagamenti effettuati dalla Camera apostolica dalla fine di ottobre del 1320 sino al 24 maggio 1328, in ragione di 5 tomesi grossi d'argento al giorno (pari a 138 fiorini all'anno) - Nel registrare le somme sborsate, tuttavia, il camerario pontificio, se evita ogni volta di annotare il nome del beneficiario, indica sempre il prelato da cui è stato dato l'ordine di pagamento (il cardinale Arnaud de Via). Tali cautele e il riserbo di cui la Curia romana cercò di circondare la permanenza del C. ad Avignone, che si protrasse almeno sino agli inizi dell'estate del 1328, si debbono probabilmente spiegare con la necessità sia di proteggere il chierico dalle eventuali rappresaglie dei Visconti, sia per tenere sotto immediato controllo un testimonio di importanza primaria. Magia e demonismo erano abbastanza diffusi nel sec. XIV, e le accuse di idolatria e di magia tornano frequenti negli atti istruttori degli inquisitori; e lo stesso Giovanni XXII aveva dovuto ordinare una serie di inchieste per scoprire e colpire preti e laici dediti alla magia e alla negromanzia. In un simile contesto non debbono stupire né la fede prestata al C. dalle autorità pontificie a proposito delle pratiche diaboliche tentate dai Visconti in odio al papa né l'accenno i Dante Alighieri, date la profonda conoscenza dell'astrologia posseduta dal poeta fiorentino, la sua fama di veggente, le sue cognizioni sulla natura e gli attributi del demonio. Né è inverosimile, dati i rapporti che legavano le corti ghibelline dell'Italia settentrionale, che Galeazzo Visconti abbia invitato a Piacenza Dante Alighieri, con l'intento di affidargli effettivamente l'incarico che il C. aveva rifiutato in un primo tempo. Del resto, la condanna dell'Alighieri da parte di Bertrando del Poggetto potrebbe essere messa in rapporto anche con tale sua supposta partecipazione al sortilegio tentato ai danni del pontefice.
Nell'epitome delle deposizioni rese dai testimoni nei processi di eresia tenuti contro i Visconti tra il 1321 ed il 1323, il nome del C. ricorre una sola volta, quando, per confermare uno dei capi d'accusa contro Matteo Visconti, si ricorda che egli venne arrestato e fatto torturare solo perché voleva recarsi ad Avignone. Con ogni probabilità la ragione del silenzio sul fatto di cui il chierico milanese era stato testimonio va ricercata, come pensa il Biscaro (1920, p. 467), "nel proposito… di riservare la manifestazione della gravissima accusa per il caso, non avveratosi, che le sorti della guerra facessero cadere Matteo o Galeazzo Visconti, od entrambi nelle forze della Chiesa, ovvero che nei processi che si istruivano contro di essi, fossero per emergere circostanze specifiche a conforto del racconto di Bartolomeo".
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