CALCO, Bartolomeo
Nacque nel 1434 da Giovanni, probabilmente a Milano. La prima carica che gli si attribuisce è quella di coadiutore nella cancelleria della magistratura sforzesca delle Entrate ordinarie dal 1º marzo 1450. Il fatto che egli sarebbe stato a quell'epoca appena un ragazzo e che per i successivi venti anni non si abbia altra notizia di lui, fa legittimamente supporre che questa carica sia stata ricoperta da un omonimo.
Quando, nell'agosto del 1470 il conte Giovanni Attendoli, castellano del Castello Grande di Pavia, rinnovò formalmente le assegnazioni dei castelli di Pavia, Lodi, Trezzo e Cassano, concessi come controdote a Bona di Savoia, divenuta duchessa di Milano il 10 maggio 1468, dal marito Galeazzo Maria Sforza, le comunità di Pavia e di Lodi prestarono alla duchessa il giuramento di fedeltà. Il C. fu uno dei notai di Lodi. Il suo nome figura così per la prima volta accanto a quello di Bona, di cui egli divenne segretario fra questa data e il settembre 1472. Sembrerebbe anche, da questo documento, che egli, di cui si conosce l'accurata preparazione umanistica, compiuta anche sotto la guida di Gregorio da Città di Castello, detto il Tifernate, abbia compiuto studi giuridici, vista la qualifica di notaio attribuitagli. Il 23 sett. 1472, già col titolo di segretario, il C. compare fra i testimoni presenti al giuramento prestato alla duchessa da Francesco da Trevio, nominato castellano della fortezza di Novara, che il 13 febbr. 1470 Galeazzo Maria aveva donato alla moglie, in occasione della nascita del primogenito.
Quando nel dicembre del 1476 il duca di Milano venne assassinato, Bona di Savoia si trovò improvvisamente a dover assumere, in nome del figlio Gian Galeazzo, di appena sei anni, il governo dello Stato. In questo duro compito, reso più difficile da molte complicazioni verificatesi proprio per la scomparsa del duca, Bona volle essere coadiuvata da un ristretto numero di consiglieri, che costituirono il Consiglio segreto del castello. I consiglieri chiamati a fare parte di questo organismo, di cui il C., insieme con Giovanni e Giangiacomo Simonetta, divenne segretario, giurarono nelle sue mani di mantenere il segreto sugli affari trattati e di rimanere fedeli e leali servitori della duchessa. È a questo punto che le funzioni fino ad allora esercitate da Cicco Simonetta, il grande segretario di Francesco I e di Galeazzo Maria Sforza, entrato a far parte del Consiglio segreto del castello, sembrano, anche se non ancora ufficialmente, insensibilmente scivolare dalle sue mani a quelle del Calco. Infatti, mentre con i precedenti duchi il Simonetta fungeva da tramite fra il signore e gli organi dell'amministrazione dello Stato, dal momento in cui fu operante il Consiglio segreto l'importanza del C. venne ad aumentare non tanto per la carica di segretario da lui detenuta, ma per il fatto che egli era divenuto l'intermediario fra la volontà del signore e gli organi esecutivi, come rivela la frase "rettulit Bartolomeus Calcus", che spesso appare nei verbali delle sedute.
Nel maggio del 1477 il fallimento della congiura dei fratelli del duca defunto contro la moglie e il figlio di lui aveva provocato l'esilio dei fratelli Sforza (ed indirettamente la morte di uno di loro), la cattura di Donato del Conte e la fuga di Roberto di Sanseverino. Uno dei castelli confiscati a quest'ultimo fu donato dalla duchessa al C., il cui padre nel febbraio era stato affiancato al castellano della fortezza di Novara.
Fra i primi problemi che dopo questi avvenimenti si presentarono alla reggenza, che aveva anche provveduto ad inviare, avvenuta la congiura dei Pazzi, un contingente di truppe in Toscana, fu la sollevazione di Genova. Quando nell'ottobre del 1477, dopo alterne vicende nella lotta armata e nei complicati contrasti diplomatici che opposero questa città al dominio milanese e dopo che Luigi XI aveva riconfermato agli Sforza in feudo la città, si arrivò alla pacificazione, il C. fu uno dei testimoni presenti alla conclusione delle convenzioni, che il giorno 12 si stipularono fra Genova e Milano. Il segretario della duchessa cominciava così a inserirsi anche negli atti riguardanti la politica estera.
Intanto Bona, donna debole, inesperta di questioni inerenti allo Stato, influenzata inoltre dal giovane ferrarese Antonio Tassino, non poteva non venire in contrasto con Cicco Simonetta. Questo disaccordo provocò nella duchessa la decisione del richiamo nella città di Lodovico Maria Sforza. Incerta la parte che in questa riconciliazione ebbe il Calco. Egli probabilmente l'approvava, poiché non era possibile che delle trattative si svolgessero senza che egli, così vicino alla duchessa, ne fosse a conoscenza, e vista la fiducia che sia Bona sia il cognato nutrivano in lui, giacché egli firmò, in qualità di primo segretario ducale, le lettere inviate agli oratori milanesi a Firenze e a Bologna, in Francia e in Savoia, con le quali si comunicava l'arresto di Cicco Simonetta, avvenuto appena tre giorni dopo il ritorno del Moro a Milano, il 10 sett. 1479. Una ventina di giorni prima della decapitazione del vecchio segretario, Ludovico Sforza. il 7 ott. 1480, improvvisamente, con il consentimento e l'aiuto di Pallavicino Pallavicini, Franchino Caimi e Filippo Eustachi, fece sottrarre il duchino Gian Galeazzo, trasportato nel castello di porta Giovia, alla tutela della madre. Il C. fu immediatamente convocato e gli furono esposti i motivi che avevano resa necessaria quest'azione di forza, che esautorò completamente e definitivamente l'inabile duchessa, ma non il suo segretario, il quale ormai assolveva a una carica pubblica e volle continuare a servire lo Stato e chi dello Stato deteneva il governo. Ciononostante fu sempre il C. che mantenne le indirette relazioni fra la duchessa ed il Moro, come anche provvide a che i contatti che Bona ebbe segretamente col re di Francia non sfociassero in colloqui senza testimoni (ottobre 1481) fra lei ed una legazione del re. Del resto egli divenne in tutte le questioni l'intermediario del Moro e, quale primo segretario ducale, colui che soprintendeva a tutte le questioni di Stato, da quelle più minute e in apparenza poco significative, come la protesta del nunzio pontificio Iacopo Gherardi, che, introdotto nella stanza del Moro ammalato, nel marzo del 1488, si rivolse al C. per dichiararsi insoddisfatto del posto assegnatogli, a quelle che apparendo quasi come opinioni personali venivano a trascolorarsi da consigli disinteressati ad avvertimenti ufficiosi, come quando (marzo 1488) il C. ricordò allo stesso Gherardi che la sua posizione di nunzio non permetteva che egli si interessasse a faccende private, ed a quelle sottilmente politiche, come le trattative per la sempre spinosa questione delle decime, quando il C., avuto l'incarico ufficiale dal Moro di far provvedere all'esazione, subito dopo pregò il nunzio (sempre nel 1488) di soprassedere, quasi questo fosse un piacere personale a lui diretto. Il Moro, parlando e trattando indirettamente attraverso la mediazione del C., poteva evitare, pur rimanendo il solo a decidere, di scoprirsi. Non si giunse così a una protesta ufficiale col nunzio Gherardi, quando lo Sforza volle lamentarsi dell'atteggiamento del papa nei suoi riguardi (1488), ma il C. dovette invece mostrare al nunzio la lettera che il Moro gli aveva indirizzata. Al C. Lodovico Sforza non si rivolgeva solo per le questioni di Stato, ma anche per ogni necessità della corte, dalle più minute alle più impegnative. Così si scriveva al C. perché fosse preparata una stanza acconcia per un ospite importante. Così a lui faceva capo tutta la complessa organizzazione per allestire, fra il 1490 e il 1491, le cerimonie per le nozze del Moro.
Il C. era il più importante ufficiale del ducato, e il 2 febbr. 1489, quando si ripeté in duomo la cerimonia delle nozze di Gian Galeazzo Sforza con Isabella d'Aragona, avvenute per procura a Napoli, egli precedeva tutti gli altri dignitari.
Fungeva da tramite, inoltre, non solo fra Bona e il Moro, ma anche fra questi ed il nipote e, si direbbe, anche se sempre con dignità ed umanità, quasi da informatore. Faceva relazioni accurate sulla salute del duca legittimo e su quanto avveniva alla sua corte e quando nell'aprile del 1489 fra Gian Galeazzo Sforza e Mattia Corvino intercorse un carteggio riguardante il matrimonio, poi non avvenuto, fra il figlio di quest'ultimo, Giovanni, e Bianca Maria, altra figlia di Bona, il C. rese minuziosamente conto di come si erano svolte le trattative.
I rapporti fra la vedova di Galeazzo Maria e lo Sforza, o per meglio dire le unilaterali richieste dell'una per ottenere dall'altro il permesso di recarsi in Francia, furono condotte sempre indirettamente attraverso il C., che trasmetteva al Moro le richieste e le proteste della duchessa; che era dallo Sforza ritenuto responsabile dell'avvicinamento di Bona compiuto da un messo del re di Francia, mediante il travestimento da famiglio di uno dei cantori (Archivio di Stato di Milano, Sforzesco, Potenze sovrane, cart. 1463); che doveva porre al fianco della duchessa persone che "parevano convenire", quando ella doveva ricevere l'ambasciatore veneto nel febbraio 1494 (ibid.); che l'avrebbe dovuta accompagnare quando ella ottenne finalmente di poter partire, dopo aver visto morire il suo primogenito e mentre era in pieno svolgimento la spedizione di Carlo VIII in Italia, nel novembre del 1495, anche se poi la duchessa fu condotta ad Amboise dal figlio Ermes.
In occasione delle nozze di Lodovico il Moro, avvenute ai primi di gennaio del 1491, il C., che aveva sposato Apollonia Settala avendone cinque figli, Camillo, Bernardino, Gerolamo, Polidoro e Giovanni Agostino, fu creato dallo Sforza cavaliere aurato, insieme con l'ambasciatore fiorentino Pietro Boccaccini e ricevette in dono una tunica d'oro. Alla fine del 1495 l'ormai duca di Milano gli concesse una patente di immunità.
Uno degli ultimi ordini (Arch. di Stato di Milano, Arch. Visconteo-Sforzesco, Autografi, cart. 117) che il C. trasmise quale primo segretario del ducato sforzesco fu, il 29 ag. 1499, un patetico appello inviato al Comune di Pizzighettone perché provvedesse a innalzare sulla torre la bandiera imperiale, che avrebbe dovuto proteggere le terre milanesi dall'attacco dei Francesi e dei Veneziani. E quando, nell'estrema rovina dello Stato, che egli aveva veduto nel massimo splendore, fuggito il Moro in Germania, Giangiacomo Trivulzio, entrato in Milano in nome del re di Francia, partecipò a una solenne adunanza in Corte Vecchia, fu il C. che gli presentò a nome dei governatori dello Stato di Milano un elenco di settantotto richieste. Il 20 ott. 1499 Luigi XII gli confermava il feudo di Pozzuolo e di Rosate (Milano). Ripreso il suo posto di segretario durante l'effimera restaurazione sforzesca (febbr.-marzo), l'11 apr. 1500 il C. firmava la lettera che i governatori dello Stato di Milano inviavano a Luigi XII, implorando clemenza e riconoscendo la sua dominazione. Ma questa volta il servizio prestato durante il breve ritorno del Moro a Milano non gli fu perdonato dalle autorità francesi, che lo imprigionarono nel castello di porta Giovia. Dopo essere stato minacciato di impiccagione, il 27 aprile gli fu annunciato che gli sarebbe stata inflitta soltanto una ammenda. Quando Luigi XII creò, unificando il Consiglio segreto ed il Consiglio di giustizia, il nuovo Senato, il C. divenne primo segretario della cancelleria. Non si sa però quanto tempo tenne questa carica. Morì il 18 giugno 1508 in Milano e fu sepolto nella cappella dell'Annunziata nella chiesa di S. Maria della Passione.
Il C. era stato al momento della sua massima attività al centro della vita politica ed amministrativa dello Stato sforzesco. Aveva avuto alle sue dipendenze un segretario, undici cancellieri, un deputato ai sigilli, otto coadiutori, cinque registratori, due custodi agli archivi. Come capo dell'amministrazione del castello aveva dato ordine a tutto ciò che aveva costituito le vita stessa della corte del Moro. Come capo della parte più importante della cancelleria segreta - alle questioni ecclesiastiche, alle entrate ducali ed agli affari criminali presiedevano rispettivamente Iacopo Antiquario, Giovan Giacomo Feruffini e Giovanni Molo da Bellinzona -, da cui uscivano ordini che riguardavano le autorità, i castellani, i cittadini, corrispondenza con gli Stati stranieri, istruzioniper gli ambasciatori, erano passati per le sue mani tutti i provvedimenti per l'amministrazione interna dello Stato ed egli aveva visto scorrere per più di venti anni la storia del ducato, intimamente connessa alla storia e alla politica di tutte le altre città e Stati italiani e stranieri; aveva partecipato a tutte le vicende di una grande famiglia signorile; aveva trattato con le più eminenti personalità del ducato e non; era stato nel centro decisionale di uno Stato, per un certo periodo almeno, al massimo della potenza e dello splendore. Il rapporto fra il C. ed il Moro può essere considerato simile a quello fra Cicco Simonetta e Francesco I Sforza, ma mentre fra questi ultimi due si può parlare verosimilmente di collaborazione, certamente per il primo binomio sarebbe difficile dire che le decisioni del primo segretario abbiano mai avuto una qualsiasi indipendenza rispetto al volere dello Sforza, il quale usò il C. come un ottimo strumento per realizzare la sua autonoma volontà, lasciandosi influenzare piuttosto dal suo astrologo Ambrogio Varese da Rosate che dal suo segretario.
Nel grande centro culturale costituito dalla Milano del tempo, il C. svolse anche un attivo ruolo di mecenate. Il nunzio Gherardi lo definì amante delle buone lettere e degli uomini eruditi, cultore delle Muse e principe e patrono dei letterati, letterato e probo viro. Il C., cui si dovette l'istituzione in Milano di scuole gratuite, fu in relazione con quasi tutti i letterati del tempo e quanti di loro vivevano a Milano furono assidui frequentatori della sua casa. A volte le sue relazioni con artisti e letterati si riducevano a raccomandazioni, a concessioni di denaro, a veri e propri rapporti di lavoro, come con il Bramante e con Lemardo, ai quali trasmetteva gli ordini del Moro e dei quali riferiva allo stesso le richieste e le relazioni. Ma, ottimo conoscitore di latino e di greco, il C. amava sinceramente e profondamente la cultura umanistica e quando il 6 nov. 1491 Demetrio Calcondila, di due figlie del quale egli fu in seguito padrino, tenne la sua prima lezione a Milano, egli indirizzò una lettera di ringraziamento al Moro per aver chiamato l'umanista nel ducato.
Nella febbre di ricerca degli antichi testi che ancora ferveva alla fine del sec. XV, il C., partecipò all'emozione della scoperta dei codici di Bobbio fatta da Giorgio Merula - o se si vuole da Giorgio Galbiati -, comunicata al Moro il 31 genn. 1494, e del rinverumento nel 1491 da parte del milanese Pierantonio da Fossano di un'antica biblioteca di codici greci e latini a Poitiers, comunicata a lui ed al Moro da Erasmo Brasca.
La sua competenza in campo culturale era ufficialmente riconosciuta, tanto che il 2 apr. 1491 redasse una relazione sui professori milanesi e di Pavia, dei quali tutti egli dette un giudizio più o meno caldamente positivo.
Il 7 ott. 1480, prima ancora di trasferirsi, accogliendo l'invito dello Sforza, a Milano, Giorgio Merula indirizzò al C. una lettera di protesta contro il suo vecchio maestro, Francesco Filelfo, per l'animosità che questi dimostrava nei suoi riguardi criticando troppo aspramente la sua operetta Bellum Scodrense.Sorta parecchi anni più tardi, trascinatasi e riaccesasi la nota polemica fra Angelo Poliziano e l'Alessandrino, alla morte di quest'ultimo (avvenuta nel marzo del 1494), il primosegretario ducale era dell'avviso che, come chiedeva l'Ambrogini, del quale era grande ammiratore ed a cui egli aveva formalmente promesso di intercedere in questo senso presso il Moro, le osservazioni del Merula sui Miscellanea dovessero essere pubblicate, perché il grande umanista potesse rendersi conto delle accuse mossegli e controbatterle. Il manoscritto del Merula, che rimase inedito per volontà del Moro, è ora conservato nella Biblioteca nazionale di Napoli (IV F 35, cc. 15-33) e si apre con un'ampia dedica al Calco. Similmente un codice di Tertulliano della Bibliothèque Nationale di Parigi (Ms. lat.2616), presenta una lettera dedicatoria a lui diretta da Girolamo Varada. Anche all'incunabolo stampato a Milano il 19 maggio 1477, contenente l'editio princeps delle Storie troiane di Ditti Cretese, è premessa una dedica di Masello Venia al Calco. Inoltre Alessandro Minuziano, allievo del Merula e precettore dei figli del C., gli dedicò le sue edizioni di Orazio nel 1485 e di Tito Livio nel 1495. E infine Giovanni Biffi nei suoi Carmina differentialia gli diresse un'elegia, mentre nel De nuptiis Bentivolium Filippo Beroaldo senior aggiunse alcuni endecasillabi in suo onore.
Dei figli del C., Agostino, o Giovanni Agostino, svolse una discreta attività politicoamministrativa. Nel 1481 compì una missione diplomatica in Francia. Dopo una sosta a Roma per ossequiare il papa, fu uno dei testimoni dell'atto notarile rogato a Napoli il 22 dic. 1488, con il quale si ratificarono i patti convenuti per le nozze di Gian Galeazzo Sforza con Isabella d'Aragona. Coadiuvò il padre nella cancelleria sforzesca, di cui almeno dal 1489 era segretario, con il compito di seguire la corte, insieme con il collega Gian Giacomo Ghilini, quando il duca non risiedeva a Milano. Partecipò in qualità di segretario alla solenne ambasciata inviata da Lodovico il Moro a Carlo VIII nel gennaio del 1492. Coprì di nuovo l'ufficio di segretario ducale durante la restaurazione sforzesca del febbraio-marzo 1500. Ebbe tre figli.
L'altro figlio, Geronimo, quando nel giugno del 1511 Ottaviano Sforza occupò la città in nome del cugino Massimiliano, fu mandato, insieme con Ludovico Visconti Borromeo e con Pietro Martire Stampa, all'imperatore Massimiliano, perché inviasse il figlio del Moro come duca a Milano. Nel settembre del 1515 fu eletto, mentre la città era assediata dai Francesi poco prima della battaglia di Melegnano, fra i Ventiquattro, come assolutamente non sospetto filofrancese. Nel 1521 fu inviato dai concittadini a Ferrara, insieme con Maffeo Landriani, per ottenere da Ippolito II d'Este, appena creato arcivescovo di Milano, il consenso di applicare ai monasteri femminili i provvedimenti studiati all'uopo da una commissione.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, I. Sitoni de Scotia Theatrum genealogicum familiarum…(ms. del 1705), p. 104; I.Simonetae Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarif, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XXI, 2, a cura di G. Soranzo, pp. XI, XV, XXIV, LXXVII s., LXXXII, CV; Cronica gestorum in partibus Lombardie…, in Rer. Ital. Script., 2ediz., XXII, 3, a cura di G. Bonazzi, pp. 11, 67, 96;D. Bossi, Chronica, s.n.t. (ma Mediolani 1492), p.XI; G. A. Del Prato, De rebus Mediolanensibus sui temporis, in Arch. stor. ital., III(1842), pp. 252, 302, 338;A. da Paullo, Cronaca milanese…, in Misc. di storia ital., XIII(1871), pp. 105, 158;M. Sanuto, Diarii…, I, Venezia 1879, coll. 304, 361; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese… di Milano, I, Milano 1889, p. 195; Dispacci e lettere di G. Gherardi, a cura di E. Carusi, Roma 1909, pp. 64, 67, 80, 82, 87, 90, 92, 107, 111, 182, 185, 187, 197, 200 s., 205, 207, 217, 219, 254, 260, 266, 270, 273, 290 s., 353, 391, 448, 497, 509, 524 s., 545 s., 548-50; Gli uffici del dominio sforzesco, a cura di C. Santoro, s.n.t. (ma Milano 1948), pp. XXII, XXIV s., 49, 52, 70, 262; I diari di Cicco Simonetta, a cura di A. R. Natale, Milano 1962, pp. 240, 260; Acta in Consilio secreto Mediolani, a cura di A. R. Natale, I-III, Milano 1963-1969, ad Ind.; Gli offici del Comune di Milano e del dom. visconteo-sforzesco, a cura di C. Santoro, Milano 1968, pp. 200, 208, 211-13, 364;G. A. Sassi, Hist. literario-typographica Mediolanensis, Mediolani 1745, coll. XXXIV, CVII s., CLXXXIV, CLXXXVI s., CCLXXVII, CCCCXXXVI s., CCCCLXVI, DVIII s., DLXVI, DXCVII; G. D'Adda, Indagini … sulla libreria visconteo-sforzesca del castello di Pavia, I, Milano 1875, pp. 109, 151-154, 157 s., 167;II, Milano 1879, pp. 80-82, 84 s., 128 s.; H. Noiret, Huit lettres inédites de Démétrius Calcondyle, in Mélanges d'archéol. et d'hist., VII (1887), pp. 466 s.;F.Gabotto, Giason Del Maino…, Torino 1888, pp. 88, 167, 170, 195, 209, 276, 283, 286 s., 292;F. Calvi, Bianca Maria Sforza Visconti…, Milano 1888, pp. 11, 17, 22, 44, 128, 151, 168;E. Motta, Morti in Milano dal 1452 al 1552, in Arch. stor. lomb., XVIII (1891), pp. 269, 279; F. Gabotto-A. Baffini Confalonieri, Vita di Giorgio Merula, in Riv. di storia, arte, archeol. della prov. di Alessandria, II (1893), p. 331; III (1894), pp. 16-22, 26-28, 31-36, 40 s., 44, 51, 55, 160, 165-167, 171, 322, 324, 327 s., 335, 338, 344-46; A. Ratti, Del monaco cisterciense don Ermete Bonomi milanese, in Arch. stor. lomb., s. 3, III(1895), p. 329;L.-G. Pélissier, Louis XII et Ludovic Sforza, I, Paris 1896, pp. 146 149; II, ibid. 1897, pp. 15, 220, 256, 296, 310: 334, 393;J. Cartwright, Beatrice d'Este…, London-New York 1899, pp. 114, 125 s., 131;L. Delarnelle, Une vie d'humanzste…, in Mélanges d'archéol. et d'hist., XIX (1899), p. 30;G. Fogolari, Ilmuseo Settala, in Arch. stor. lomb., s. 3, XIV (1900), p. 62;G. Benaducci, Prose e poesie volgari di Francesco Filelfo, in Atti e mem. della Soc. di storia patria per l'Umbria, V (1901), pp. 232-234;A. Simioni, Un umanista milanese, P. Piatti, in Arch. stor. lomb., s. 4, II (1904), pp. 11, 293;L.-G. Pélissier, Documents relatifs au régne de Louis XII, Montpellier 1912, pp. 270-272;F. Malaguzzi Valeri, La corte di Lodovico il Moro. Bramante e Leonardo da Vinci, Milano 1915, pp. 132, 155, 157, 240, 433, 470;A. Dina, Isabella d'Aragona…, in Arch. stor. lombardo, s. 5, VIII (1921), pp. 280, 292, 369; P. Negri, Studi sulla crisi italiana alla fine del secolo XV, ibid., X (1923), p. 25;F. Malaguzzi Valeri, La corte di Lodovico il Moro. Le arti industriali, la letteratura, la musica, Milano 1923, pp. 74, 105, 109-111, 138, 148, 151, 171, 197, 253; L. v. Pastor, Storia dei papi, III, Roma 1925, pp. 341, 1021;F. Malaguzzi Valeri, La corte di Lodovico il Moro. La vita privata e l'arte…, Milano 1929, pp. 42, 51, 108, 171, 182, 288, 290, 305, 312, 318, 326, 334, 364, 377, 403, 419, 422, 424-427, 443 s., 486, 492, 542, 680; Z. Arici, Bona di Savoia…, Torino s.d. (ma 1935), pp. 138, 150 s., 168 s., 173, 201-043 209-11, 216; C. Santoro, Contributi alla storia dell'amministrazione sforzesca, in Arch. stor. lomb., s. 7, IV (1939), pp. 37, 40, 78; A. P[erosa], Docc. di polemiche umanistiche, in Rinascimento, I (1950), pp. 179-181;M. Santoro, La polemica Poliziano-Merula, in Giorn. ital. di filol., V (1952), pp. 213-215, 233; C. Santoro, Un registro di doti sforzesche, in Arch. stor. lomb., p. 8, IV (1953), pp. 137, 148, 150; G. Cammelli, Idotti bizantini e le origini dell'Umanesimo, III, D. Calcondila, Firenze 1954, pp. 105, 107 s., 111 s., 114 s., 121; C. Santoro, Un codice di Bona di Savoia, in Arch. stor. lomb., s. 9, V (1954-55), p. 278;F. Catalano, Ilducato di Milano, in Storia di Milano, VII, Milano 1956, pp. 392 s., 395; Id., La crisi politicasociale, ibid., pp. 475, 525 s., 562, 573, 588-591; G. P. Bognetti, La città sotto i Francesi, ibid., VIII, ibid. 1957, p. 32; R. Levi Pisetzky, L'apogeo dell'eleganza milanese, ibid., p.759; E. Cattaneo, Istituzioni ecclesiastiche milanesi, ibid., IX, ibid. 1961, p. 586; I. Maïer, Les manuscrits d'Ange Politien, Genève 1965, pp. 195, 237, 264, 267; Id., Ange Politien…, Genève 1966, p. 437; L. Cerioni, La cancelleria sforzesca durante il ritorno del Moro, in Arch. stor. lomb., s. 9, V-VI(1966-67), p. 141; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci…, Firenze 1967, p. 139; F. Chabod, Lo Stato e la vita religiosa a Milano, s.n.t. (ma Torino 1971), p. 231; Bibliographie hellénique, a cura di E. Legrand, I, Paris 1885, p. XCIX; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, ad Indicem, p. 462; II, ad Indicem, p. 635.