CAMBI, Bartolomeo (Bartolomeo da Salutio)
Nato a Socana, nel Casentino, il 3 apr. 1558 da Giacomo e Camilla, contadini, gli venne imposto il nome di Grazia. Trascorse l'infanzia fra i lavori dei campi, occupandosi dell'allevamento delle pecore. Un vicino di casa, di nome Paolino, e il parroco del paese lo avviarono agli studi e alimentarono una precoce vocazione religiosa. Dopo un fallito tentativo di entrare nel convento domenicano di Bibbiena, fu accettato fra i francescani osservanti della Verna: qui vestì l'abito religioso il 28 apr. 1575. Assunse allora il nome di Bartolomeo, a cui aggiunse l'appellativo "da Salutio" in omaggio al padre (forse originario da Salutio o dimorante in quella località quando il figlio si fece frate). Una volta entrato nell'Ordine francescano, gli fu possibile coltivare meglio quell'amore per le lettere che aveva avuto una non trascurabile importanza nella sua scelta della vita religiosa. Completò la sua formazione prima nel convento di S. Romano, alla scuola del padre Ludovico da Colle, poi ad Assisi nello Studio dell'Ordine. Fu in quegli anni che il C. si familiarizzò non soltanto con la tradizione teologica francescana e in particolare col pensiero di Duns Scoto, ma anche - se non prevalentemente - con la tradizione poetica, mistica e profetica dell'Ordine: ne danno prova le forme e la tematica della sua predicazione, nonché la ricchissima produzione letteraria dei suoi ultimi anni.
Le non comuni capacità intellettuali del C. e il suo fascino personale gli fecero assumere rapidamente posizioni di notevole responsabilità nell'ambito dell'Ordine. Nominato lettore di arti alla Verna nel capitolo generale del 1584, passò successivamente a S. Romano, a Bosco di Mugello, a Volterra e ancora alla Verna (1587). Nel 1593 lo troviamo lettore di teologia nel convento dell'Aracoeli a Roma.
A questo periodo risale un episodio curioso, rivelatore del carattere impulsivo del C., poco tollerante di una rigida disciplina. Mentre egli predicava la quaresima a Napoli, una visita apostolica effettuata da Clemente VIII nel convento dell'Aracoeli condusse alla scoperta nella sua cella di un "leuto e altre bagattelle". Chiamato a giustificarsi davanti al visitatore apostolico e al segretario della Congregazione dei Regolari, il C. tentò in un primo momento di sostenere che le cose trovate nella cella non erano sue: convinto di falsità, imbarazzato e intimorito, infilò a precipizio la porta del convento. Subito dopo lasciò anche Roma e si trasferì a Genova, dove si guadagnò da vivere come precettore in casa Spinola. Si trattò dunque di una vera e propria apostasia, anche se di breve durata.
Dopo pochi mesi rientrò nell'Ordine; fu, in un primo momento, relegato in convento a Siena, ma già nella quaresima del 1595 fu incaricato di predicare a Empoli. A questo episodio si deve però la "conversione" del C., nel senso che, dopo di esso, egli tentò di realizzare un ideale di vita religiosa rigidamente ascetico: nel 1597 si recò alla Verna col proposito di entrare nel romitorio. L'anno successivo, e precisamente il 24 agosto, il padre provinciale gli concesse un permesso scritto col quale lo autorizzava a vivere nel romitorio. Questa fase di inquietudini e di meditazioni si concluse coll'ingresso del C. in uno dei conventi "riformati" dell'osservanza francescana, quello di Fiesole, dove entrò nel novembre del 1598. A partire da questo momento egli divenne una delle figure di maggior spicco del movimento della "riforma" francescana, del cui programma si fece difensore due anni dopo davanti a Clemente VIII con la richiesta della completa separazione dei riformati dal resto dell'Ordine; eletto custode dei conventi riformati della Toscana, dovette però ben presto (1601) abbandonare tale carica per la resistenza che i suoi rigidi metodi di governo incontrarono in due conventi.
Riprese allora, libero da preoccupazioni di governo, che mal gli si addicevano, l'attività di predicatore. Già nel 1599 il C. aveva predicato pubblicamente in Firenze, in forme e modi che alle autorità diocesane sembrarono troppo vicini a quelli della tradizione savonaroliana, allora politicamente sospetta: da ciò la proibizione, da parte del vicario vescovile, di predicare in diocesi.
Non ci sono stati conservati i testi delle sue prediche; sappiamo però che il C. amava parlare all'aperto, in mezzo alla folla, portandosi dietro una gran croce di legno, e che i suoi appelli alla penitenza prendevano di mira i costumi dell'epoca (quelli del clero in particolare) minacciando gli impenitenti con oscure profezie di punizioni divine. Le tensioni politiche e sociali che quel tipo di predicazione minacciava di scatenare furono la causa dei divieti fattigli in diocesi di Firenze e dei cattivi rapporti che il C. ebbe col cardinale Alessandro de' Medici. Dopo aver rinunziato alla carica di custode dei riformati di Toscana fu invitato a predicare a Roma, ma l'opposizione del cardinale gli valse un nuovo divieto.
Nel 1602 si svolse in più famoso e tumultuoso ciclo di prediche del C.; nel corso di esso si vide quanto fosse meritata la sua fama, ma si rivelò anche pienamente la pericolosità di quel veicolo delle tensioni collettive. Invitato dal papa a passare da Genova, dove predicava per l'avvento, a Venezia, egli attraversò tutta l'Italia settentrionale, facendo tappa in numerose città dove la sua infiammata parola scatenò moti e passioni non sempre facilmente controllabili. Dopo Pavia e Piacenza giunse a Cremona, preceduto dalla fama di un successo crescente. Il vescovo di Cremona, Cesare Speciano, era stato preavvisato da Roma della natura del personaggio che si preparava a ricevere e invitato a vigilare e a dare completa relazione sul comportamento del C.: prova evidente di un atteggiamento cauto e sospettoso, che doveva trovare piena giustificazione nei fatti. Il bersaglio polemico del C. fu costituito dalle "vanità" e in particolare dai "ciuffi", l'acconciatura dei capelli così diffusa in quell'epoca. Cremona vide, ripetersi fenomeni che erano stati tipici dell'attività di s. Bernardino da Siena e del Savonarola: bruciamenti di vanità, orde di "fanciulli" scatenati per la città. Il successo della predicazione fu tale che il 14 ag. 1602 il Consiglio della Comunità gli conferì la cittadinanza onoraria. Da Cremona il C. passò a Parma (il 12 luglio) e a Reggio (il 18 luglio), e in ambedue le città predicò con grande successo; si trasferì in seguito a Modena, dove però si scontrò probabilmente con qualche resistenza, poiché ne ripartì quasi immediatamente il 26 luglio senza aver potuto predicare. Richiamato subito indietro con la promessa di lasciargli piena libertà nella scelta dei temi da trattare, tenne un regolare ciclo di prediche alla fine del quale si trasferì a Carpi. Verosimilmente le resistenze erano dovute al timore di disordini e di sommosse popolari contro gli ebrei, che godevano nei territori estensi di un trattamento particolarmente mite e contro i quali il C. indirizzava infiammate concioni. Di fatto, il 27 e il 28 luglio egli predicò a Modena protestando pubblicamente perché gli ebrei non portavano un segno che li distinguesse e, nella stessa data, fu pubblicata una grida di Cesare d'Este nella quale si faceva obbligo agli ebrei di "portare un segno di color rancio o giallo". Un altro fra i temi preferiti dal C. nella sua battaglia contro gli ebrei era la richiesta dell'istituzione dei ghetti; nella predicazione tenuta subito dopo a Mirandola egli trattò in maniera particolare di questo argomento e riuscì a ottenere che venisse creato un ghetto.
La tappa successiva del tumultuoso viaggio del C. fu Mantova: vi giunse il 7 agosto, accolto come al solito da una gran folla, e il 10 iniziò a predicare. I temi non furono diversi da quelli consueti: trattò della corruzione dei costumi, accennando in particolare all'esercizio della prostituzione e alla moda dei "ciuffi". Ma soprattutto si scagliò contro gli ebrei mantovani e contro chi li proteggeva e se ne faceva corrompere, accusandoli di aver tentato di impedirgli di predicare con offerte di danari ai francescani di Mantova.
Il C., nella veemenza della sua violenta oratoria, fece ricorso a oscure profezie di sventura dichiarando di essere ispirato da Dio; e non si fece intimidire dalla presenza del duca che ascoltava la predica insieme con la famiglia, anzi gli indirizzò le più aspre accuse e minacce, affermando che per sua colpa gli ebrei si trovavano in possesso degli uffici più lucrosi nello Stato e "dicendoli che se mai andarà a casa del diavolo..., li diavoli in forma di porchi cinghiali li devoreranno et lacerrarano il corpo, et inoltre altre cose contro ministri, attribuendo loro gran colpa de' peccati de' prencipi perché non le rappresentano le cose con verità e sincerità" (relazione di Egidio Spinazzi del 10 ag. 1602, in Silvestri, pp. 374 ss.). Il Popolo che affollava la piazza era trascinato dalla violenza e dall'audacia del predicatore: "quattro o cinque volte almeno le turbe invitate et eccitate da lui che a gran voce gridava: misericordia, rispondevano quattro et cinque volte: misericordia!, con un pianto di donne inenarabile, et un streppito così grande che assordava il luogo" (ibid.). L'efficacia dell'oratoria del C. era moltiplicata dalla fama di taumaturgo rapidamente diffusasi, nonché dai fatti che dimostravano concretamente la sua capacità di opporsi alla volontà dei potenti, come il rifiuto di ammettere alla comunione i giovani nobili che portavano il "ciuffo". Il clima creato da quella predica fu tale che il duca ritenne necessario "armare molti soldati per diffesa della publica quiete" (lettera di A. Chieppio, 14 agosto, ibid., pp. 376 s.).
L'inquietudine che si era diffusa nella popolazione aspettava solo un pretesto per scatenarsi contro gli ebrei, e il pretesto fu fornito da una parodia della predica che alcuni di essi fecero la sera stessa; arrestati immediatamente, dovevano venir giudicati dal tribunale episcopale, ma il C. nella sua predica dell'11 agosto li additò al furore popolare, dichiarandoli rei di lesa maestà umana e divina e minacciando una sollevazione popolare contro il duca se non si fosse fatta giustizia immediata. Le sue richieste non si fermavano qui: voleva l'espulsione di tutti gli ebrei dalla città e dal territorio e prometteva le più terribili punizioni divine se il duca si fosse rifiutato di ascoltarlo. La grave situazione creatasi in città fu risolta con una serie di provvedimenti: l'impiccagione immediata dei sette ebrei responsabili di "haver schernita... la parola di Dio" (Sarri, p. 68) e l'esilio perpetuo per i loro parenti stornarono il pericolo di una rivolta popolare, mentre una guardia armata impediva al C. di uscire dal convento e di mettersi a capo della folla. L'intervento del vescovo e dell'inquisitore e la minaccia di informare di tutto il papa indussero il C. a un atteggiamento più conciliante. Mentre egli lasciava Mantova per Ferrara, il duca Vincenzo fece redigere un processo relativo a quanto era avvenuto e inviò a Roma un ambasciatore straordinario, Alessandro Striggio, per richiedere appunto l'intervento del pontefice. Clemente VIII rispose manifestando "grandissimo dispiacere et amaritudine" a causa degli "eccessi del frate et del modo del predicare tenuto da lui" (ibid., p. 75), contro il quale prese immediati provvedimenti richiamandolo a Roma.Il C. aveva intanto già avuto le prime avvisaglie di ciò che lo attendeva: a Ferrara dovette rassegnarsi a non parlare degli ebrei, limitandosi a chiedere l'istituzione del Monte di Pietà e della Confraternita delle stimmate; a Venezia il patriarca gli proibì di predicare. Infine, mentre era in viaggio per Bologna, dove era stato invitato dal cardinale A. Paleotti, dovette tornarsene a Ferrara e da lì fu obbligato a recarsi immediatamente a Roma il 2 sett. 1602. Relegato nel convento di S. Francesco a Ripa, poté riprendere a predicare solo nella quaresima del 1605 all'Aracoeli a patto però di non toccare il tasto della polemica antiebraica; il breve intermezzo del pontificato del suo antico avversario il cardinale Medici, papa col nome di Leone XI, portò a una sospensione dei quaresimali, ripresi dopo l'elezione di Paolo V.
Nella seconda metà del 1605 lo troviamo in ascetico ritiro nel convento di Fonte Colombo, presso Rieti, dove trascorse un lungo periodo tra estasi mistiche e improvvisi slanci profetici; durante le solitarie meditazioni usciva improvvisamente in estemporanee tirate poetiche, ridondanti di oscure immagini apocalittiche dove si prevedevano sventure per la "povera Italia", per i cardinali, il papa e tutti i "grandi prelatoni che mangiano i bon bocconi" (ibid., p. 454). La rapida divulgazione manoscritta di questi testi. dove la tradizione poetica e profetica dell'Ordine si faceva veicolo di inquietudini e fermenti religiosi, sociali e politici largamente diffusi, spinse le autorità ecclesiastiche ad occuparsi di nuovo di lui; Il 30 ag. 1606 il cardinal Baronio scrisse al padre guardiano del convento per fargli sapere che il papa era preoccupato per queste "occulte revelationi" che si dovevano "occultargli piuttosto che rivelargli al popolo" (ibid., p. 99). Il 10 maggio 1607 il C. fu prelevato e condotto a Roma, nel convento di S. Francesco a Ripa, dove fu costretto a vivere nella più completa segregazione. Trasferito in seguito, dietro sua richiesta, in S. Pietro in Montorio, vi trascorse l'ultima parte della sua vita. Morì il 15 nov. 1617.
L'attività letteraria del C. fu straordinariamente intensa: costretto al silenzio come predicatore, riversò i frutti delle sue meditazioni e dei suoi slanci mistici in una produzione scritta estremamente abbondante, che ebbe immediata e larga fortuna attraverso la stampa oppure, nel caso delle profezie, tramite la circolazione manoscritta. La più ampia raccolta a stampa dei suoi scritti è quella uscita a Venezia nel 1639col titolo: Opere spirituali del R. P. F. Bartolomeo da Saluthio, Min. Osser. Riformato. Divise in due parti. Utilissime, e di notabile profitto per la salute delle anime... Ma i singoli testi ivi raccolti, con la sola esclusione delle lettere del C., avevano già conosciuto varie edizioni precedenti (vedine l'elenco in: Bartolomeo da Salutio, Il Sacro cigno. Prose e poesie scelte, a cura di F. Sarri, Firenze 1924, pp. 1-10).
La segregazione del C. non aveva impedito ai confratelli di raccoglierne gli scritti o di trascrivere personalmente le composizioni che gli uscivano dalla bocca ("a guisa di gratioso rosignuolo celeste", come scriveva nel 1609fra' Giorgio da Fiano nella dedica dell'Alfabetodel divino amore), passando subito i testi agli editori. La prima opera a stampa fu il Testamento dell'anima (Siena 1604), trattatello sull'orazione trasmesso dal C. al sacerdote senese Bartolomeo Neri. Nel 1606 venne stampata a Mantova e a Bologna la Copia d'una lettera scritta alli signori venetiani, piena di affettuosissima carità, che il C. aveva scritto a Fonte Colombo nel giugno di quell'anno; in essa si invitavano i Veneziani a non volersi allontanare dall'obbedienza alla S. Sede e a non voler spingere fino alla rottura la controversia che prese nome dall'interdetto di Paolo V. Già negli anni precedenti il C. aveva indirizzato lettere a intere comunità cittadine: se le sue argomentazioni politico-religiose del 1606 conobbero una diffusione a stampa si dovette alla particolare rilevanza del conflitto tra il papa e Venezia. Ma fu negli anni successivi, quelli della definitiva relegazione nel convento romano, che si ebbe la fioritura dell'attività letteraria del C., in prosa e, soprattutto, in versi. Si tratta di opere dove la materia teologica e morale (desunta da autori che vanno da s. Bonaventura a Duns Scoto, Antonio da Atri e Serafino da Fermo, allo Herp e ai mistici spagnoli) si incontra con una educazione letteraria formata su autori come Dante, Iacopone da Todi, il Tasso. Si ricordano in particolare: il poema in ottave Vitadell'anima, in trentacinque canti, stampato nel 1614 ma redatto nel 1611, dove la meditazione sulla passione di Cristo è infarcita di curiose affermazioni (per esempio, sul valore taumaturgico del nome di Cristo contro i veleni e le suocere); la Porta della salute (stampato nel 1621), trattatello di preparazione alla confessione in forma di dialogo tra il C. e tre personaggi che hanno i nomi di Tenebroso, Pauroso e Scrupoloso; i numerosi scritti che si richiamano variamente all'amore divino (Inventioni d'amore, Scuola del divino amore, L'amoroso discepolo,Alfabeto del divino amore, Cuore dell'anima amorosa, L'innamorato di Giesù, Compagnia dell'amore, Praticello del divino amore)ridondanti di immagini erotiche e sensuali. Di notevole interesse storico è inoltre l'epistolario, attraverso il quale il C. mantenne un'ampia rete di contatti durante la sua reclusione, indirizzandosi a singoli e a intere collettività cittadine e contadine.
Bibl.: P. F. Sarri, Ilvenerabile B. C. da Salutio (1557-1627), oratore, mistico, poeta, Firenze 1925 (con esauriente indicazione di fonti e bibliografia); A. Silvestri, Le prediche del P. B. C. da Salutio, O.F.M. Rif., in Mantova nel 1602, in Miscellanea francescana, XLVIII (1948), pp. 368-384; A. van den Wyngaert, Barthélemy de Salutio, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Eccl., VI, Paris 1932, coll. 1025-1026.