CARDUCCI (in Spagna Carducho), Bartolomeo
Pittore fiorentino, svolse la maggior parte della stia attività in Spagna, dove ebbe numerose e importanti commissioni, come Pompeo Leoni suo amico, nell'ambito dei vasti lavori promossi da Filippo II, da Filippo III, dal duca di Lerma, a Madrid, all'Escorial, a Valladolid, nel rinnovamento di cappelle delle chiese e conventi maggiori della capitale, di Segovia, di Manzanares, ecc.
Ai suoi tempi il C. godette di solida fama come dimostrano la citazione elogiativa che ne fa Lope de Vega nella sua Jerusalén Conquistada, inserita già in corso di stampa per la sopravvenuta morte del pittore (Angúlo Iñiguez-Pérez Sánchez, p. 17) e le pagine che gli dedicano, oltre ovviamente al fratello Vincenzo e al Baldinucci, i trattatisti spagnoli del Seicento, il Pacheco, il Martinez. Oggi, respingendo la tradizione critica spagnola che lo vedeva solo quale tipico esponente dell'ambiente accademico escurialense della fine del Cinquecento, gli si riconosce una funzione di primo piano nel superamento in Spagna della cultura figurativa di radice più strettamente manieristica, importata dall'Italia con scambi continui lungo tutto il secolo, e nel maturare, anche tra gli artisti spagnoli, di tendenze naturalistiche più ligie allo spirito della Controriforma, miranti ad una convincente verosimiglianza dell'immagine dal punto di vista compositivo e cromatico secondo gli orientamenti fiorentini dell'ultimo quarto del secolo.
Il Baldinucci lo dice nato a Firenze nel 1560; recenti ricerche nei Registri dei battezzati in Firenze (Archivio dell'Opera del duomo, lettera A-G, c. 74r) hanno invece rilevato che tra il 1542 e il 1561 un solo Bartolomeo (di Francesco di Giuliano) Carducci nasce nel Popolo di S. Piero a San Gersolé il 26 ag. 1556, ma ad ostacolare l'accettazione del nuovo dato è il fatto che in una domanda di ammissione all'Accademia del disegno di Firenze del 1593 (Colnaghi; Thiem), il pittore viene indicato come Bartolomeo di Santi Carducci. Da Vincenzo Carducci e dal Baldinucci sappiamo che all'incirca diciottenne, dopo aver fatto per qualche tempo pratica di scultura e pittura sotto la direzione dell'Aminannati, si trovò a lavorare alle dipendenze di Federico Zuccari nella decorazione ad affresco della cupola del duomo di Firenze, eseguita tra il 1574 e il 1579. Seguì poi con il Passignano, suo coetaneo e compagno nell'impresa della cupola, lo Zuccari a Roma, collaborando ai lavori della cappella Paolina in Vaticano, soprattutto alle decorazioni in stucco (per i pagamenti, v. Bertolotti, 1876), ma nel corso dell'opera fu anch'egli coinvolto nel processo intentato contro il maestro e i suoi aiutanti per aver dipinto un maligno quadro intitolato Porta virtutis, esposto in occasione della festa dei pittori nella chiesa di S. Luca con esplicite spiegazioni dei suoi reconditi significati, ritenuti offensivi da potenti personalità della corte pontificia. Esiliato lo Zuccari, che riparò a Venezia, il C. ritornò a Firenze dove ebbe l'incarico, tra l'altro, della decorazione a stucco e affresco di ben tre cappelle della nuova chiesa di S. Giovannino dei gesuiti (poi degli scolopi), appena costruita dall'Ammannati (Baldinucci).
Benché tutti questi lavori siano andati distrutti in successivi rifacimenti, salvo un malvisibile affresco con la Preghiera nell'orto, bisogna ritenere che questo ritorno a Firenze, proprio negli anni in cui le già concrete proposte di rinnovamento in senso naturalistico ivi avanzate da Santi di Tito venivano arricchendosi ad opera di più giovani pittori, quali il Cigoli e il Pagani, di un vivo interesse per l'impasto cromatico più ricco e morbido dei Veneti e del Baroccio, sia stato importante per il C. e per i suoi successivi progressi in questo senso, favoriti dalla ricca collezione di pitture venete di Filippo II in Spagna.
Già nel 1585, di nuovo insieme allo Zuccari ed altri egli è presente e pagato per lavori all'Escorial; documenti relativi all'anno successivo specificano la sua partecipazione alla serie di affreschi del chiostro inferiore (Zarco Cuevas, 1931). Seguì qualche difficoltà, sembra per lo scarso successo ottenuto dallo Zuccari con i suoi lavori, ma mentre quest'ultimo, con gli altri aiutanti ritornava deluso in patria, il C. rimase definitivamente in Spagna, sposandosi dopo qualche anno con Jeronima Cappello e avviando accanto alla attività professionale una attività commerciale di mediatore di quadri, specialmente dei suoi amici pittori fiorentini, Pagani, Passignano, ecc. (e nelle Notizie del Baldinucci ricorrono infatti numerosi accenni a quadri mandati in Spagna). Forse lavorò anche come aiuto del Tibaldi nella biblioteca dell'Escorial. e nel 1593 risulta che una sua domanda di iscrizione all'Accademia del disegno di Firenze fu presentata, forse per delega, da Gregorio Pagani (Thiem). Comunque riuscì a consolidare la sua posizione fino ad essere nominato nel 1598 "pintor del rey" con tutti i privilegi connessi al titolo, mentre si infittivano gli incarichi per la corte, per chiese e conventi, un'attività di cui oggi nel complesso poco sopravvive.
Già le non molte opere note dell'ultimo decennio del Cinquecento e soprattutto l'eccezionale Morte di s. Francesco (1593)del Museo di Lisbona, la Deposizione dalla croce del Prado (1595;proveniente dal convento di S. Felipe el Real di Madrid), le undici Storie di s. Lorenzo del chiostro superiore del monastero dell'Escorial (1598)evidenziano l'apporto decisivo del C. in ordine ad una impostazione semplice e narrativa della iconografia sacra, sostenuta da gesti e ambientazioni sobri e comuni, illusiva verità di particolari ed una materia cromatica duttile e veloce che certamente aveva trovato nello ambiente escurialense, nelle opere del Navarrete e nelle raccolte di pittura veneta, Tiziano soprattutto, ma anche Tintoretto, Bassano, ecc., molti incentivi. Fu il Longhi nel 1927a suggerire per primo la funzione portante di questo ed altri innesti toscani, e in particolare oltre al C. il fratello Vincenzo, recatosi da ragazzo con lui in Spagna e formatoglisi accanto, nei confronti del naturalismo spagnolo dei primi anni del secolo, di Ribalta, di Tristán, di Roelas e di altri le cui radici culturali egli staccava decisamente da quelle della pittura violentemente innovatrice, caravaggesca, di Velázquez. Ed ora la critica spagnola più aperta ed insofferente di schemi interpretativi troppo ristretti entro un orizzonte esclusivamente nazionale (Angúlo Iñiguez-Pérez Sánchez) ha fatto sua la fondamentale verità di quella intuizione che dovrà solo essere meglio specificata attraverso l'analisi dei singoli contributi e delle relazioni individuali.
Proprio all'aprirsi del secolo la Epifania del C. nell'Alcázar di Segovia (1600) innesta su un tipico schema compositivo toscano, destinato a diffondersi largamente in Spagna e ben accetto fino al giovane Velázquez e a Zurbarán, interessi più accentuati per la ricchezza fluida della materia pittorica veneta, fin per certi virtuosismi di Tiziano tardo, che trovano eco soprattutto nel valenzano Ribalta, appena allontanatosi da Madrid. Ma il seguito più interessante dell'attività del C. non è tanto da cercare nella nota Ultima Cena del Prado (1605) proveniente dall'oratorio della Regina nell'Alcázar di Madrid, quanto in certe opere compiute durante il soggiorno a Valladolid, dove si era trasferita la corte fra il 1601 e il 1606. Qui egli lavorò soprattutto per il potente duca di Lerma, nel palazzo di quest'ultimo e nei conventi di S. Paolo e di S. Diego posti sotto il suo patronato, in S. Andrea. Restano alcune tele nel Museo di Valladolid, tra le qualiin particolare il S. Diego in estasi e la Annunciazione circondati da un tripudio festoso di angeli volteggianti fra le nuvole, pittoricamente macchiati d'ombra, che non possono disgiungersi dalla considerazione che negli stessi anni, nello stesso palazzo di Lerma e con analoghi entusiasmi per i grandi maestri veneti, ma con altro genio, lavorava di passaggio il giovane Rubens. Il problema investe anche il fratello Vincenzo, probabile collaboratore in questa fase del Carducci. Al ritorno a Madrid il C. cominciò a preparare fra l'altro i cartoni per una serie di pitture celebrative delle Imprese di Carlo V per il palazzo del Pardo ma non riuscì a realizzare la opera per il sopraggiungere della morte il 14 nov. 1608.
La vedova e i figli continuarono a godere a lungo di rendite reali sia pure, come al solito, pagate con difficoltà e ritardi enormi, mentre Vincenzo ne ereditò la posizione a corte e le ampie relazioni con l'ambiente artistico entro il quale egli si sarebbe mosso con l'impegno di un raffinato intellettuale.
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