CAVASSICO, Bartolomeo
Nacque intorno al 1480 a Belluno da Troilo e Margherita di Campo. Il padre era notaio, non ricco, ma bene introdotto presso la più facoltosa clientela cittadina che gli fu prodiga di onori riconoscendolo come proprio rappresentante in numerose magistrature. Il C. compì i primi studi in patria trasferendosi successivamente prima a Perugia e poi a Padova onde completare la propria preparazione sia giuridica che letteraria. Morto il padre, gli successe nella professione a Belluno, ove già esercita nel 1508; il 17 apr. 1509 gli viene riconosciuto il titolo di notaio con un atto firmato dal vescovo e dal conte di Belluno Bartolomeo Trevisan.
Ha inizio da questa data un esercizio attivissimo (e, sembra, abbastanza proficuo) della professione notarile, di cui resta testimonianza in due protocolli conservati nell'Archivio notarile di Belluno relativi ad atti rogati dall'ottobre del 1509 al dicembre del 1544. Contemporaneamente al disbrigo della professione notarile, il C. non trascurava di evidenziare la propria cultura letteraria in un originale esercizio poetico che, intrapreso negli armi giovanili (forse durante il periodo trascorso presso l'università di Padova) continuò sino alla vecchiaia, né si sottraeva agli incarichi pubblici, che erano tradizionali in famiglia, accettando, il 5 luglio 1512, l'ammissione nel Consiglio dei notabili di Belluno.
Nell'ambito del Consiglio egli offrì la propria esperienza giuridica nel disbrigo degli affari politici e amministrativi della città, come sollecito alla soluzione di pratiche incombenze si dimostrò nella direzione della numerosa famiglia di cui era divenuto il capo alla morte del padre. Il 25 luglio 1511 aveva sposato la nobile e ricca Margherita Persicini, dalla quale ebbe tre figli: Troilo, Dario e Orazio. Quest'ultimo, avviato dal padre alla carriera notarile, gli successe in effetti nella professione e lo sostituì nel Consiglio dei notabili di Belluno quando il C. si spense, nella città natale, il 4 marzo 1555.
Forse per nessuno scrittore cinquecentesco la varietà degli interessi è così minutamente documentata come per il C., il quale lasciò cospicue testimonianze della, propria curiosità culturale. La viva partecipazione alla storia e alle vicende politiche di Belluno è documentata da un codice redatto personalmente dal C. e intitolato Privilegi et iurisditione del Conseio da Cividal de Belluno con alchune decisione con il populo "copiateper mi Bartholomeo Cavassico nodaro: comenzando detto copiar del anno 1546 indictione quarta, alli 23 decembrio. Con el nome delli signori che hanno posseduto questa cità et inoltre altre cosette".
Il manoscritto si apre con la serie onomastica di tutti i rettori di Belluno dall'anno 1420 e continua con un Repertorio diappunti riguardanti fatti politici particolarmente importanti per la città soprattutto per quel che concerne i rapporti tra Belluno e Venezia, ove più attendibile si rende la trascrizione di esperienze personali maturate dal notaio nell'ambito del Consiglio dei notabili di Belluno.
Testimone dei precoci interessi letterari dell'autore è un manoscritto che si conserva nel Museo civico di Belluno intitolato dal C. stesso Memoriale mei Bartholomei Cavassici notarii civis Bellunensis. Sitratta di una sorta di brogliaccio, in massima parte composto negli anni giovanili, in cui il C. veniva annotando tutto ciò che di più rimarchevole gli offrisse la consultazione di testi letterari o giuridici, sia in latino sia in italiano. Si susseguono così, senza accordarsi in un ordine precostituito, ma obbedendo a una scelta di occasionali letture, sentenze tratte da Cicerone e da Seneca, annotazioni storiche o di costume risalenti a Valerio Massimo, Livio, Lucano, etimologie ricavate da Isidoro di Siviglia, questioni morali sollevate da autori cristiani (s. Agostino e s. Girolamo), aneddoti tratti da Valerio Massimo, Marziale e, tra gli umanisti, da Leonardo Aretino e dal Panormita; ma è soprattutto la lirica amorosa, da Properzio a Orazio e a Ovidio, che è presente, per citazioni di prima o di seconda mano, nel Memoriale del bellunese: citazioni alle quali sicuramente egli affida le proprie esperienze giovanili e che offrono il primo schermo letterario, alquanto meccanico e libresco, per la loro espressione.
Ad arricchire la già eterogenea messe di materiali presenti nel Memoriale interviene poi tutta una serie di annotazioni che sospinge il C., nonostante il nutrito patrimonio di reminiscenze classiche, entro i confini di interessi tipicamente medievali: una genealogia dei vizi e dei peccati umani facente capo a Satana, ricettari medici suggeriti secondo le più diffuse superstizioni del tempo, iscrizioni da altari di chiese e cronologie di magistrati, versi di tradizione popolare, in latino o in dialetto, sentenze e proverbi collocano lo zibaldone del C. nel solco dei florilegi moralidi cui fecero largo uso gli enciclopedisti del Medioevo iscrivendosi altresì nel genere delle "ricollette", minute di appunti, note, citazioni, di cui l'ambiente studentesco dell'epoca ci ha conservato vari esemplari.
Sotto questo aspetto il Memoriale del notaio bellunese illustra le condizioni di tutta una zona culturale (periferica, se si vuole, ma non certo isolata) dell'Italia cinquecentesca, colte attraverso la figura socialmente tipica dell'intellettuale ancorato al disbrigo di pubbliche incombenze in seno alla nativa civitas, ma documenta anche come questa fitta rete di interessi culturali tendesse ad accamparsi in un'opera autonoma dall'attività pratica, a valere, se non altro per la sua sterminata varietà, indipendentemente dalla funzione civile svolta dall'autore.
Il codice di rime del C., autografo e conservato nella biblioteca del Museo civico di Belluno, contiene sonetti satirici, amorosi e morali, canzoni e capitoli in terza rima, disperate, strambotti, barzellette, lamenti storici, contrasti e farse villanesche, ecloghe ed epistole amorose in versi e prosa: si può dire che. ogni metro della tradizione quattrocentesca sia registrato nel lungo soliloquio poetico del C. (che va a un dipresso dal 1508 al 1530) e riproposto con una geniale verve imitativa, senza tuttavia che l'imitazione esorbiti mai dai limiti di un ecclettismo dilettantesco.
La critica moderna ha posto l'accento sull'originalità di alcuni componimenti in dialetto ove la forma linguistica aderirebbe, con maggiori probabilità di evidenza poetica a una sostanza sentimentale genuina e autentica. Tra questi componimenti cadrebbero alcune liriche, indirizzate a Margherita Persiceti, come il sonetto: "Madona Marieta, avei gran tort"; gli strambotti e le disperate, condotte quasi sempre sui modelli di Panfilo Sasso e di Serafino Aquilano; e infine i capitoli in terza rima, ove lo scrittore comunica un contenuto sicuramente autobiografico a un ristretto pubblico cittadino interessato alle vicende della sua vita privata. Ma, in effetti, accanto a questi documenti di vita dialettale ottengono lo stesso diritto di ospitalità nel canzoniere del C. quelle poesie in cui la lingua rustica si stempera in una espressione di maggiore evidenza letteraria e l'autore sembra ambire a un consenso più vasto di quello che può offrirgli la modesta cerchia della famiglia. Si veda per tutti il sonetto "Gionge la sera, el villanel ritorna", che l'attenzione per un destino umano in contrasto con la limpidezza del paesaggio, con la calma assorta dal crepuscolo sembra riscattare da un contrasto bucolico e proiettare in direzione di una sensibilità tardorinascimentale, michelangiolesca, poniamo, o dellacasiana.
Notevole interesse riservano, nella raccolta del C., alcune poesie storiche: una Lamentatio urbis Feltrinensis composta il 3 luglio 1510 in occasione del saccheggio cui fu sottoposta la città di Feltre dalle armate dell'imperatore Massimiliano, e un Capitulum-lamentatio urbis Belluni che risospinge ancora una volta lo scrittore entro i confini riservati a quella poesia civile di non ampia risonanza, ma vibrante di sincera e calda commozione.
Si impongono infine agli studiosi di forme teatrali alcuni esperimenti drammatici compiuti dal C. nel solco di quella tradizione rusticale; assai viva presso alcuni ambienti veneti, che sembra preludere alla commedia popolareggiante. Il codice del notaio bellunese contiene infatti un contrasto amoroso, un Villanesco contrasto intra Barthol, Tuoni, Menech e Salvador (che è un vero e proprio "mariazo", vertente sopra il motivo del matrimonio per forza, fondato su ragioni di interesse) e una farsa villanesca (destinata forse alla recitazione nel corso di una festa familiare) imperniata sulla rappresentazione realistica del mondo rurale bellunese.
Oltre a questi esperimenti di arcadia rusticale, e comuni comunque ad altre zone di cultura umanistica, il C. compose pure una favola pastorale in dialetto da recitarsi nel carnevale del 1513. Questa ecloga "in villanesco" vanta, rispetto ai precedenti esempi di poesia drammatica, il merito di un contenuto assolutamente storico-politico: l'argomento segue infatti la cronaca degli avvenimenti bellunesi dal 1508 al 1513.
Ma ciò che ad alcuni critici è apparso come il segno di una autentica vocazione realistica del C. si rivela in effetti come un limite delle capacità inventive del notaio bellunese, teso anche in questa occasione al ripristino di una cronaca cittadina, inventariata su un illusorio schema drammatico. In definitiva anche questa forma, che è indiscutibilmente tra le piùoriginali escogitate dal C., lungi dal manifestare un serio impegno rappresentativo, costituisce l'ennesimo tentativo di riproporre a se stesso e ad una cerchia limitata di ascoltatori una serie di eventi noti e drammatici per trarne il massimo effetto emotivo, onde strappare alla cronaca e affidare alla storia un complesso di fatti memorabili che si impongono per la loro oggettiva portata.
Oltre questo spirito tenacemente campanilistico non procede il C., dal cui codice di rime, così interessante come documento di costume, rimane esclusa la poesia. La realtà della civitas, di cui il C. si sentì di continuo interprete e portavoce, è in definitiva la sola entità distinguibile nel corpus delle sue opere manoscritte.
Le rime del C. sono state pubblicate da V. Cian, Le rime di B. C., Bologna 1893-94.
Bibl.: V. Rossi, Le rime di B. C. ... (recens.), in Giorn. st. d. letter. ital., XXVI (1895) pp. 270ss.; A. Ventura, Nobiltà e popolo nella soc. veneta del '400 e '500, Bari 1964, p. 423; E. Carrara, La poesia pastorale, Milano s.d., pp. 238 ss.; G.Toffanin, Il Cinquecento, Milano s.d., pp. 332 s., 338; E. Bonora, Il classicismo dal Bembo al Guarini, in Storia della letter. ital., a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, IV, Milano 1966, pp. 546, 697.