CERRETANI, Bartolomeo
Nacque a Firenze nel 1475 da Paolo di Niccolò e da Lucrezia di Roberto Martelli.
La sua famiglia, originaria di Cerreto, si era stabilita a Firenze verso i primi del sec. XI ed era riuscita nei due secoli successivi ad accumulare un consistente patrimonio. Solo alla fine del sec. XIII e all'inizio del XIV; la ricchezza della famiglia era stata duramente scossa, prima da due incendi (1287 e 1330), poi da crescenti difficoltà finanziarie. Agnolo Cerretani, verso il 1590, ricordando i suoi antenati, avrebbe confessato: "siamo suti dall'anno 1348 in qua poveri" (Firenze, Bibl. naz., Ms. Magliabechi, cl. VIII, 42).Nel corso del sec. XV la famiglia aveva abbracciato la causa medicea e aveva ottenuto alcune cariche politiche di rilievo: Niccolò, nonno del C., era stato dei Signori nel 1444 e gonfaloniere di Giustizia nel 1465; il padre Paolo, dopo essere stato della Balia nel 1480, avrebbe occupato alcune cariche anche nel periodo successivo alla cacciata dei Medici, divenendo signore nel 1501, commissaro a Pescia nel 1504 e signore di Zecca nel 1507 e nel 1519. Non era estranea alla famiglia anche una certa tradizione letteraria; infatti Matteo, che era fratello di Paolo, aveva acquistato una certa notorietà come poeta.
Certamente la fedeltà ai Medici, che aveva contraddistinto gli antenati, esercitò una notevole influenza anche sul C., alla cui formazione contribuì tuttavia anche un altro elemento che, negli anni immediatamente successivi alla cacciata dei Medici, lo divise dai suoi congiunti: l'ammirazione per le idee religiose del Savonarola. In un elenco dei cittadini favorevoli e contrari al frate, allegato al Diario, il C. inserì il suo nome fra i primi, mentre pose quello del padre e dei parenti fra i secondi. Peraltro l'approvazione per l'opera del Savonarola, che, come il C. avrebbe scritto verso il 1520 nel Dialogo della mutazione, "predicava se non carità, semplicità, pazienzia e fede" (Firenze, Bibl. nazionale, Ms., II, I, 106, c. 143r), si limitava alle istanze di rinnovamento religioso che il frate esprimeva; invece il C. espresse più volte la sua disapprovazione per la politica popolare del Savonarola.
Non sembra quindi possibile condividere l'interpretazione di chi (Schnitzer), individuando una contraddizione di fondo fra la posizione politica e l'ammirazine, più volte professata negli scritti, per l'operato del Savonarola, ha cercato di risolverla in una superiore imparzialità del C. che, nella ricostruzione storiografica delle vicende del frate, avrebbe messo completamente da parte le sue simpatie medicee. In effetti la posizione politica e la confessata ammirazione per il Savonarola non paiono in contrasto, quando si tenga presente che la fiducia in un rinnovamento religioso, nel caso del C., come in quello di altri aristocratici fiorentini, è assolutamente separata da qualsiasi considerazione politica.
La biografia del C., povera di vicende di rilievo, viene illuminata, a partire dal 1500, da un prezioso documento, il Diario, su cui il C. comincia in quella data ad annotare gli avvenimenti, riguardanti non solamente Firenze, di cui gli giungono notizie.
Se è vero che in esso il C. dà largo spazio alle vicende di politica estera, è pur vero tuttavia che la sua riflessione e i suoi giudizi si riferiscono essenzialmente ai problemi interni della Repubblica. Nonostante il tentativo di trascrizione impersonale degli eventi contemporanei, compiuto nel Diario, questo ci aiuta a ricostruire l'evoluzione politica del C. e il processo di maturazione che si concluderà nelle Storie fiorentine e nel Dialogo. Ostile a coloro che avevano facilitato, nel 1501, l'ingresso del Valentino in Toscana, il C. non mancava di sottolineare la situazione particolarmente precaria in cui versava Firenze nei primi anni del secolo: "In Firenze ognuno era malcontento, e la dissenzione tra principali e popolani cresceva, e 'n consiglio non vinceva nessun huomo tenuto de' primi, ma ne' magistrati si metteva huomini di meza qualità, o popolani antichi e di piccole case" (Diario, c. 20r). Nella speranza quindi che la direzione politica potesse ritornare nelle mani degli elementi aristocratici, il C. salutava favorevolmente la costituzione del gonfalonierato a vita nel 1502 e l'elezione alla carica del Soderini: "e invero Piero secondo che a me parve, che molto intrinsicamente lo praticai, e secondo che ognuno diceva, egl'era così atto quanto alcuno altro ... et molto exercitatore delle leggi et iusto vivere" (ibid., c. 33r). Il giudizio si modificava tuttavia ben presto quando quest'ultimo cominciava a tradire le aspettative per un governo ristretto che gli aristocratici avevano riposto nella sua persona e ad accentrare in sé il potere: "Vedeasi l'un dì più che l'altro il Gonfaloniere fra ciptadini venire in odio per più conti, perché a ognuno gli pareva che e' si pigliassi troppa autorità, che così veramente era" (ibid., c. 45r).
L'unica carica che il C. occupò nei primi anni del sec. XVI, fu quella di console dell'arte dei mercanti, che gli venne affidata nel 1505. In qualità di console egli concesse ad Andrea Sansovino, legato all'arte dal contratto per il Battesimo di Cristo, nel battistero fiorentino, la licenza di recarsi per qualche tempo a Roma.
In questi anni il giudizio negativo del C. sulla realtà fiorentina si andava precisando nelle sue linee essenziali. La storia di Firenze dopo l'ultimo periodo aureo dei Medici era stata una lotta di partiti incapace di esprimere vere personalità politiche: "in questi tempi secondo me, e secondo molti savi, era nella città alquanti cittadini di nobile schiatta e sangue, e quali, per havere mala sorte, non erano in reputazione et molti vivevano et erano adoperati che erano dappochissimo ... perché mutato lo stato del 1494, non si riassunse e valenti huomini, ma chi era nimico di Piero de' Medici" (ibid., c. 71r: 12 maggio 1507). La lotta delle parti aveva dapprima fatto giungere alle maggiori cariche i seguaci del Savonarola. "Di poi morto il frate chi si trovò suo nimico, senza pensare a nulla, era assurto negli onori primi" (ibid.). Solo in tempi più recenti si era cominciato ad "allargare agl'huomini che non erano partiali" (ibid.). La cacciata dei Medici da Firenze aveva prodotto nella storia fiorentina la rottura fra un periodo in cui avevano dominato la scena politica i "valenti huomini" e un periodo di lotte intestine che, avevano reso instabile il governo ed avevano prodotto una degenerazione nella vita pubblica. Solo più tardi, intorno al 1510, il C. sostituiva a questa visione un giudizio meno pessimistico.
A un atteggiamento più conciliante nei confronti della Repubblica contribuiva certo la politica interna fiorentina, più stabile negli anni immediatamente precedenti il rientro dei Medici. Forse contribuivano anche i riconoscimenti pubblici tributati al C., che, nell'ottobre 1509, entrava a far parte dei Dodici buonuomini e, nel bimestre settembre-ottobre 1510, dei Signori.
Non mancava tuttavia, anche in questi anni, di rivolgere frequenti critiche agli aspetti deteriori della vita politica e ad alcune personalità, come il Soderini e il Machiavelli, che gli parevano indegne di dirigere gli affari di governo. Nel novembre 1509, in occasione della legazione presso l'imperatore Massimiliano a Mantova, conferita al Machiavelli, il C. esprimeva il suo disappunto verso quest'ultimo: "Cancelliere, figliuolo d'uno bastardo de' Machiavelli: questo a nessun conto non piaceva a molti, pure perché gl'era come una spia del Gonfaloniere velo mandò ad ogni modo, il che non potette più dispiacere al collegio, e a buoni ciptadini" (ibid., c. 109v).
Il rientro dei Medici in Firenze nel 1512 apparve al C. come una sorta di necessità per impedire uno scivolamento della vita politica verso gli ambienti più popolari ancora legati alla predicazione del Savonarola. Nel Dialogo della mutazione, scritto intorno al 1520, esprimerà per bocca di uno dei partecipanti, Giovanni, il suo pensiero circa il ritorno dei Medici: "qui ci dividemmo, noi capi della mutazione, perché una parte non volevano altro che levar Piero Soderini; un'altra parte, fra quali ero io, volevamo fare nuovo stato e capo e' Medici, perché vedevamo che partiti li spagnuoli, eravamo per capitar male, considerato ... la qualità della parte fratesca" (Firenze, Bibl. nazionale, Mss., II, 1, 106, c. 149v). Non mancava tuttavia, subito dopo il rientro dei Medici, di criticare il loro operato: "della iustitia sene faceva straccio e tanto pareva più strana la cosa, quanto che gl'huomini s'erano avvezzi nel vivere passato, il quale, benché si facessi dell'iniustitie, pure e tre quarti delle cose andavano legittimamente et secondo gli ordini et legge" (Diario, c. 170r).
Nonostante che il C. si rendesse conto della necessità di modificare e migliorare la struttura del nuovo regime, continuava tuttavia a guardare ai Medici come a una garanzia sia dal punto di vista della politica interna che da quello della politica estera. La sua fedeltà di fondo gli veniva riconosciuta con il conferimento di alcune cariche pubbliche. Eletto dei Signori per il bimestre marzo-aprile 1514, il C. annotava nel Diario di essere stato scelto a sua insaputa, per volontà di Lorenzo de' Medici. Due anni dopo, nel 1516, veniva inviato a Pisa, dove otteneva la carica di console. Negli anni fra il 1518 e il 1520 fece inoltre parte dell'Accademia fiorentina. Fu il. C., nel 1519, a inviare a Leone X, una lettera per ottenere la traslazione delle spoglie di Dante da Ravenna a Firenze.
Con soddisfazione annotava in questi anni sul Diario ilprogressivo miglioramento della situazione politica: "Nella città non si vedeva o sentiva alcuna, malacontentezza, ma ciascuno si stava in pace: è ben vero che gl'era una tacita affetione al passato stato, il quale era desiderato da tre quarti della ciptà, benché al presente gli squittini fussino più larghi" (ibid., c. 204v).
Il C. riteneva che il regime medceo, necessario per salvaguardare da uno slittamento della direzione politica verso gli ambienti popolari e da un passaggio all'alleanza con la Francia, dovesse essere tuttavia riformato. Collaborava quindi col cardinale Giulio de' Medici che, proprio in questi anni, diffondeva progetti per una riforma liberale della costituzione. Il grosso ostacolo in cui, secondo il C., si imbattevano questi progetti era costituito dai rapporti di politica estera di Firenze: "molti favorivano questa reformatione, et a me pareva necessaria et cosa iusta, ma difficultosa in farla. E se il governo era largo, noi pigliavamo la volta di Francia et rovinavamo la ciptà" (ibid., c. 215v).
Il C. morì a Firenze il 26 giugno 1524. Aveva sposato nel 1505 Bartolommea di Giovanni Gualberto del Giocondo, da cui aveva avuto due figli, Paolo e Ruberto.
Oltre al Diario, che copre il periodo fra l'agosto 1500 e il febbraio 1524, il C. lasciava due opere manoscritte: le Storie fiorentine e il Dialogo della mutazione. Le Storie erano state composte fra il 1512 e il 1514. Con esse il C., aveva voluto offrire non un'opera memorialistica, ma un'opera storica, nel senso degli umanisti, che potesse servire come guida per l'azione politica. Nelle Storie si era proposto di narrare le vicende di Firenze dalle origini fino al periodo contemporaneo. Aveva cominciato dagli anni più recenti descrivendo gli avvenimenti fra il 1494 e il 1512. Successivamente era passato al periodo più lontano narrando la storia della città dalle origini fino al 1385. Il vuoto di più di un secolo fra la prima e la seconda parte non sarebbe mai stato colmato. Le Storie, divise in libri, non dall'autore stesso, che aveva esplicitamente rifiutato di distribuire la materia, ma da un suo discendente, comprendono gli avvenimenti dalla fondazione della città al 1322 (libro I), dal 1322 al 1385 (II), dalla morte di Lorenzo il Magnifico alla caduta di Lodovico il Moro (III), al termine della guerra pistoiese (IV), alla riconquista di Pisa (V), fino al rientro dei Medici (VI). La fonte principale per il periodo contemporaneo è costituita dal Diario; non è escluso tuttavia che abbia utilizzato, per questa seconda parte della sua opera, il De bello Italico di Bernardo Rucellai, gli scritti del Redditi, del Filipepi e il Diario del Buonaccorsi. Le fonti più antiche, indicate dallo stesso C. nell'introduzione dell'opera, sono, oltre agli storici classici latini, i cronisti fiorentini dei secoli precedenti (Malespini, Villani, Stefani, Palmieri). L'opera, utilizzata fino ad ora prevalentemente per la narrazione degli avvenimenti del periodo savonaroliano, si presenta come un tentativo di comprendere la situazione politica in atto e di illuminare, attraverso le vicende dei secoli passati, quelle istituzioni, quei contrasti e conflitti che agiscono nel presente.
Scritto intorno al 1520, il Dialogo della mutazione comprende in particolare le vicende successive al rientro dei Medici. Esso si presenta come il racconto di un immaginario dialogo avvenuto a Modena nel 1520 fra quattro giovani nobili fiorentini: Lorenzo, Hieronimo, Giovanni, Francesco. Due di questi, lasciata Firenze nel 1512, dopo aver viaggiato per l'Europa si incontrano con due concittadini rimasti a Firenze in quegli anni. I due viaggiatori raccontano ciò che hanno visto in Europa e, gli altri due li informano delle cose avvenute a Firenze. Il discorso si snoda prendendo le mosse da considerazioni sulla cabala, da cui il C. era molto attratto, per soffermarsi quindi sul Savonarola e sulle sue profezie e per passare poi alla narrazione delle vicende fiorentine degli ultimi anni. Piuttosto che dibattito acceso di idee contrastanti, il Dialogo si presenta come un'esposizione problematica delle idee politiche e religiose del C. e come un tentativo di chiarimento interiore. Da sottolineare nel Dialogo, oltre alla narrazione degli eventi contemporanei, utilizzata dagli storici fiorentini successivi, anche l'eco delle vicende della riforma luterana, registrato dal C., e il giudizio positivo sulla figura di Martin Lutero "gli scritti del quale sendo comparsi in Italia e maximamente a Roma…, fanno argumento che costui debba essere per costumi, dottrina e religione prestantissimo e parci che le sua conclusioni sieno molto proprie e conforme all'opinione e vita della primitiva chiesa militante"(Firenze, Bibl. naz., Mss., II, 1, 106, c. 137r).
Il Diario, di cui esiste l'autografo ed una copia secentesca, insieme con le altre opere è pubbl. a cura di G. Berti ed E. Tongiorgi; la copia autografa delle Storie fiorentine è conservata a Firenze presso la Bibl. naz., Manoscritti, II,III, 74; altre copie presso la stessa Bibl. nazionale (II, III, 75; II, III, 76), presso la Bibl. Riccardiana (1829, 1876, 3590), presso la Bibl. Marucelliana (A.I.20), presso l'Arch. di Stato (Manoscritti e codiciletterari, 157, 158); non esistendo l'autografo del Dialogo la copia migliore e più frequentemente citata si trova a Firenze, Bibl. naz., Manoscr., II, I, 106, cc. 136r-181v;altre copie presso la stessa Bibl. naz. (II, V, 145) e presso la Bibl. Riccardiana (1828). Eccettuati alcuni brani tratti dalle Storie e dal Dialogo, è stato sinora pubbl. soltanto il primo libro delle Storie in Notizie stor. ital.,a cura di M. Rastrelli, IV, Firenze 1782, pp. 73-218.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, serie I, CXXXVI, cc. 68-71 (due lettere del C. a Luigi Guicciardini del 15 apr. 1516 e del 31 ott. 1520); Ibid., ibid., serie II, L, c. 159; Ibid., Carte Dei, XVII; Ibid., Carte Pucci, IV,43; Ibid., Carte Cerchi, 170, c. 417; Firenze, Biblioteca nazionale, Manoscritti Passerini, 8, 187; Ibid., Manoscritti Magliabechi, cl.VIII,42. Si veda ancora, N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, Milano 1964, II, pp. 1055-56; III, p. 1688; F. Inghirami, Storia della Toscana, XI, Fiesole 1843, pp. 438-9; D. Tiribilli-Giuliani, Sommario delle fam. celebri toscane, Firenze 1855, s. v.; L. von Ranke, Historisch-biographischeStudien, Leipzig 1877, pp. 206, 209, 335-342; Le carte strozziane del R. Archivio di Stato diFirenze, I,Firenze 1884, pp. 565-566; A. Giorgetti, Il Dialogo di B. C. fonte delle Istorie fiorentine di I. Pitti, in Miscell. fiorentina di erudiz. e storia, I(1886), pp. 65-70; P. Villari, NiccolòMachiavelli e i suoi tempi, Milano 1895-97, I, p. 399; II, p. 66; J. Schnitzer, Quellen undForschungen zur Gesch. Savonarolas, III, B. C., München 1904 (rec. di A. Giorgetti, in Archiviostor. ital., s. 5, XXXVII [1905], pp. 216-218); J. Schnitzer, Savonarola, Milano 1931, ad Indicem; P. O.Kristeller, Francesco da Diaccetoand Fiorentine Platonism in the Sixteenth Century, in Miscell. G. Mercati, IV,Città del Vaticano 1946, p. 300; R. Ridolfi, Vita di N. Machiavelli, Roma 1954, pp. 387, 403, 419, 431; R. von Albertini, Firenze dalla Repubblica al Principato, Torino 1970, pp. 21, 68, 81, 336; F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini, Torino 1970, adInd.; M. Luzzati, Una guerra di popolo. Lettere private del tempo dell'assedio di Pisa (1494-1509), Pisa 1973, ad Indicem; S. Seidel Menchi, Alcuni atteggiamenti della cultura italiana difronte a Erasmo (1520-36), in Eresia e riformanell'Italia del Cinquecento, Miscellanea I, Firenze 1974, pp. 79-89.