Cerretani, Bartolomeo
Nacque a Firenze nel 1475 da Paolo di Niccolò e da Lucrezia di Roberto Martelli. Ricca e potente nella prima metà del Trecento, la famiglia aveva in seguito abbracciato la causa medicea e ottenuto alcune cariche politiche di rilievo: Niccolò, nonno di C., era stato dei Signori nel 1444 e gonfaloniere di Giustizia nel 1465; il padre Paolo, dopo essere stato della Balìa nel 1480, avrebbe occupato alcune cariche anche nel periodo successivo alla cacciata dei Medici (membro della Signoria nel 1501, commissario a Pescia nel 1504 e signore di Zecca nel 1507 e nel 1519). Non era estranea alla famiglia anche una certa tradizione letteraria; infatti Matteo, che era fratello di Paolo, aveva acquistato una qualche notorietà come poeta. Certamente la tradizione familiare di fedeltà ai Medici esercitò una notevole influenza anche su C., alla cui formazione contribuì tuttavia anche un altro elemento che, negli anni immediatamente successivi al 1494, lo divise dai congiunti: l’ammirazione per le idee religiose di Girolamo Savonarola. In un elenco dei cittadini favorevoli e contrari al frate, allegato ai Ricordi, C. inserì il suo nome fra i primi, mentre pose quello del padre e dei parenti fra i secondi. Peraltro l’approvazione per l’opera di Savonarola – che, come C. avrebbe scritto verso il 1520 nel Dialogo della mutatione di Firenze, «non predicava se non carità, semplicità, pazienzia e fede» (a cura di G. Berti, 1993, p. 18) – si limitava alle istanze di rinnovamento religioso; invece C. espresse più volte il suo dissenso rispetto alla posizione politica ‘popolare’ di Savonarola. Non sembra quindi possibile condividere l’interpretazione di chi, come Joseph Schnitzer, individuando una contraddizione di fondo fra la posizione politica e l’ammirazione, più volte professata negli scritti, per l’operato di Savonarola, ha cercato di risolverla in una superiore imparzialità di Cerretani. In effetti la posizione politica e la confessata ammirazione per Savonarola non paiono in contrasto, quando si tenga presente che la fiducia in un rinnovamento religioso, nel caso di C. come in quello di altri aristocratici fiorentini, è assolutamente separata da qualsiasi considerazione politica.
La biografia di C., povera di vicende di rilievo, viene illuminata, a partire dal 1500, da un prezioso documento, il Diario o Ricordi, su cui egli annota gli avvenimenti di cui gli giungono notizie: se è vero che C. dà spazio anche a vicende di politica estera, la sua riflessione e i suoi giudizi restano riferiti principalmente ai problemi interni della Repubblica. Nonostante il tentativo di trascrizione impersonale degli eventi contemporanei, i Ricordi ci aiutano a ricostruire l’evoluzione politica di C. e il processo di maturazione che si concluderà nelle Storie fiorentine e nel Dialogo.
Ostile nei confronti di coloro che avevano facilitato, nel 1501, l’ingresso del duca Valentino in Toscana, C. non mancava di sottolineare la situazione particolarmente precaria nella quale versava Firenze nei primi anni del secolo:
In Firenze ognuno era malcontento, e la dissensione tra principali e popolani cresceva, e ’n consiglio non vinceva nessun uomo tenuto de’ primi, ma ne’ magistrati si metteva uomini di mezza qualità, o popolani antichi e di piccole case (Ricordi, a cura di G. Berti, 1993, pp. 36-37).
Nella speranza quindi che la direzione politica potesse ritornare nelle mani degli elementi aristocratici, C. salutava favorevolmente la costituzione del gonfalonierato a vita nel 1502 e l’elezione di Piero Soderini (→): «e invero Piero, secondo che a me parve, che molto intrinsicamente lo praticai, e secondo che ognuno diceva, egl’era così atto quanto alcuno altro [...] e molto essercitatore della legge e giusto vivere» (p. 61). Il giudizio si modificava tuttavia ben presto, quando Piero cominciava a tradire le aspettative per un governo ristretto che gli aristocratici avevano riposto nella sua persona e ad accentrare in sé il potere: «Vedevasi l’un dì più che l’altro il Gonfaloniere fra’ cittadini venire in odio per più conti, perché a ognuno gli pareva che e’ si pigliassi troppa auttorità, che così veramente era» (p. 84).
In questi anni il giudizio negativo di C. sulla realtà fiorentina si andava precisando nelle sue linee essenziali. La storia di Firenze, dopo l’ultimo periodo aureo dei Medici, era stata una lotta di partiti incapaci di esprimere vere personalità politiche:
in questi tempi [12 maggio 1507] secondo me, e secondo molti savi era nella città alquanti cittadini di nobile schiatta e sangue, e’ quali, per avere mala sorte, non erano in reputazione, e molti vivevano e erano adoperati che erano da pochissimo [...] perché mutato lo stato del 1494 non si riassunse e’ valenti uomini, ma chi era nimico di Piero de’ Medici (p. 139).
La lotta delle parti aveva dapprima fatto giungere alle maggiori cariche i seguaci di Savonarola: «Di poi morto il frate chi si trovò suo nimico, sanza pensare a nulla, era assunto negl’onori primi». Solo in tempi più recenti si era cominciato ad «allargare agl’uomini che non erano parziali». La cacciata dei Medici da Firenze aveva prodotto nella storia fiorentina la rottura fra un periodo in cui avevano dominato la scena politica i «valenti uomini» e un periodo di lotte intestine che avevano reso instabile il governo e avevano prodotto una degenerazione nella vita pubblica.
Solo più tardi, intorno al 1510, C. sostituiva a questa visione un giudizio meno pessimistico. A un atteggiamento più conciliante nei confronti della Repubblica contribuiva certo la politica interna fiorentina, più stabile negli anni immediatamente precedenti il rientro dei Medici. Forse contribuivano anche i riconoscimenti pubblici tributati a C.: nel 1505 divenne console dell’Arte dei mercanti; nell’ottobre 1509 entrava a far parte dei Dodici buonuomini e, nel bimestre settembre-ottobre 1510, dei Signori. Non mancava tuttavia, anche in questi anni, di rivolgere frequenti critiche agli aspetti deteriori della vita politica e ad alcune personalità, come Soderini e M., che gli parevano indegne di dirigere gli affari di governo. Nel novembre 1509, in occasione della legazione presso l’imperatore Massimiliano a Mantova, conferita a M., C. esprimeva il suo disappunto:
due oratori tornati [dalla corte imperiale] dissono che vi si mandassi Niccolò Machiavelli cancelliere, figliolo d’uno bastardo de’ Machiavelli: questo a nessun conto non piaceva a molti, pure perché gl’era come una spia del Gonfaloniere ve lo mandò a ogni modo, il che non potette più dispiacere al collegio e a buoni ciptadini (p. 214).
Il rientro dei Medici in Firenze nel 1512 apparve a C. come una sorta di necessità per impedire uno scivolamento della vita politica verso gli ambienti più popolari, ancora legati alla predicazione di Savonarola. Nel Dialogo della mutatione, scritto intorno al 1520, esprimerà per bocca di uno dei partecipanti, Giovanni Rucellai, il suo pensiero circa il ritorno dei Medici:
qui ci dividemo noi capi della mutazione, perché una parte non volevano altro che levar Piero Soderini; un’altra parte, fra’ quali ero io, volevamo fare nuovo stato e capo e’ Medici, perché vedevamo che partiti li spagnuoli, eravamo per capitar male, considerato [...] la qualità della parte fratesca (Dialogo della mutatione, cit., p. 32).
Non mancava tuttavia, subito dopo il rientro dei Medici, di criticare il loro operato:
della iustizia [...] se ne faceva straccio, e tanto pareva più strana la cosa, quanto che gl’uomini s’erano avvezzi nel vivere passato, il quale, benché si facessi delle iniustizie, pure e’ tre quarti delle cose andavano legitimamente e secondo gli ordini e legge (Ricordi, cit., p. 309).
Nonostante tutto, C. continuava a guardare ai Medici come a una garanzia sia dal punto di vista della politica interna sia da quello della politica estera. La sua fedeltà di fondo gli venne riconosciuta con il conferimento di alcune cariche. Eletto fra i Signori per il bimestre marzo-aprile 1514, C. annotava nei Ricordi di essere stato scelto a sua insaputa, per volontà di Lorenzo de’ Medici. Due anni dopo, nel 1516, veniva inviato a Pisa, con la carica di console del mare. Negli anni fra il 1518 e il 1520 fece inoltre parte dell’Accademia fiorentina. Nel 1519 sottoscrisse la petizione a Leone X per la traslazione delle spoglie di Dante da Ravenna a Firenze. Con soddisfazione annotava in questi anni il progressivo miglioramento della situazione politica:
Nella città non si vedeva o sentiva alcuna mala contentezza, ma ciascuno si stava in pace: è ben vero che gl’era una tacita affezione al passato stato, il quale era desiderato da tre quarti della ciptà, benché al presente gli squittini fussi più larghi [...] e pagavasi non molte gravezze (Ricordi, cit., p. 377).
C. riteneva tuttavia che il regime mediceo dovesse essere riformato. Collaborava quindi con il cardinale Giulio de’ Medici che, proprio in questi anni, diffondeva progetti per una riforma della costituzione. Il principale ostacolo in cui, secondo C., si imbattevano tali progetti era costituito dai rapporti di politica estera di Firenze: «molti favorivano questa reformazione, e a me pareva necessaria e cosa iusta, ma difficultosa in farla. E se il governo era largo, noi pigliavamo la volta di Francia e rovinavamo la città» (p. 402).
C. morì a Firenze il 26 giugno 1524. Aveva sposato nel 1505 Bartolomea di Giovanni Gualberto del Giocondo, da cui aveva avuto due figli, Paolo e Ruberto. Oltre ai Ricordi, o Diario, testo che copre il periodo fra l’agosto 1500 e il febbraio 1524, C. lasciava due opere manoscritte: le Storie fiorentine e il Dialogo della mutatione di Firenze.
Le Storie erano state composte fra il 1512 e il 1514. Con esse C. aveva voluto offrire non un’opera memorialistica, ma storica, nel senso umanistico del termine, che potesse servire come guida per l’azione politica. Si era proposto di narrare le vicende di Firenze dalle origini fino alla contemporaneità, cominciando la stesura dagli anni più recenti (1494-1512). Successivamente era passato a narrare la storia della città dalle origini fino al 1385. Il vuoto di più di un secolo fra la prima e la seconda parte non sarebbe mai stato colmato. Le Storie, divise in libri – non dall’autore stesso, che aveva esplicitamente rifiutato di distribuire la materia, ma da un suo discendente –, comprendono gli avvenimenti dalla fondazione della città al 1322 (libro I), dal 1322 al 1385 (II), dalla morte di Lorenzo il Magnifico alla caduta di Lodovico il Moro (III), al termine della guerra pistoiese (IV), alla riconquista di Pisa (V), fino al rientro dei Medici (VI). La fonte principale per il periodo contemporaneo è costituita dai suoi stessi Ricordi; non è escluso tuttavia che abbia utilizzato, per questa seconda parte della sua opera, anche il De bello italico di Bernardo Rucellai, gli scritti di Redditi, di Simone Filipepi e il Diario di Biagio Buonaccorsi. Le fonti più antiche, indicate dallo stesso C. nell’introduzione dell’opera, sono, oltre agli storici classici latini, i cronisti fiorentini dei secoli precedenti (Ricordano Malespini, Giovanni Villani, Marchionne di Coppo Stefani, Matteo Palmieri). L’opera, utilizzata fino a ora prevalentemente per la narrazione degli avvenimenti del periodo savonaroliano, si presenta come un tentativo di comprendere la situazione politica in atto e di illuminare, attraverso le vicende dei secoli passati, quelle istituzioni, quei contrasti e conflitti che agiscono nel presente.
Scritto intorno al 1520, il Dialogo della mutatione riferisce in particolare le vicende successive al rientro dei Medici. Esso si presenta come il racconto di un immaginario dialogo avvenuto a Modena nel 1520 fra quattro giovani nobili fiorentini: Lorenzo, Hieronimo, Giovanni, Francesco. Due di questi, lasciata Firenze nel 1512, dopo aver viaggiato per l’Europa si incontrano con due concittadini rimasti a Firenze in quegli anni. I due viaggiatori raccontano ciò che hanno visto in Europa e gli altri due li informano delle cose avvenute a Firenze. Il discorso si snoda prendendo le mosse da considerazioni sulla cabala, da cui C. era molto attratto, per soffermarsi quindi su Savonarola e sulle sue profezie e per passare successivamente alla narrazione delle vicende fiorentine degli ultimi anni. Piuttosto che dibattito acceso di idee contrastanti, il Dialogo si presenta come un’esposizione problematica delle idee politiche e religiose di
C. e come un tentativo di chiarimento interiore. Vanno sottolineati nel Dialogo, oltre alla narrazione degli eventi contemporanei, utilizzata dagli storici fiorentini successivi, anche l’eco delle vicende della riforma luterana, registrata da C., e il giudizio positivo sulla figura di Martin Lutero, gli scritti del quale
sendo comparsi in Italia e massimamente a Roma [...], fanno argumento che costui debbe essere per costumi, dottrina e religione prestantissimo, e parci che le sua conclusioni sieno molto proprie e conforme all’opinione e vita della primitiva chiesa militante (Dialogo della mutatione, cit., p. 7).
In C. la «sincera sensibilità per i temi del savonarolismo [si estende al confronto] con le esperienze contemporanee dell’erasmismo, della Protesta luterana, della Kabbalah ebraica mediata da Johannes Reuchlin» (R. Mordenti, in Dialogo della mutatione di Firenze, a cura di R. Mordenti, 1990, p. XXIV).
M. è nominato in varie pagine dei Ricordi, oltre che in quella, già citata, in cui si allude alla nascita illegittima di suo padre Bernardo (→). Alla data del 13 febbraio 1502, C. annota le difficoltà intervenute in Consiglio grande per la ‘rafferma’ dei cancellieri Marcello (Adriani), Francesco d’Arezzo e M., «onde a l’ultima volta montorono in bigoncia e parlorono egregiamente e vinsono la loro raferma» (Ricordi, cit., p. 34). Registra le missioni di M. presso il duca Valentino nel giugno e nell’ottobre 1502, presso Giampaolo Baglioni nell’aprile 1505; riferisce le polemiche in merito alla legazione di M. presso l’imperatore nel 1507-08 (→ Appendice: Biografia):
Niccolò era ito d’auttorità del Gonfaloniere [...] e la Signoria era divisa e mal d’accordo seco [...] La Signoria si doleva che il Gonfaloniere no gli referiva tutti e’ secreti [...] [27 genn. 1508] Da la Magna ci fu lettere, cioè da Niccolò Machiavelli [...] e furno molto fredde [sulle forze dell’Impero] [...] E con queste ci fu lettere di Francesco Vettori un po’ più calde, ma non molto (Ricordi, cit., p. 160).
M. è poi ricordato come protagonista nelle trattative per la resa di Pisa (4 giugno 1509) e come sodale del gonfaloniere nel tentativo, abortito, di ridurre i poteri giudiziari della Quarantìa (2-10 dic. 1510). Infine, C. registra l’esclusione di M. dagli uffici (nov. 1512) e dà notizie relative alla repressione della congiura antimedicea, 12 febbraio 1513 (per tutta la vicenda → Appendice: Biografia). Pietro Paolo Boscoli (→) e Agostino Capponi
avevano fatto una scritta [di coloro] e’ quali stimavano fussino malcontenti, sanza conferillo a tutti; di che fu preso [fra gli altri] Niccolò Machiavelli che era cancelliere de’ Dieci [...]. Dato e’ martori a Niccolò Machiavelli e tenutolo sù alquanti dì lo confinorno nelle Stinche in perpetuo.
Bibliografia: L’autografo dei Ricordi è conservato presso la BAV, ms. Vat. lat. 13661, quello delle Storie fiorentine, a Firenze presso la BNCF, ms. II, III, 74. Non essendo reperibile l’autografo del Dialogo, la copia considerata migliore e più frequentemente citata è il ms. II, I, 106 della stessa BNCF (già Magliab. XXV 340).
Edizioni: Dialogo della mutatione di Firenze, ed. critica a cura di R. Mordenti, Roma 1990 (con ampio saggio introduttivo e commento); Dialogo della mutatione di Firenze, a cura di G. Berti, Firenze 1993; Ricordi, a cura di G. Berti, Firenze 1993; Storia fiorentina, a cura di G. Berti, Firenze 1994.
Per altre indicazioni sulle fonti e sugli studi critici, cfr. P. Malanima, Cerretani Bartolomeo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 23° vol., Roma 1979, ad vocem.