CINI, Bartolomeo
Nacque a San Marcello Pistoiese il 18 marzo 1809 da Giovanni e, da Anna Rosa Cartoli. Iniziò privatamente i suoi studi sotto la guida dell'abate Piermei, rivelando presto interessi non solo umanistici, ma anche economici e scientifici, che approfondì all'università di Pisa, dove si laureò in giurisprudenza. Proprio al soggiorno pisano risalgono i suoi rapporti con l'ambiente della famiglia di George William Tighe, un irlandese trasferitosi in Italia, sposato a lady Margaret King. Costei, donna di spiccata personalità, assai nota nel mondo intellettuale inglese e italiano, aveva costituito a Pisa un vero e proprio cenacolo letterario al quale parteciparono anche Byron e Shelley; in seguito, aveva pure, promosso l'Accademia dei Lunatici, frequentata dal Leopardi e dal Giusti. Il C. sposò una delle figlie di questo, Nerina Tighe, e rimase sempre in rapporti con molti degli intellettuali conosciuti in casa della suocera.
Nel 1839 il C. partecipava al primo Congresso dei naturalisti, medici e altri scienziati italiani a Pisa, nel 1841 al terzo Congresso degli scienziati italiani, a Firenze, nel 1838 divenne membro dell'Accademia Labronica, dal 1851 fu socio dell'Accademia dei Georgofili, dal 1858, della R. Accademia toscana di arti e manifattuie per la classe degli scienziati, dal 1865 membro dell'Association internationale pour le progrès des sciences sociales di Bruxelles e, infine, dal 1869 della Società geografica italiana. La sua presenza in questi sodalizi è spiegata dai compiti che egli intendeva dovessero assumere per il progresso e la diffusione di una cultura "positiva", volta a ricercare l'"immediata applicazione" delle scienze e delle lettere "al benessere morale e fisico della società".
L'attività che, però, lo impegnò maggiormente fu connessa agli interessi economici e industriali della famiglia. A differenza, del fratello Tommaso, il C. non ebbe parte nella gestione tecnica dell'azienda, la cartiera sulla Lima, bensì in quella economico-finanziaria. Egli fissava il centro dei suoi interessi tra Livorno e Firenze, ma non trascurava di approfondire le sue conoscenze economiche e la sua pratica degli affari, compiendo, sin dal '32, una lunga serie di viaggi all'estero. Non si limitò a percorrere la maggior parte d'Italia e dei grandi paesi industriali dell'Europa centrale e l'Inghilterra, ma si spinse, addirittura, quando era già anziano, sino alla Svezia, Danimarca e Norvegia e in Russia; non trascurò neppurg di visitare le terre dell'Oriente mediterraneo e fu a Costantinopoli e in Egitto, sempre alla ricerca di nuove possibilità di sviluppo per la sua azienda e, più tardi, per i suoi vasti interventi nel mondo della finanza. Di tali viaggi egli lasciò talvolta relazioni circostanziate che rivelano. il suo interesse per tutti gli aspetti dell'evoluzione sociale, economica e industriale dei suoi tempi e gli ammaestramenti che ne seppe trarre (San Marcello Pistoiese. Arch. Farina Cini, Famiglia, b. Viaggiin Italia e all'estero di B. e T. Cini).
La fortuna già cospicua dei Cini fu colpita però, nel 1844, da una grave crisi, in seguito alla chiusura della fabbrica di panni feltri. Come gli altri membri della famiglia, il C. sottopose se stesso, la moglie e i figli a uno strettissimo regime di economia, trasferendosi a Pisa, città di minor costo, e in una povera abitazione dove convenivano, però, alcuni rappresentanti degli ambienti liberali toscani, come l'ex prigioniero dello Spielberg Gaetano Castiglia, Enrico Mayer, che dei Cini restò sempre intimo amico (e del resto, il C., sin dal 1836, fu socio, a Livorno, della Società per il mutuo insegnamento), Ridolfo Castinelli e, soprattutto, Massimo d'Azeglio, unito da profonda amicizia ai due coniugi. La situazione economica della famiglia dovette presto migliorare, se già nel '45, insieme con i fratelli Tommaso e Pietro, egli fondava una società anonima per la progettazione e costruzione di una ferrovia tra Pistoia e il confine pontificio, superando l'Appennino; difficoltà finanziarie e poi gli eventi politico-militari del 1848-49 fecero fallire l'iniziativa e la società fu liquidata nel '49, Ma, intanto, i Cini orientarono i loro interessi verso l'industria degli armamenti, costituendo una società per la fabbricazione di fucili, nei vecchi opifici sul Limestre, che avrebbe dovuto provvedere ad armare la neocostituita guardia civica toscana.
La crisi politica segnò, però, per il C. anche una nuova fase della sua attività, caratterizzata da un diretto impegno politico. Il Puccioni (Principi..., p. 207)lo dice addirittura "ascritto alla Giovine Italia", sia pure senza fornire specifici chiarimenti su questa notizia, che non risulta confermata dalle carte di polizia e del Buongoverno toscano. Certo è, però, che, nel '47, recatosi a Londra per l'Esposizione internazionale, s'incontrò con il Mazzini, che lo condusse a visitare la scuola italiana di Grenville Street; poi, passando per Parigi, si fece tramite di corrispondenza tra lo stesso Mazzini, il Mayer, il De Boni e Giuseppe Bardi (Protocollo della "Giovine Italia". Congrega centrale di Francia, V, pp. 119, 145). Comunque, nella nuova situazione politica toscana, egli ebbe subito una parte di discreto rilievo, ricoprendo, con la formazione della guardia civica, il grado di capitano. Ma assai più interessanti furono i suoi interventi come pubblicista e, poi, come parlamentare. Agli inizio del 1848, in un suo articolo sulla Lega, doganale italiana, di recente stipulata tra, il regno sardo, la Toscana e lo Stato pontificio, apparso sul giornale di Montanelli, L'Italia del 25 gennaio (e pubblicato come opuscolo, lo stesso anno, a Firenze), il C. si schierava nettamente a favore dell'unificazione doganale italiana, affermando che il ritardo dello sviluppo industriale e commerciale del paese era dovuto agli ostacoli frapposti dalle barriere doganali.
Nelle elezioni per il Consiglio generale della Toscana, del 15 giugno '48, il C. ottenne il seggio di deputato per il collegio di San Marcello;. e fu poi confermato nelle successive elezioni del 20novembre. Prese parte attiva ai lavori dell'Assemblea, anche nella sua qualità di segretario della Commissione di guerra, chiedendo più volte un maggiore impegno della Toscana nella guerra contro l'Austria. La sua azione parlamentare lo portò a stringere più stretti rapporti con i maggiori rappresentanti del liberalismo toscano, come Ubaldino Peruzzi (con il quale i Cini intrattenevano importanti relazioni d'affari), il Salvagnoli e il Ricasoli, ma anche con personalità più avanzate, alcune delle quali erano pure azionisti della Cartaria; del resto, la cartiera sulla Lima riforniva di carta anche L'Italia del Montanelli e del Guerrazzi (Archivio Farina Cini, Autografi, b.II, 37). Si ha, d'altronde, ragione di ritenere che egli facesse parte di quel gruppo di liberali, soprattutto di origine livornese, più aperti e duttili che, anche a causa dei loro interessi commerciali e industriali, non contrastarono frontalmente le misure economiche del governo democratico Montanelli-Guerrazzi decise, del resto, dal banchiere livornese P.A. Adami.
A questo proposito nella seduta del 26 genn. 1849 il C., che pure aveva già richiamato l'attenzione del gdverno sul discredito che aveva colpito la carta moneta, approvò l'emissione a corso coatto di buoni del Tesoro, con privilegio ipotecario sui beni dello Stato. E, di fronte all'opposizione che tale operazione aveva incontrato negli ambienti finanziari e commerciali, adoperò la propria influenza per rendere meno tesa la situazione. Anzi, confermò alla Camera che centoquarantadue tra i più importanti banchieri e negozianti di Firenze avevano sottoscritto una d:ichiarazione, con la quale si obbligavano a ricevere, per qualunque somma, pagamenti in biglietti di banca alla pari della moneta metallica; mentre si rallegrava che la "rinata fiducia" nella moneta cartacea restituisse "sicurezza al commercio", coglieva l'occasione per dichiarare, contro le "insinuazioni" circolanti tra gli stessi deputati, che anche commercianti e finanzieri erano "popolo" e che "tutti siamo popolo". D'altra parte, proprio queste misure gli offrirono il destro per ribadire la sua opinione che lo Stato non avrebbe dovuto mai essere "né commerciante, né proprietario", ma solo "amministratore delle rendite pubbliche".
Dopo la fuga del granduca, lo scioglimento delle Camere e le elezioni per la Costituente toscana, il C. non fu più deputato; né si hanno precise notizie sul suo atteggiamento in quel periodo e al momento della restaurazione granducale. Ma, negli anni successivi, intervenne ripetutamente, con proprie "memorie", presentate all'Accademia dei Georgofili, sulle questioni più scottanti della vita economica toscana ed i loro riflessi politici. Nel '50 presentava, infatti, all'Accademia, la memoria Sopra i danni che la Toscana risentirebbe da una lega doganale con gli Stati Austro-Germanici (pubblicata nel tomo XXVIII degli Atti ed anche separatamente, nello stesso anno, a Firenze).
In questo scritto egli sottolineava fortemente la disparità tra l'estensione, la popolazione e il regime doganale del grande impero asburgico e della piccola Toscana, contrapponendo la modesta entità della tariffa toscana al carattere fortemente protezionistico dei dazi imperiali; ne concludeva che, evidentemente, né l'Impero poteva adottare la tariffa toscana, né la Toscana quella austriaca, senza, creare una crisi economica gravissima; mentre, d'altra parte, un graduale avvicinamento delle due tariffe avrebbe richiesto un lunghissimo tempo. D'altro canto, una lega doganale con l'Austria avrebbe costretto la Toscana ad acquistare principalmente dalle manifatture austriache, notoriamente assai più care e qualitativamente inferiori a quelle inglesi o francesi; e, per di più, il fatto che Toscana e Austria producessero, in sostanza, beni assai simili avrebbe costituito un'ulteriore ragione per respingere una lega doganale che, in ultima analisi, avrebbe reso ancora più difficili le esportazioni toscane, penalizzate da un regime doganale non liberistico. Infine - considerazione alla quale, certo, il C. era particolarmente sensibile - la lega avrebbe prodotto, insieme con la crisi generale dei commerci e delle industrie toscane, anche la rovina del porto di Livomo, battuto dalla concorrenza dei porti "naturali" dell'impero, Trieste e Venezia.
Lo stesso anno il C. pubblicava su LoStatuto (e ripubblicava, a parte, sempre a Firenze) un saggio dal titolo Della tassa sulle rendite e della sua attuazione in Toscana, nel quale criticava quella tassa e cercava di mostrare i cattivi effetti e danni che avrebbe provocato all'economia toscana. Sette anni dopo, l'8 febbr. 1857, il C. presentava nuovamente all'Accademia dei Georgofili la memoria Della presente crisi monetaria rispetto alla Toscana (pubblicata nel tomo IV della nuovà serie degli Atti e, separatamente, Firenze 1857).
Egli muoveva dall'analisi della situazione finanziaria del tempo, caratterizzata dall'alto costo det denaro, dalla enorme speculazione, dalla creazione di società di credito mobiliare con capitali ingentissimi e dal forte impegno di capitali nelle imprese ferroviarie e in ogni genere di grandi progetti, che avevano condotto ad una crisi monetaria generale. Il pagamento delle grandi somme assorbite nelle imprese industriali aveva, infatti, avuto come conseguenza la diminuzione del circolante; e questo mentre aumentava il tono di vita della popolazione e sì accresceva la ricerca di moneta, non soddisfatta per la scarsità di metalli preziosi (adoprati per usi ornamentali o emigrati verso i mercanti orientali) e per la sfiducia nei confronti del credito che induceva a respingere la moneta cartacea. La soluzione del problema era difficile, anche perché il C. riteneva che essa non fosse compito dei governi, ai quali spettava soltanto di dare sicurezza ai loro popoli e rimuovere ogni ostacolo alle transazioni compiute per mezzo di biglietti emessi dalle banche. Occorreva, quindi, almeno come prima iniziativa, stabilire una moneta di conto fondata sul franco o sulla lira d'argento, riconoscendo così l'unità monetaria di fatto che si era ormai stabilita tra i paesi con i quali la Toscana aveva maggiori relazioni economiche., in modo da rendere sempre minore la fiuttuazione dei valori monetari. E, per il futuro, sì doveva guardare ad unioni monetarie sempre più vaste.
Questi interventi, che rilevano letendenze e le idee del C. allineate con quelle predominanti tra i principali rappresentanti dei gruppi finanziari toscani, Sono, però, anche connessi direttamente con la sua attività di finanziere e imprenditore, svolta nel decennio tra il '49 e il '59, Continuò, infatti, a reggere la direzione commerciale della Società cartaria; ma esercitò anche un'influenza più estesa e diretta sulla finanza toscana, nella sua qualità di socio e, poi (dal 1853), consigliere della Cassa di risparmi e depositi. Tuttavia, i suoi più importanti interessi riguardarono, già in questo periodo, la ripresa delle iniziative per la costruzione di una via ferrata che congiungesse la pianura padana con Roma, attraverso la Toscana. La società, prontamente costituita dai Cini, ottenne, nel 1852, la concessione della costruzione ed esercizio della linea; ma la precoce morte del fratello del C., Tommaso, rese molto difficile l'attuazione del progetto che suscitava interessi contrastanti e concorrenti anche da parte di grandi gruppi capitalistici stranieri; così, intorno al '55, la società si provò in gravi difficoltà., Il C. si rivolse al banchiere P. Bastogi, che era, allora, in stretti rapporti con i Rothschild e che faceva parte del gruppo fondatore della Società per le ferrovie del Lombardo-Veneto. Le lettere che il C. e il Bastogi si scambiarono, negli anni tra il '53 e il '56, mostrano la partecipazione crescente del banchiere livornese agli affari della società, per la quale, già nel '53, in occasione di un suo viaggio a Parigi, si offriva di piazzare sul mercato francese le azioni ancora disponibili (Archivio Farina Cini, Autografi, b. I, 10); e, quindi, si era mostrato disposto anche ad accettare la direzione commerciale dell'impresa ed a fare i prestiti necessari, chiedendo una provvisione moderata. I commissari dei ducati rifiutarono però questa soluzione, sollevando delle riserve sulla scelta del Bastogi giudicato "troppo toscano", e presentarono altri candidati (Gille, p. 320); mentre lo stesso governo austriaco, molto interessato alla questione, sollecitava l'intervento diretto dei Rothschild, e Raffaele De Ferrari, duca di Galliera, si mostrava anch'egli desideroso di entrare nella combinazione che avrebbe fortemente valorizzato i suoi grandi possedimenti bolognesi. Nei mesi di marzo-aprile del '56, il C., insieme con il Bastogi e il Collarini, intraprese un viaggio a Vienna ed a Parigi che, certamente, deve essere posto in rapporto con la riorganizzazione della società; questa ebbe luogo, nel maggio, con il decisivo intervento del duca di Galliera e del Talabot, dietro i quali erano i Rothschild, e la formazione della "Compagnia centrale".
L'avvicinarsi della nuova crisi del '59 riportò il C. sulla scena politica toscana. Già il 26 aprile pubblicava, proprio a Torino, sul giornale L'Indipendente e patriota (ristampandola, a Firenze), una lettera al ministro sardo a Firenze, il Bon Compagni, dal titolo Sui danni economici recati dall'Austria alla Toscana, che intendeva completare, sul versante economico, gli argomenti di natura politica svolti contro l'influenza austriaca in Toscana, dal noto volume Toscana ed Austria, edito poco prima dalla "Biblioteca civile dell'italiano" e che aveva suscitato tanto allarme da parte del governo granducale, alla vigilia della sua fine.
Il C., dopo la fuga del granduca, entrò subito a far parte della Consulta di Stato (13 maggio 1859) e, in seguito, con le elezioni del 7 agosto, dopo l'armistizio di Villafranca, fu deputato all'Assemblea toscana per il collegio di San Marcello. In tale qualità, il 16 agosto, egli votò, come gli altri deputati, la decadenza della dinastia lorenese e, il 20, la proposta di annessione al regno di Vittorio Emanuele II. Non doveva però essere entusiasta della politica perseguita dal Ricasoli e dal Salvagnoli, se uua lettera del Lambruschini al Cambray Digny, del 23 giugno 1859, parlava di lui e di G. B. Giorgini come di persone che condividevano le sue nette riserve sull'operato del governo provvisorio e, in particolare, del suo presidente. Ciò non impedì al C., allorché la situazione toscana divenne gravissima sia dal punto di vista economico sia da quello politico, di prestare la sua opera per il governo provvisorio, recandosi a Torino, per delicate trattative riguardanti in particolare i problemi dell'unificazione monetaria, della fusione doganale, dell'appalto dei tabacchi vigente in Toscana e dei dazio sul sale, ma più in generale la grave situazione economica della Toscana e degli altri Stati dell'Italia centrale.
Degli incontri del C. non solo con i governanti, ma anche con il Cavour, allora fuori del governo, è traccia precisa nel Diario del Massari, mentre la corrispondenza con il Ricasoli (Carteggi, X, pp. 65-66, 74-76, 106-108) rivela le difficoltà incontrate nella trattativa. Il C. in una lettera del 16 ottobre confermava che, in attesa di un chiarimentodelle decisioni di Napoleone III, il ministero sardo non avrebbe mai fatto "atti risoluti che dimostrino apertamente che egli prende sopra di sé le cose nostre" e che, perciò, non intendeva accedere all'idea di un prestito nazionale in comune con la Toscana o di una garanzia a un prestito toscano. Al massimo, si poteva sperare in sovvenzioni o in aiuti non troppo compromettenti. Egli escludeva. anche, per il momento, la possibilità di una reggenza del principe Eugenio di Carignano e, d'altronde, considerava chiusa la sua missione, tanto più che, dopo il suo arrivo a Torino, il Fenzi aveva preso a trattare direttamente la questione della "regia" dei tabacchi (Arch. Farina Cini, Fam., b. IV, 14).
Dopo il plebiscito dell'11 marzo 1860, nelle successive elezioni del 25, il C. fu eletto deputato al Parlamento subalpino, per il collegio di Pistoia II, e, quindi, rieletto al primo Parlamento del Regno d'Italia, per lo stesso collegio (27 genn. 1861). Partecipò assiduamente ai lavori delle assemblee, continuando a interessarsi dei problemi toscani. In genere, si schierò in Parlamento sulle posizioni dei moderati toscani; ma il 17 marzo '62, fece parte del gruppo di deputati che votarono contro il governo Rattazzi, Mentre, poi, approvò sempre la politica del gabinetto Farini-Minghetti. Fu anche membro della Commissione parlamentare per l'esame della legge sulla ricchezza mobile ed ebbe molta parte nei suoi lavori. Nel '64, il C. (che già, nel '60, aveva avuto le insegne di cavaliere dei ss. Maurizio e Lazzaro) ebbe l'incarico di commissario italiano all'Esposizione internazionale di Londra per l'industria cartaria; ne trasse l'occasione per stendere, insieme con un altro industriale cartario, Carlo Alberto Avondo, un'ampia relazione, Carta e cartoleria, stampa e rilegatura di libri (Torino 1865). che analizzava minutamente lo stato dell'industria cartaria italiana, anche in rapporto a quella straniera, e suggeriva i provvedimenti da prendere per assicurarle un livello adeguato a quello europeo, un maggiore impiego di capitale e un rapido sviluppo tecnologico.
Negli anni tra il '61 e, il '65, al suo impegno come parlamentare il C. accompagnò una sempre maggidre e incisivapresenza nelle vicende finanziarie del tempo; e, soprattutto, ebbe notevole parte nella complessa e intricata questione della politica ferroviaria italiana. Dai documenti dell'Archivio Farina Cini (b. XVI, Miscellanea e ferrovie)risulta che, oltre a far parte della commissione governativa per la Compagnia delle strade ferrate lombarde e dell'Italia centrale, era consigliere governativo nella Società per la via ferrata Lucca-Pistoia e nella Società anonima per le strade ferrate livornesi, ed era, inoltre, membro del consiglio di amministrazione della Società per la via ferrata maremmana e del consiglio direttivo della Società delle strade ferrate romane. Ma, certo, il fatto più importante fu la sua partecipazione alla fondazione della Società italiana per le strade ferrate meridionali e all'audace e spregiudicata operazione finanziaria e politica condotta dal Bastogi per l'attribuzione della costruenda rete meridionale alla società da lui promossa. Sono note le reazioni che ciò provocò nel mondo finanziario italiano ed europeo e in quello politico e parlamentare, con la conseguente formazione di una commissione d'inchiesta. Del consiglio di amministrazione delle Meridionali il C. fece parte sino alla morte. Il clamore sollevato dalla vicenda nocque, però, alla sua carriera politica; invano, alla vigilia delle elezioni del '65, egli cercò di difendere la sua posizione in una lettera pubblicata su La Nazione (e ristampata, anche a parte, Firenze 1865), nella quale rivendicava il diritto di essere rieletti anche a quei deputati che fossero amministratori di ferrovie sovvenzionate dallo Stato. Nella lettera il C. (che dichiarava di aderire al programma dell'Associazione liberale di Firenze, organo della "consorteria" toscana) ricordava di essere già appartenuto all'amministrazione di strade ferrate quando. nel '61, era stato eletto deputato e di non aver mai partecipato a deliberazioni interessanti le ferrovie; prometteva che, come aveva sempre fatto, avrebbe preso parte assidua ai lavori, curando gli interessi del proprio collegio. La sua candidatura, non ebbe però successo.
Nonostante la sua intensa attività politipa, il C. aveva continuato a dirigere la Società cartaria che, proprio nel '67, veniva liquidata, restituendo ai Cini la completa, proprietà della cartiera sulla Lima, insieme con il socici Cesare Volpini, ben presto ritiratosi. Nel '68 fu anche eletto presidente dell'Associazione nazionale delle cartiere italiane. Non si estraniò, però, dalla vita pubblica: il 16 genn. 1868, fu nominato sindaco di San Marcello e, il 10 ag. 1869, membro del Consiglio nazionale dell'industria e del commercio. Quale fosse poi la sua posizione nei dibattiti economici particolarmente intensi in quegli anni, soprattutto in relazione al problema del libero scambio ed alle ricorrenti polemiche sulla gqstione delle ferrovie, è chiaramente mostrato dalla sua partecipázione alla Società Adamo Smith di Firenze, roccaforte della "consorteria" toscana, della quale esprimeya puntualmente gli interessi e le. aspirazioni economico-politiche. Espressione tipica del suo liberismo è, infatti, la memoria Dell'utilità di una moneta comune nei diversi Stati europei e delle difficoltà che frappongono ad attuarla, letta il 3 marzo 1872 all'Accademia dei Georgofili (edita nel tomo II della serie IV degli Atti e pubblicata anche in estratto, Firenze 1872).
Qui il C. sottolineava l'utilità evidente dell'adozione di una moneta comune che avrebbe facilitato tutti i processi della vita economica, ma non si nascondeva gli ostacoli che si opponevano all'introduzione di una moneta decimale europea, dovuti alla resistenza ai nuovi usi ed alla difficoltà di pervenire ad un accordo internazionale sulla scelta tra l'oro e l'argento e sul tipo di lega. Personalmente riteneva preferibile l'argento.
Più importante e assai legata all'attualità fu la decisa presa di posizione del C., quando la questione ferroviaria divenne addirittura il fattore determinante degli schieramenti politici italiani, sino a provocare la crisi della Destra storica, travolta dalla secessione di buona parte dei moderati toscani, così interessati alla gestione delle ferrovie. Nel gennaio del 1876 apparve su L'Economista (e fu ristampata a Firenze, separatamente) una sua memoria dal titolo Dell'esercizio delle strade ferrate che esprimeva opinioni ben diffuse nel mondo finanziario e politico toscano.
Il C. passava in rassegna i vari tipi di ferrovie europee, private con concessioni perpetue o a tempo, sussidiate dallo Stato, costruite dallo Stato e da esso esercitate o cedute, per l'esercizio, a società private o miste. Da lungo tempo si discuteva quale fosse il modo migliore per costruirle ed esercitarle; e poiché in Italia i 9/10 della rete ferroviaria erano gestiti o posseduti da privati, veniva ora avanzata la tesi della proprietà e dell'esercizio statale. Con molta frajnéhezza, il C. riconosceva il carattere di monopolio delle ferrovie e non negava che lo Stato dovesse controllarlo e limitarlo, in modo che la libertà individuale fosse subordinata al beneficio generale; ma anche un monopolio, cqme nel caso dei tabacchi, poteva essere esercitato da privati, purché fosse regolamentato dallo Stato. D'altra parte, egli insisteva sul fatto che le ferrovie erano ormai una "grandissima" industria e la più vasta attività commerciale esistente in Italia; dichiarava che la questione essenziale consisteva nel rendere questo servizio pubblico "buono, sicuro, esatto" e con tariffe le più basse possibili, ma tali da assicurare un profitto ai capitali. Per difendere la gestione privata delle ferrovie, il C. presentava una serie di calcoli ed analisi dei costi tendenti a mostrare che, ovunque, l'esercizio statale risultava più caro di quello privato. La conclusione era, dunque, del tutto favorevole alla soluzione privatistica, tanto più che l'attribuzione delle ferrovie allo Stato avrebbe potuto facilmente introdurre nella. progettazione e nell'esercizio criteri elettoralistici, ispirati a scelte meramente politiche.
Il C. morì a Firenze il 27 sett. 1877.
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