CORONATA, Bartolomeo
Nacque a Genova verso il 1520 da Giovanni, ricco mercante ascritto all'"albergo" dei Pallavicino, e da Peretta, figlia di Nicolò Grimaldi Cebà, appartenente ad una famiglia della nobiltà "vecchia", grazie alla quale egli fu legato da rapporti di parentela con le più potenti casate della Repubblica. Il padre lo lasciò erede, coi fratelli Antonio, Domenico e Nicolò, di una cospicua sostanza, che egli contribuì ad accrescere come proprietario di una flotta mercantile e appaltatore di gabelle. I suoi legami con gli ambienti finanziari e commerciali, da un lato, e con l'aristocrazia cittadina, dall'altro, permisero al C. di emergere quale protagonista degli anni burrascosi che Genova attraversò dopo la morte di Andrea Doria.
Alla scomparsa dell'ammiraglio esplosero i contrasti tra nobili "vecchi" e nobili "nuovi", che la forte personalità del Doria aveva in parte sopito. I "vecchi", appartenenti a famiglie legate alla Spagna da rapporti finanziari e arricchitesi grazie alle operazioni di prestito e cambio, erano riusciti a garantirsi, con la legge del garibetto (1547), il controllo di parte delle cariche pubbliche di fronte alle pretese dei "nuovi", che le precedenti leggi del 1528, attraverso il sistema del sorteggio, avevano finito col favorire, dato il continuo aumento delle ascrizioni negli "alberghi". I "nuovi", inoltre, non rappresentavano una classe omogenea perché, accanto a membri di antiche famiglie provenienti dalla grossa borghesia e iscritte nel Liber civitatis sin dal 1528, essi comprendevano anche mercanti o artigiani (i "serrabotteghe", come venivano chiamati), giunti alla nobiltà in tempi più recenti. Al contrasto tra questi due gruppi in lotta per il controllo delle cariche pubbliche si aggiungeva anche l'insoddisfazione degli altri strati cittadini: quello mercantile ed intellettuale, perché ancora in gran parte escluso dalla partecipazione al governo, quello artigiano, in lotta per un aumento del prezzo di alcune manifatture seriche, e quello popolare per l'eccessivo peso delle gabelle e per le difficoltà di approvvigionamento di grano col conseguente alto costo dei viveri, in stridente contrasto con lo smodato lusso dei "vecchi".
Argomento di accese discussioni fu la legge del 1547: nella chiesa di S. Domenico, tra il febbraio e il marzo del 1575, si tennero colloqui tra quattro rappresentanti dei "vecchi" e quattro dei "nuovi" - tra questi ultimi il C., in sostituzione di Silvestro Invrea - nel tentativo di giungere ad un compromesso di fronte allo stato di tensione e ai disordini verificatisi in città.
Durante questi incontri le discussioni si protrassero a lungo senza alcun risultato: i "nuovi" rimasero fermi nella loro intenzione di ottenere l'annullamento della legge del garibetto, né accettarono la proposta di un arbitrato esterno per ché favorevoli ad un'opera di mediazione dei Maggior Consiglio, nel quale essi detenevano la maggioranza.
Il fallimento dei colloqui pose le premesse per un ulteriore avvicinamento tra i "nuovi" e il "popolo" (mercanti, avvocati, medici, notai, tessitori), al quale si promisero ampie ascrizioni alla nobiltà, nonché una sostanziosa diminuzione delle gabelle. I tentativi compiuti dai "vecchi" e dal loro capo, Gian Andrea Doria, per scollare tale alleanza fallirono: garante di quest'accordo contingente fu il C., il quale, benché nobile, come scrive il Casoni, "era ancora nel Popolo di maggiore autorità e reputazione degli altri come più pronto di lingua e più sagace nel consigliarsi amici e seguaci". Egli riuscì anche a rendere vano un altro tentativo dei "vecchi", quello di far occupare la città da uomini provenienti dai loro feudi rivieraschi: d'accordo con gli altri capi del "popolo", con un colpo di mano fece occupare i punti nevralgici della città, per intimorire il Senato.
In mezzo alla confusione e all'incertezza, il nobile "vecchio" G. B. Lercari si fece promotore di una iniziativa audace, quella di lasciare il governo al "popolo", non tanto per accattivarsene le simpatie, quanto per porre i "nuovi" di fronte alla prospettiva che la loro azione potesse concludersi con questo risultato.
Ancora una volta l'intervento del C. si rivelò decisivo: trovandosi in palazzo durante tale seduta e ascoltata la proposta del Lercari, egli spinse dentro la sala due suoi seguaci perché replicassero che il "popolo" non voleva il controllo del governo, ma l'abolizione della legge del 1547. Questo episodio, come nota Matteo Senarega, rappresenta il momento di maggior coesione tra "nuovi" e "popolo", disposto a appoggiare la causa dei primi anche contro il proprio interesse. Il Senato, già incerto ed esitante, di fronte alle notizie di una violenta sollevazione in città, abolì la legge del garibetto (15 marzo 1575).
La vittoria dei "nuovi" si rivelò presto precaria: il "popolo", insoddisfatto, obbligò il Senato a concedere, almeno formalmente, l'aumento del prezzo di alcune manifatture seriche, l'abolizione della gabella sulla pinta di vino e, soprattutto, trecento ascrizioni alla nobiltà. Questa decisione provocò, tuttavia, le prime incrinature all'interno dei "nuovi", i cui esponenti principali vedevano con preoccupazione l'allargamento del potere politico ad elementi di origine popolare. Il colpo di mano del 15 marzo ebbe anche un'altra grave conseguenza: i "vecchi" abbandonarono la città e si rifugiarono nei loro feudi rivieraschi.
Genova rimase nelle mani dei "nuovi" alle prese col difficile problema delle ascrizioni, promesse ma non ancora effettuate: solamente la grande abilità del C. riuscì ad evitare la rottura definitiva col "popolo". Fu eletto deputato col compito di raccogliere informazioni su chi intendeva ottenere l'ascrizione. Con mille scuse si poté, in tal modo, rinviare questo atto, placando il "popolo" anche con opportune elargizioni di denaro, affidate sempre al Coronata. Egli ne approfittò per aumentare il suo prestigio personale, tanto che, osserva sempre il Senarega, "poco mancò che non diventasse tiranno et se era huomo di spirito lo faceva senza alcun dubbio per le molte occasioni che se gliene offersero". In realtà, almeno in questo periodo l'obiettivo del C. non sembra tanto una dittatura personale quanto un governo dal quale fossero esclusi i nobili "vecchi" e i più potenti dei nobili "nuovi", evitando, tuttavia, che della situazione potesse approfittare l'elemento popolare. Alla fine di marzo l'arrivo del cardinale Giovanni Morone, inviato da Gregorio XIII, segnò l'inizio del tentativo di giungere ad un accordo tra le due fazioni.
L'atteggiamento del Morone, preoccupato di mantenere Genova nell'orbita spagnola e propenso ad un avvicinamento ai "nuovi", provocò la reazione dei fuorusciti, che decisero di prepararsi alla guerra; nello stesso tempo, essi convinsero alcuni capi del "popolo" a chiedere al cardinale l'abolizione di alcune gabelle e l'estinzione del debito pubblico, ma non riforme legislative favorevoli ai "nuovi". Questa abile mossa, tesa a negare ai "nuovi "il diritto di considerarsi rappresentanti degli interessi popolari, fu sventata grazie all'intervento del doge e dello stesso C.; ne seguì una violenta repressione che portò all'arresto e alla tortura di quei popolari che si erano resi responsabili del tentativo. Radunatisi nel Finale, i "vecchi" intensificarono i preparativi militari sotto la direzione del Doria, che rinnovò le sue pressioni sulla Spagna per un intervento deciso a fianco dei fuorusciti.
Mentre si ripetevano i tentativi di mediazione, nel giugno arrivò a Genova Marco Birago, inviato dal re di Francia, che ebbe colloqui riservati con alcuni cittadini e soprattutto col C., grazie alla cui autorità egli ottenne dal Senato licenza che Galeazzo Fregoso, capitano delle galee del re e bandito da Genova, potesse sbarcare in città. Tale episodio spinse la Spagna a rendere più stretti i suoi rapporti coi "vecchi", ma, nello stesso tempo, non le impedì di tentare un ulteriore accordo coi "nuovi", fallito per la loro richiesta di includere come mediatore anche il re di Francia.
Nel luglio il fratello del C., Antonio, fu ucciso di notte con un colpo di archibugio da Andronico Garbarino, spintovi da motivi personali; costui, per allontanare da sé ogni sospetto, tentò di far ricadere la colpa dell'assassinio sui nobili fuorusciti; molti popolari offrirono al C. il loro aiuto, ma egli rifiutò di scatenare la vendetta contro i "vecchi" "o perché - scrive G. B. Spinola - veramente fosse inclinato alla quiete o perché temesse che, cominciandosi ad entrare nel sangue, ne potessero seguire maggiori disordini, anche in pregiudizio della sua fazione".
Nel settembre, finalmente, i Collegi decisero di rimettere le differenze tra le due fazioni all'arbitrato del papa, dell'imperatore e del re di Spagna, ma con numerose limitazioni, tanto da spingere i "vecchi" ad insistere nella loro azione militare con l'aiuto spagnolo; all'accordo, voluto dai principali dei "nuovi", si opposero i capi di questa parte rimasti a Genova e più legati al "popolo". Già dal luglio avevano costituito un ufficio di guerra, composto di sei membri e presieduto dal C., che in tal modo, divenne il vero arbitro del governo in città.
Questo ufficio, che spesso si riuniva nella sua casa, fu da lui strettamente controllato; egli riuscì anche a rimuovere dalla carica Cristoforo De Fornari che, vicino ai principali dei "nuovi", aveva cercato di opporsi alle sue iniziative. Tale predominio personale, tuttavia, rese maggiormente evidente la frattura all'interno della fazione dei "nuovi": i più ricchi, legati alla Spagna da intensi rapporti commerciali e intenzionati anch'essi, tuttavia, a non permettere che di questa lotta potesse approfittare il re cattolico per assicurarsi un più stretto controllo sulla città, decisero di accelerare le trattative per un compromesso che evitasse il rischio di lasciate la città in balia del "popolo".
Anche il C. dovette temere che la situazione gli sfuggisse di mano; quando venne avanzata la proposta di eleggere un dittatore per le operazioni militari e la folla tumultuò perché fosse scelto il C., egli preferì evitare lo scontro frontale col Senato che aveva reagito fermamente facendo occupare i punti strategici della città. I colloqui tra le due fazioni divennero, intanto, frenetici, anche perché gli stessi fuorusciti si orientarono verso una soluzione pacifica, di fronte alle spese sostenute per la guerra e alle difficoltà finanziarie che essi stavano attraversando dopo la decisione di Filippo II di sospendere i pagamenti ai trattanti. Nonostante l'opposizione dei seguaci del C., i negoziati procedettero; quando, tuttavia, si conobbe la proposta avanzata dai mediatori di affidare al loro controllo l'ordine pubblico, il C. ne approfittò per sollevare il "popolo" che assediò la casa del cardinal Morone, costringendo il Senato a respingere tale proposta, non accettata, del resto, neppure dai "vecchi". L'elezione a doge di Prospero Fattinanti, l'arrivo in città di truppe chiamate dal Senato, le nuove più moderate proposte dei "vecchi" permisero di raggiungere un primo accordo il 28 ott. 1575.
In questa fase il ruolo del C. non è chiaro: il Senarega e, in modo più sfumato, lo Spinoia affermano che egli fu convinto dagli ambasciatori spagnoli a non opporsi all'accordo e a favorirne l'approvazione nel Consiglio Maggiore, dietro la promessa di una cospicua pensione annua. Questi legami dei C. con la Spagna risultano confermati anche da una lettera del card. Morone a re Filippo (8 nov. 1575), in cui si ricorda l'aiuto fornito dal C. alla causa spagnola e il suo desiderio di rimettersi alla protezione del re cattolico come avevano già fatto altri nobili a lui vicini.
L'ufficio di guerra, che aveva continuato ad esercitare un certo potere in città, fu sciolto nel febbraio 1576; sempre nel febbraio il Senato fece arrestare i principali parenti e collaboratori del C. istruendo contro di lui un processo, probabilmente lasciato cadere con l'indulto generale del mese seguente; il 17 marzo anche a Genova fu pubblicato il testo del compromesso faticosamente raggiunto a Casale. Questo accordo, che segnava la nascita di un unico ordine nobiliare e una ulteriore limitazione nelle ascrizioni, sancì anche la fine del ruolo da protagonista del Coronata. Tuttavia in città l'insoddisfazione per gli accordi rimase profonda: andavano, infatti, deluse le speranze di coloro che avevano lottato per un allargamento del governo in senso democratico.
In questo clima nacque il progetto di un colpo di mano contro il doge, che fu messo a punto da alcuni uomini, come Bartolomeo Montobbio, Pietro Cabella, Francesco Grosso e Giovanni Carbone) che erano stati i principali esponenti del gruppo radicale nelle lotte precedenti; a questi si aggiunsero il colonnello Agostino Satis, suo nipote Giulio Croce, i capitani Scipione Bacigalupo, Battista Boggiano e Stefano Figarella, che avevano militato nell'esercito dei "nuovi", il medico Silvestro Fazio, costretto in precedenza ad abbandonare Genova per aver pronunciato una violenta orazione contro il doge Fattinanti, Giulio Sale, Teramo Brignole, Luca Martignone ed altri. Che un colpo di mano sia stato concepito realmente, sia pure solo a livello verbale e in modo assai confuso, e che il C. vi sia stato coinvolto, ingenuamente o no, è fuori dubbio; il governo, più che inventare un colossale "affaire" per eliminare il C., dovette cogliere l'occasione, lasciando con abilità maturare i tempi, non solo per eliminare gli ultimi gruppi radicali presenti all'interno della nobiltà minore, ma anche per colpire la Rota criminale, nata con gli accordi di Casale, che costituiva un tentativo di amministrazione autonomo e indipendente della giustizia, visto con ostilità dall'oligarchia ormai saldamente al governo.
Il C., spinto forse dalla delusione per l'essere stato escluso da ogni potere effettivo in città, finì col lasciarsi coinvolgere nel progetto cospirativo. A partire da ottobre, nella sua casa, mentre egli si trovava a letto perché afflitto da gotta, maturò il piano per eliminare il doge e i senatori e sollevare la plebe.
La congiura prese forma in colloqui segreti, anche se non mancarono i contrasti: tutt'altro che chiaro era ciò che sarebbe successo dopo il colpo di mano, perché alla carica di doge aspiravano alcuni dei cospiratori, a cominciare dal Coronata. Anche i moventi non erano gli stessi: a chi sperava in un allargamento del governo in senso democratico e in una maggiore giustizia sociale, come il Satis e il Fazio, si aggiungevano altri violentemente avversi alla nobiltà e alla Spagna o altri spintivi da rancori personali. Anche il piano si precisò nei particolari con lentezza: si trattava di scegliere se assaltare i Collegi nella cattedrale di S. Lorenzo durante la messa per la morte dell'imperatore o attaccare il palazzo durante la elezione degli uffici: alla fine si optò per questo progetto. Tuttavia quando, dopo una serie di incontri protrattisi sino ai primi di dicembre, i congiurati decisero di riunirsi in casa del Satis o del Sale per dare ordine a tutto, scattò l'operazione repressiva del governo. Sin dai primi passi della congiura, infatti, i magistrati furono messi al corrente del progetto da Scipione Bacigalupo, che spontaneamente confessò i nomi dei cospiratori e i loro propositi. Egli è, senza dubbio, l'autore della Rivelazione della congiura Satis e Coronata, conservata in due copie nella Biblioteca universitaria di Genova.
Il 10 dicembre furono chiuse le porte della città e catturati quasi tutti i responsabili della congiura che, nonostante fossero stati avvisati dell'imminenza di alcuni arresti, preferirono rimanere a Genova. La Rota criminale procedette dapprima con severità; tuttavia, gli auditori e lo stesso podestà, Biagio dell'Osso, cambiarono atteggiamento sotto la pressione delle potenti amicizie vantate dal Coronata. A difesa di quest'ultimo intervenne, a quanto pare, lo stesso Giovanni Idiaquez, ambasciatore spagnolo.
Forse questo successivo appoggio al C. può dimostrare la partecipazione della Spagna alla congiura, come sostiene Andrea Spinola, che ricorda come cinquemila fanti spagnoli, presenti nei dintorni della città nei mesi in cui la congiura fu organizzata, fossero in seguito fatti imbarcare per le Fiandre, quasi che fossero stati di passaggio, mentre in realtà essi attendevano il momento opportuno per approfittare della situazione. Tuttavia, da quanto risulta dalla confessione del Bacigalupo, tra i congiurati erano comuni i sentimenti antispagnoli e la preoccupazione che proprio la Spagna potesse intervenire per bloccare il loro tentativo. Dai verbali degli interrogatori appare chiaro lo sforzo compiuto (a torto o a ragione) dagli auditori per scagionare i carcerati, presentandoli come vittime di una macchinazione ordita da alcuni nobili con la complicità del Bacigalupo, descritto come un lestofante e un vigliacco, e dei Boggiano, altro reo confesso. I testimoni convocati tentarono anche di dimostrare falsa l'opinione che il C. fosse stato caput Populi, sottolineandone, invece, l'opera di pacificazione in città. Gli interrogatori furono condotti con lentezza, dando tempo agli imputati di approntare una linea comune di difesa; si procedette, al contrario, con estrema severità proprio contro il Bacigalupo e il Boggiano, che furono torturati, in modo da scoraggiare chiunque avesse voluto fornire altre informazioni sulla congiura; furono commesse, infine, numerose irregolarità.
Con sentenza del 28 luglio 1577 i prigionieri furono rimessi in libertà vigilata dietro cauzione; la scarcerazione fu, però, eseguita con ritardo. Nell'agosto i prigionieri scrissero una supplica nella quale, oltre alla loro liberazione, chiedevano che si procedesse contro alcuni senatori, tra i quali Ambrogio Spinola, da loro accusati di aver spinto il Bacigalupo e il Boggiano a testimoniare il falso. Un mese dopo il C. e gli altri venivano rimessi in libertà, senza che venisse informato il Senato che, di fronte a questo atteggiamento provocatorio, reagì: nel settembre il Satis, che era riuscito a fuggire in Toscana, fu attirato in un tranello, catturato e portato a Genova, dapprima nella villa di Ambrogio Spinola e poi nel carcere dove, sottoposto a pesanti torture, fu costretto ad ammettere l'esistenza di un piano per eliminare il doge. La nuova Rota criminale, dopo che il dell'Osso e gli altri auditori furono deposti, procedette con severità spietata: l'interrogatorio del Satis si protrasse per vari mesi con continue torture, alle quali furono sottoposti anche gli altri congiurati.
Lo stesso C., quando si furono raccolte prove sufficienti per incriminarlo, fu dichiarato decaduto da tutti i suoi onori. L'oligarchia al potere, raggiunto al suo interno un equilibrio sia pure precario, intendeva in tal modo porre fine all'irrequietezza in città, punendo in modo esemplare i protagonisti delle agitazioni popolari degli anni precedenti. Benché gli storici concordino nell'affermare che il C. fu condannato a morte e decapitato, insieme ai principali responsabili del piano, in realtà egli visse in esilio a Saluzzo sino alla sua morte, avvenuta alla fine di giugno del 1584.
Il suo testamento fu dichiarato nullo, cosicché il C., che non aveva lasciato figli, risultò morto ab intestato. Pochi giorni prima del suo decesso, la Repubblica aveva accordato ad Agostino Mortara e a Giovanni Agostino Coronata, suoi generi, la facoltà di visitarlo. Il C. fu sepolto a Saluzzo; sulla sua tomba venne posta la seguente epigrafe: "Bartolomeus Coronata patricius Genuensis e perfidia civium expulsus, qui auctor salutis Reipublicae fuit".
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