BARTOLOMEO da Neocastro
Nacque a Messina nella prima metà del sec. XIII con tutta probabilità da una famiglia, proveniente da Nicastro nella Calabria ulteriore.
Studiò diritto ed entrò nell'amministrazione cittadina messinese: come "iudex Messanae" è ricordato infatti in alcuni dei pochi documenti pervenutici che lo riguardano.
La prima notizia sicura relativa a B. risale al 1273 in tale anno il maresciallo del Regno di Sicilia Adam Morhier, vicario di re Carlo d'Angiò in Sicilia, lo chiamò a far parte di una commissione incaricata di sindacare l'attività dei "collectores* reali nell'isola. Il titolo di "iudex", col quale è indicato nel documento, fa pensare che B. fosse già entrato nell'amministrazione della sua città, certo nel periodo di tempo compreso tra il 1265 (a tale anno si ferma il catalogo dei giudici messinesi compilato da C. A. Garulì nel quale B. non compare mai) e il 1270.
Quattro documenti, del 25 giugno 1274, 2 nov. 1275, 10 nov. 1276 e 15 sett. 1281, ci presentano B. nel normale esercizio delle sue funzioni di giudice ai contratti della città di Messina. Si tratta di atti privati cui egli conferisce, con la sua sottoscrizione, un valore legale. Un ufficio dunque, quello di B., che non comportava alcuna responsabilità di ordine politico e restava rigorosamente circoscritto nell'ambito amministra tivo cittadino. La sola esperienza non priva di riflessi politici B. la fece, a quanto risulta dalla documentazione disponibile, nel 1277 partecipando alla inquisitio contro i collettori regi di cui si è parlato. La scelta di un uomo come B. per un tale incarico fu dovuta probabilmente all'esigenza di dare in qualche modo soddisfazione agli interessi locali gravemente lesi dalla politica fiscale angioina, di cui il funzionario messinese poté avere modo di toccare con mano i congegni e gli strumenti più riposti. Un'esperienza dunque di notevole importanza amministrativa dalla quale un osservatore attento e competente avrebbe potuto desumere - cosa che non avvenne - un quadro abbastanza preciso del malgoverno angioino. Il ritorno alla pratica quotidiana dell'amministrazione messinese, dal cui ambito modesto non pare sia mai uscito nel corso dei dieci anni successivi (il silenzio delle fonti e dei registri della cancelleria angioina in particolare può autorizzare questa conclusione), non lascia supporre tuttavia in B. la maturazione di un qualsivoglia orientamento politico più o meno definito.
Quando la sera del 30 marzo 1282 scoppiò a Palermo la rivolta del Vespro, B. occupava regolarmente la sua carica di giudice che continuò a tenere oltre l'estendersi della rivolta alla sua città, come prova un atto di vendita del 10 maggio 1282, da lui sottoscritto nella qualità di "iudex Messanae".
La mancanza di altre notizie lascia pensare che B. non abbia avuto alcuna parte di rilievo negli avvenimenti che portarono Messina a proclamarsi libero comune nella notte tra il 28 e il 29 apr. 1282 e a schierarsi con i rivoltosi del resto dell'isola. La scarsa documentazione disponibile autorizza solo la supposizione che B., non essendosi mai compromesso politicamente con gli Angioini, fu confermato dal nuovo governo popolare messinese nella sua carica.
B. lasciò definitivamente la sua carica di lì a pochi mesi, dopo la fine dell'assedio di Messina (27 sett. 1282), quando da re Pietro d'Aragona, accolto trionfalmente in Città il 2 ottobre, fu nominato il 5 ottobre, con altri due cittadini messinesi e uno augustano, secreto e maestro portulano della Sicilia al di qua del fiume Salso .
Neanche in tale nomina è lecito scorgere il segno di una qualche rilevanza politica di B. che, messinese e giurista di larga esperienza anuninistrativa, dovette emergere tra le persone tecnicamente più preparate a riempire i nuovi quadri dell'amministrazione siciliana.
Un particolare non privo di interesse è costituito dalla circostanza che, stando al documento in questione, i quattro neoeletti avevano prestato poco prima, non di propria spontanea volontà, ma per disposizione reale, la somma di cento onze ciascuno alla curia del re. Di questa somma i quattro si affrettarono a chiedere, con poco patriottico procedere, l'in-imediata restituzione, ottenendo l'autorizzazione a prelevarla dalle entrate controllate dal loro ufficio. Non è da escludere l'esistenza di un qualche rapporto tra il prestito forzoso e la nomina dei quattro funzionari.
B. restò in carica per un periodo di tempo assai breve: in un documento del 9 nov. 1282 risulta già sostituito da un Ruggiero de Mauro da Castrogiovanni. Quella di secreto e maestro portulano era la più alta carica dell'amministrazione finanziaria delle province del Regno di Sicilia e impegnò B., nel brevissimo periodo di tempo nel quale la tenne, in un'intensa attività della quale resta traccia in cinque documenti emanati tra l'ii e il 26 ottobre, riguardanti importanti operazioni fiscali.
Dopo la rimozione da questa carica, non si hanno più notizie di B. fino al 12 febbr. 1286, quando, in qualità di "patronus fisci", presenzia come testimone, accanto ad alcuni fra i maggiori esponenti dell'anuninistrazione e della politica siciliana del tempo, alla solenne stesura dell'atto con cui il re di Sicilia, Giacomo, s'impegnava a prestare omaggio ed aiuto al fratello Alfonso III re d'Aragona.
Cosa ne sia stato di B. nei poco più di tre anni compresi tra il novembre del 1282 e il febbraio del 1286 non è noto; non sembra troppo azzardato supporre, tuttavia, che egli sia passato ad altro incarico, continuando la carriera nell'amministrazione finanziaria.
La considerevole posizione raggiunta da B. è confermata anche dal fatto che egli, secondo la sua stessa testimonianza, fu inviato, sempre nello stesso anno 1286, in missione diplomatica alla corte pontificia, per fare a papa Onorio IV atto di omaggio e di obbedienza a nome del re Giacomo e dei Siciliani, nel tentativo - riuscito vano - di indurlo ad assumere un atteggiamento meno intransigente nei confronti della questione Siciliana.
Di tale ambasceria furono incaricati il nobile catalano Gisberto di Castelletto, personaggio di primo piano della corte aragonese e uomo di fiducia di re Giacomo, che dovette esserne il principale protagonista (al contrario di quanto suppone il Paladino), data la statura politica e la qualità dei due "nuntii". Probabile che, essendo il Castelletto analfabeta, Giacomo, gli abbia associato B. in quanto uomo di lettere.
Ormai bene introdotto negli ambienti di corte, il 19 febbr. 1287 B. sottoscrisse,, senza nessuna qualifica, come semplice testimone, il transunto, eseguito dal notaio Facius de Parma per ordine del cancelliere del Regno di Sicilia Giovanni da Procida, dell'atto rogato il 2 nov. 1285, in base al quale Alfonso, allora infante, aveva ceduto a Giacomo i suoi diritti sulla Sicilia. Nel 1288 seguì la corte nel corso della spedizione antiangioina in terraferma e nel luglio-agosto fu presente, secondo la sua stessa testimonianza, all'assedio di Gaeta. Riappare, con la qualifica di iudex e sempre come testimone, in due atti rogati a Messina dal notaio Guglielmo de Solanis il 14 giugno 1290 con i quali re Giacomo s'impegnava a sposare Guglielma Moncada, figlia di Gastone di Béarn, e nominava a tal fine suo procuratore Bertrando de Cannellis. Già in tale anno B. doveva ricoprire la carica di iudex magne regie curie, nella quale venne sostituito il 26 sett. 1293. Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e non è da escludere che la sostituzione nell'alta carica presso la suprema corte giudiziaria siciliana segnasse anche la conclusione della sua carriera burocratica. Certo è solo che interruppe la composizione della sua cronaca dopo l'estate del 1294 e prima del giugno del 1295: in tale periodo di tempo cadde sicuramente la sua morte.
La vita di B., per quel tanto che possiamo ricostruire sui documenti disponibili, si configura con tutta evidenza come quella di un funzionario che, passato dall'amministrazione locale messinese in quella centrale del Regno di Sicilia, vi fece una brillante carriera, raggiungendo una posizione gerarchica piuttosto elevata, senza segnalarsi mai tuttavia sul piano politico.
Se, B. non partecipò quasi mai direttamente e attivamente agli avvenimenti che sconvolsero la vita di Messina e della Sicilia tutta nell'ultimo quarto del sec. XIII, di essi fu però spettatore attento e curioso e poi narratore vigoroso ed efficace: a lui si deve infatti una Historia sicula che partendo dalla morte di Federico II di Hohenstaufen arriva fino all'ambasceria dei Siciliani a Giacomo II d'Aragona, avvenuta nell'estate dell'anno 1293.
Nel proemio della cronaca B. avverte di avere scritto in precedenza un poema in esametri latini del quale la Historia rappresenterebbe la versione in prosa. Alla composizione di questa B. dichiara di essere stato indotto dalle preghiere del figlio al quale il poema era riuscito di troppo difficile lettura. Alla base di tutta l'opera ci sarebbe quindi solo l'esigenza di rendere accessibile al più largo pubblico un testo letterario troppo astruso e lambiccato, ma non è facile verificare la realtà delle asserzioni di B., dato che il poema non ci è conservato. Due codici di esso esistevano ancora nel sec. XVII in possesso di due eruditi, l'aragonese Geronimo Zurita e il messinese Antonino Amico, che non riuscirono a pubblicarli e neanche a salvarli dalla dispersione. Di essi restò solo il titolo e una sommaria descrizione. Il titolo, conservato nella sua formulazione più completa nell'elogio dello Zurita del Donnèr, suona: Messana a Carolo Siciliae rege obsessa auctore Bartholomaeo Neocastrensi De rebus gestis a Petro Aragoniae rege in Sicilia adversus Carolum eius nominis Primum Siciliae regem libri XV, e trova genericamente conferma nelle formulazioni incomplete riferite dall'Arnico e dallo stesso Zurita che definì poi il poema opera prolissa ed ampollosa, letterariamente infelice, ma di inestimabile valore come fonte storica. A giudicare da queste testimonianze il poema di B., centrato su Messina, non doveva andare oltre la partenza di Pietro d'Aragona dalla Sicilia (aprile del 1283), e, ispirato dal proposito di glorificare le gesta "venerabilium Messanensium communium civium", doveva avere come nucleo l'assedio di Messina dell'agostosettembre del 1282, l'arrivo dei soccorsi aragonesi, l'ingresso trionfale di re Pietro in veste di liberatore. Il famoso assedio che tanto fortemente colpi la fantasia dei contemporanei per l'eroica resistenza dei Messinesi era argomento quanto mai adatto a una trattazione retorica nel classico stile del poema epico, certamente tale da sollecitare tutto l'interesse di B., buon cittadino messinese e uomo di lettere fornito di una sicura preparazione retorica. Un'opera del genere, nata nel vivo di quell'esperienza, non poteva non riflettere, seppur mediata da una compassata strumentazione retorica, la generale temperie messinese di quei tempi, e non registrare fatti, sentimenti e ideali politici costitutivi della breve storia del libero comune di Messina e di scorcio di tutta la Communitas Siciliae. Qualche traccia di ciò è rimasta del resto in un accenno dello Zurita che nei suoi Anales riferisce, sulla fede del poema di B., di un parlamento tenuto a Messina all'inizio dell'estate del 1282 nel corso del quale i Siciliani "juramentaron todos de obedecer a la Sede apostolica, y no admitir ningun rey estrangero". Dalla stessa fonte, come suppose già l'Amari, lo stesso Zurita dovette derivare la notizia della deplorazione dei Messinesi della prima ambasceria dei Palermitani a re Pietro che minacciava di turbare la concordia fra le città siciliane, sconfessando il giuramento di obbedienza alla Chiesa e il proposito di astenersi dal sollecitare l'intervento di un re straniero. Il poema doveva essere senza dubbio una sorta di epopea della rivolta di Messina, germinata nello stesso ambiente cittadino che aveva vissuto quell'esperienza e destinata a rinverdimè la fresca memoria. Come tale lo sentì certamente lo stesso B., che in sede di stesura della cronaca, in una situazione soggettivamente e oggettivamente diversa, si guardò bene dal conservare il ben che minimo particolare capace di rievocare l'arroventata atmosfera messinese dei tempi della Communitas e di lasciame trasparire gli spiriti accesamente antimonarchici.
Quel poco che del poema sappiamo consente così di individuare altre e ben più significative moùvazioni, oltre quella puramente stilistica. addotta dallo stesso autore, del passaggio dal poema alla cronaca: non di due redazioni della stessa opera, l'una in versi e l'altra in prosa, si trattava, ma di due opere diverse, nei termini cronologici che nella cronaca abbracciano un periodo di tempo molto più ampio, nella scelta delle notizie che obbedisce a preoccupazioni successive e contrastanti, nella stessa intelaiatura narrativa prima accentrata sull'assedio di Messina e poi articolata in un contesto generale che sposta decisamente il centro di gravità sulla corte aragonese di Sicilia. Tale diversità rinvia risolutamente a due ambienti e a due momenti diversi, quello cittadino messinese degli anni intorno al 1282-83 e quello della corte aragonese del decennio successivo, ai quali ci riconduce anche la biografia di Bartolomeo.
Sulla scorta di queste prime indicazioni sembra quindi possibile arrivare a una datazione abbastanza approssimata delle due opere.
Il primo tentativo di datazione della Historia è del Muratori: B. nel cap. CX afferma che Augusta fu fondata cinquant'anni prima che egli scrivesse e su questa base l'erudito la datò al 1292. Tale conclusione, accolta dal Paladino e dalla Fasoli, aveva però un fondamento assai labile: Augusta non fu fondata infatti nel 1242, come il Muratori credette di avere accertato, ma sicuramente prima del 1239, e d'altra parte i calcoli cronologici di B. non meritavano tanto credito. La cronaca contiene però elementi di datazione più sicuri. Nel cap. LXIII re Pietro, in procinto di partire per la Catalogna, designa il figlio Giacomo come erede al trono di Sicilia, precisando che è da preferire a Federico "fratri suo tamquam maior natu". L'accenno alla possibilità di una successione di Federico, impensabile nell'aprile del 1283 quando erano ancora vivi Alfonso e Giacomo, non trova riscontro in altre fonti e rinvia almeno al settembre del 1291, al momento cioè in cui Giacomo salì sul trono d'Aragona, senza rinunziare però al Regno di Sicilia nel quale lasciò Federico come luogotenente, non come re, secondo quanto voleva la tradizione instaurata da Pietro. Fissato questo termine a quo si può stabilire un termine ad quem: la Historia si interrompe con la risposta dì Giacomo agli ambasciatori siciliani giunti a Barcellona il 3 luglio 1293, ma nel discorso che uno degli ambasciatori, il messinese Pandolfa di Falcone, rivolge a Giacomo per chiedere chiarimenti sulle segrete trattative di pace in corso con gli Angioini e manifestargli lo sdegno dei Siciliani per le dicerie che gli attribuivano l'intenzione di cedere la Sicilia alla Chiesa, si fa preciso riferimento, come notò già il Rohde' al progetto di matrimonio di Giacomo con Bianca d'Angiò, che venne ventilato nel dicembre del 1293, e alle trattative per conferire a Federico la carica di senatore romano che furono iniziate solo nel maggio del 1294. Ha osservato poi lo Hitzfeld che, sempre nel discorso di Pandolfa di Falcone, si accenna alla profezia che destinava al Regno di Sicilia un terzo Federico, individuato nel langravio Federico di Turingia, nipote di Federico II, e si sa che nel parlamento di Catania del gennaio del 1296 Ruggiero di Lauria presentò per la prima volta una nuova versione di questa profezia, sostituendo al langravio di Turingia Federico d'Aragona. B. non conobbe questa versione e scrisse quindi la sua cronaca in un periodo di tempo anteriore al gennaio del 1296 e successivo al settembre del 1298 A questo punto la questione della datazione s'interseca col problema più generale della composizione della Historia.
A giudizio unanime degli studiosi, la cronaca di B. s'interrompe bruscamente al luglio del 1293, secondo quanto suppongono i più, per la morte dell'autore. Tale conclusione contrasta però con le ffichiarazioni dello stesso B. che nel Prooemium assicura di avere già completato l'opera. Rivolgendosi al figlio infatti precisa: "tuis itaque precibus acquiescens, sicut melius enucleari potui, dictiones praesentes intelligibiles exquisivi, et ex eis ... composui praesens opus, quod tibi mitto..." - Queste esplicite dichiarazioni non hanno attirato l'attenzione degli studiosi, ma non pare che sussistano ragioni valide per negar loro credito. B. mandò al figlio un'opera ben conchiusa e definita e quindi il testo della cronaca come ci è pervenuto, o è mutilo, oppure è quello stesso che B. considerava concluso. Lo studio della tradizione manoscritta, condotto dal Paladino con metodo poco rigoroso, non autorizza allo stato attuale della ricerca alcuna risposta al primo quesito. Per ora resta solo la possibilità di saggiare la validità della seconda ipotesi, prescindendo provvisoriamente dall'esame della tradizione manoscritta.
È ormai accertato che B. scrisse almeno l'ultima parte della Historia dopo il maggio del 1294, in un preciso momento storico al quale occorre riandare.
Nel febbraio del 1293 erano iniziate trattative tra Giacomo e Carlo II d'Angiò che nel dicembre, dopo una serie di convegni, si conclusero con un accordo segreto: si trattava di un armistizio che prevedeva il matrimonio di Giacomo con Bianca d'Angiò, figlia di Carlo, e la restituzione della Sicilia alla Chiesa. La prospettiva, profilatasi di Il a poco, di arrivare a un'intesa diretta con la Francia offrì però a Giacomo la possibilità di lasciar cadere gli accordi del dicembre nel tentativo di scavalcare gli Angioini. Le trattative con Filippo il Bello si protrassero per tutto il 1294 e nella primavera del 1295 erano già arrivate in porto, quando l'intervento massiccio di Bonifacio VIII rimise tutto in discussione e costrinse Giacomo a ritornare sui suoi passi: il trattato di Anagni dei giugno del 1295 stabilì la pace tra le due corti di Napoli e di Barcellona e la cessione della Sicilia alla Chiesa. Del sottile gioco diplomatico di Giacomo era arrivato in Sicilia più di qualche sentore, in un continuo alternarsi di notizie e di smentite che trovavano in parte fondamento nell'atteggiamento ondeggiante del re, deciso certo a concludere la pace, ma non meno impegnato nello sforzo di non pagare l'alto prezzo preteso da Carlo II, la cessione della Sicilia. B. non ha dubbi sulla lealtà di Giacomo che a Pandolfo di Falcone risponde sconfessando recisamente ogni intenzione di cedere la Sicilia. E' dffficile ammettere che questa risposta, contenuta nell'ultimo capitolo della cronaca, sia stata scritta dopo il trattato di Anagni, da quello stesso B. il quale non aveva mancato di riprovare con sdegno l'intenzione manifestata da Alfonso nel 1291 di abbandonare la Sicilia ai suoi nemici. Non sembra azzardato così anticipare il termine ad quem al giugno del 1295, a un momento cioè in cui B. poteva conferire ancora piena validità all'impegno di Giacomo di non lasciare la Sicilia nelle mani dei suoi nemici. La questione della lealtà di Giacomo verso i Siciliani è della massima importanza per B. che non nasconde mai il forte attaccamento a quello che egli considera il re di Sicilia per antonomasia, il suo re. Quasi tutta la cronaca èdominata dalla presenza di Giacomo che dal momento in cui giunge in Sicilia, nell'aprile del 1283, assume sempre più decisamente il ruolo di principale protagonista, di centro propulsore della storia dell'isola. Quando nel 1291 la morte di Alfonso toglie alla Sicilia la sua presenza animatrice, B. arriva a negare l'evidenza dei fatti: l'ascesa di Giacomo al trono d'Aragona non spezza l'intenso rapporto con la Sicilia, ché Giacomo si sente ancora anzitutto re di Sicilia e B. lo rappresenta, mesto e silenzioso, indifferente alle acclamazioni dei suoi nuovi sudditi, "contentus solo vocabulo Regni Siciliae, cuius regale sceptrum assumpserat, rex Aragonuin appellari quasi dedignans" (cap. CXVIII).
Inutile dire che questa visione di B., carica di elementi topici e letterari, non trovava alcuna rispondenza nella situazione politica siciliana che, dominata dalla preoccupazione del futuro dell'isola, ormai alla mercé di un re straniero e lontano, non tardò ad evolvere in direzione della successione di Federico. Tale prospettiva non ebbe alcuna presa su B. che anzi cercò di esprimere il suo dissenso nella maniera che si è detto. L'ascesa di Giacomo sul trono d'Aragona non richiama ad esempio nella mente del cronista la divisione tra i due regni di Sicilia e d'Aragona e il conseguente ordine della successione stabiliti da re Pietro e confermati da Alfonso che dispose per testamento la successione di Giacomo in Aragona a condizione che Federico ottenesse la Sicilia. Di tutto ciò B. tace, preoccupato solo di presentare Giacomo come la vittima di un fatale disegno del destino che lo costringe ad allontanarsi dall'isola. Un accenno alla possibilità di una successione di Federico è contenuto solo nel discorso di Pandolfò di Falcone, ma non senza la preoccupazione di negarle ogni valore giuridico. Pandolfo, dopo aver manifestato i sospetti dei Siciliani sulle segrete intenzioni del re, prorompe in un'accorata implorazione e chiede a Giacomo di cedere la Sicilia a Federico "non quod sic iura voluerint, sed tamen quod, volentibus Siculis, fata permittunt.... Non enim quod pater decrevit in ultiiiiiis.. aut quod frater patri successor legavit, auferimus; sed quos de tua potestate subiectos emanuiiiiseris Siculos, si vivendi negatur sine te nobis auctoritas, si libertas, petimus sub tutela fratris nos esse'... misericorditer patiaris" (cap. CXXIV). Nello stesso discorso dell'ambasciatore messinese che riecheggiano sicuramente le posizioni del partito siciliano stretto intorno a Federico B. insinua così questa recisa sconfessone giuridica della pretesa di Federico il trono di Sicilia. Questo atteggiamento potrebbe far pensare a un collegamento di B. con i partigiani di Giacomo presenti e attivi in quel momento in Sicilia. Ma si trattava di gente sempre più compromessa con gli Angioini con la quale B. non poteva avere niente in comune. Il suo atteggiamento verso Giacomo non rinvia a una meditata convinzione politica, pare piuttosto l'espressione, letterariamente assai elaborata, di un personale attaccamento al sovrano aragonese al cui seguito B. trascorse gli anni più importanti della sua vita. Alla luce di questa intensa devozione personale la composizione della Hístoria acquista quasi il carattere di un omaggio al re ormai lontano e insieme di un caldo invito a mantenersi fedele ai legami con la Sicilia: riesce difficile sottrarsi alla tentazione di spostare anche il termine a quo e collocare la composizione della cronaca negli anni compresi tra il 1293 e la prima metà del 1295, quelli che videro il lento maturare di quella definitiva rottura tra Giacomo e la Sicilia alla quale B. volle reagire. Certo è comunque che la Historia sembra concludersi virtualmente con la partenza di Giacomo dalla Sicilia (cap. CXVIII) ed effettivamente con la risposta agli ambasciatori siciliani che riconferma solennemente l'impegno del re a non abbandonare mai l'isola al suo destino.
Dei centoventiquattro capitoli nei quali si divide la cronaca, a Giacomo ne toccano circa la metà per complessive novantadue pagine delle centoquarantuno dell'edizione Paladino. La parte riservata a Giacomo risulta quindi chiaramente prevalente, ma non esclusiva: ènecessario quindi considerare il problema della composizione della cronaca anche in relazione al suo rapporto col poema e alla datazione di quest'ultimo. Nel Prooemium B. dichiarava di avere scritto il poema a edificazione del figlio ancora bambino che più tardi, orinai giovinetto, lo trovò del tutto incomprensibile. Egli stesso fissa così per la composizione delle due opere due momenti distinti separati dagli anni che intercorrono tra l'infanzia e la giovinezza del figlio. Dovette quindi scrivere il poema circa un decennio prima della composizione della cronaca, grosso modo negli anni 1283-1284, fresca ancora la memoria degli avvenimenti messinesi.
Nella cronaca quindi non poteva restare molto del poema: vi restò la carità per il natio loco sebbene in proporzioni più discrete. Conciliare l'"honorem reguin" con l'"intuitu venerabilium Messanensium" non riuscì difficile a B., il cui orizzonte politico si circoscriveva nei limiti angusti di una decisa avversione agli Angioini e di un tenace lealismo verso Giacomo d'Aragona. Tutta quella parte della cronaca che va dal malgoverno angioino fino alla partenza di re Pietro per la Catalogna deve essere veramente la versione in prosa del poema ridotto e compendiato. Più difficile accertare se anche i primi capitoli dedicati agli Svevi provengano dal poema.
Alla base delle due opere restò certamente, e la circostanza è del massimo interesse, la stessa ambizione letteraria. La Fasoli rimprovera a B. di non aver "saputo rinunciare a trasferire nella redazione prosastica certi episodi favolosi o romanzeschi ..."i quali, artisticamente giustificabili in un poema epico, sono fuori di posto in un'opera con intendimenti storiografici" (p. 29). Ma una .così rigorosa distinzione tra poema epico e cronaca non era certo nella coscienza dello scrittore medievale, al quale non si possono prestare impossibili intendimenti storiografici. B. non poteva rinunciare alle sue lunghe e tanto frequenti digressioni, più o meno favolose, perché le riteneva assolutamente costitutive della sua nuova opera, che negli intendimenti dello scrittore restava sempre essenzialmente una trattazione retorica. Su questo punto il significato delle affermazioni dello stesso autore è incontrovertibile: egli dichiara nel Prooemium di volgere in prosa il poema perché il figlio non aveva "notitiam" del "metrico stylo" al quale sostituisce una "solemnem prosam", con la precisa coscienza di non alterare così minimamente il carattere dell'opera. La natura essenzialmente letteraria della Historia individuò acutamente nel secolo scorso un critico romantico, il Frenzel, che indicò proprio in quelle digressioni, tanto dispiaciute alla Fasoli, la parte più valida dell'opera, ed emerge del resto indirettamente dall'esame pur sommario della cronaca compiuto dalla stessa Fasoli, che sottolinea opportunamente la mancanza in B. di ogni "sensibilità per i fatti politico-sociali del tempo suo * (p. 307). Indubbiamente anche B., come ogni cronista medievale, avvertiva l'esigenza di raccogliere gli avvenimenti in un racconto ordinato per conservare fatti e sentimenti "in aeternam memoriam posterorum", con l'occhio però sempre fisso al "solatium" del lettore, nel quale egli ravvisava l'obiettivo principale della sua attività di scrittore. Riesce cosi difficile stabilire il valore della cronaca come fonte storica, senza avere prima penetrato la ferrea armatura retorica entro la quale è racchiusa. E in questa direzione, dopo il primo inadeguato sondaggio dei Frenzel che si limitò a collegare genericamente la Historia con la nascita della novellistica romanza in Italia, non è stata compiuta alcuna ricerca. Per ora è solo possibile, in virtù delle verifiche eseguite dall'Amari, identificare alla base del racconto un'esperienza diretta di cose e di uomini che, malgrado la rigorosa strumentazione retorica, porta un importante contributo alla conoscenza della storia del Vespro e della guerra che lo segui. L'importanza della testimonianza è limitata però gravemente dalla deficiente coscienza politica dello scrittore, che non fu certo tra "gli interpreti oltre che artefici di una comune e consapevole coscienza siciliana", come vuole il De Stefano, e neanche il "cronista della monarchia", che pensa la Fasoli, ma solo un uomo di lettere. In conclusione, solo lo studio sistematico della Historia con gli strumenti della moderna analisi storico-letteraria potrà offrire i necessari elementi preliminari a una corretta valutazione dell'opera e, restituendola alla sfera letteraria che le è propria, precisarne il significato e l'importanza nel quadro della cultura del tempo.
La prima edizione della Historia, condotta sul codice più importante, fu pubblicata da G. M. Amato a Palermo nel 1728. Seguì nel 1729 l'edizione dei Muratori su un codice fornito dal giurista messinese P. Aglioti, quindi nel 1791: quella di R. Gregorio e nel 1868 quella di G. Dei Re con la traduzione italiana a fronte. Nel 1921: apparve infine l'edizione critica curata da G. Paladino per il tomo XIII, parte 3, dei Rerum Italicarum Scriptores, alla cui introduzione si rimanda per la storia del testo e delle edizioni.
Fonti e Bibl.: La biografia più completa, contenuta nella introd. del Paladino (pp. III-X), non utilizza tutti i docum. disponibili a cui occorre far riferimento direttamente. Cfr. Quindi Arch. di Stato di Palermo, Tabulario del monast. di Santa Maria Maddalena di Valle Giosafat, n. 146; Tabulario dì Santa Maria di Malfinò, n. 84; De rebus Regni Siciliae (9 sett. 1282-26 ag.1283), documenti ined. estratti dall'Arch. della Corona d'Aragona e pubbl. dalla Sovrintendenza agli archivi della Sicilia, Palermo 1882-1892, ad Indicem; I diplomi della cattedrale di Messina raccolti da A. Amico, a cura di R. Starrabba, Palermo 1888, pp. 111, 123; Codice diplom. dei re aragonesi di Sicilia (1282-1353), a cura di G. La Mantia, I, Palermo 1918, ad Indicem; I registri della Cancelleria angioina, ricostruiti da R. Filangieri, XIII, Napoli 1959, pp. 155 s.; G. Del Giudice, B. da Neocastro, Francesco Longobardo, Rinaldo de Limogiis, giudici in Messina, in Arch. stor. per le prov. napol., XII (1887), pp. 265-288; H. E. Rohde' Der Kampf um Sizìlien un den Jahren 1291-1302, Berlin und Leipzig 1913, p. 163; E. Sthamer, Aus der Vorgeschichte der Sizilischen Vesper, in Quellen und Forsch. aus italien. Archiven und Bibliotheken, XIX (1927), pp. 306 s. Per i rapporti della Historia col poema e la loro datazione cfr. G. Zurita, Anales de la Corona de Aragón, I, Zaragoza 1610, pp. 244v24sr, i passi del Dormèr, dell'Amico e ancora dello Zurita riportati da I. Carini, Gli archivi e le biblioteche di Spagna, I-II, Palermo 18841897, ad Indicem, e dal Paladino (pp. X-XIII), e inoltre H. E. Rohde (1913), pp. 80, 82 s., 93 s. e passim; K.L. Hitzfeld, Studien zu den religíosen und politisch Anschauungen Friedrichs III. von Sizilien, Berlin 1930, pp. 6 s. Per una valutazione della Historia e in gener. per tutti i problemi connessi cfr. C. Frenzel, Zur Kritik mittelalterlicher Geschichtsschreiber. B. de N. und Nicolaus Speciale, in Aligemeine Monatsschrift für Wissenschaft und Literatur, 1854, pp. 573-589; M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, I-III, Milano 1886, passim; O.Cartellieri, Peter von Aragon und die sizilianische Vesper, Heidelberg 1904, ad Indicem; A. De Stefano, Federico III di Sicilia, Palermo 1937, pp. 11, 61; G. Fasoli, Cronache mediev. di Sicilia, Catania 1950, pp. 26-33; G. Lisio, La storiografia, Milano s.d., pp. 238-242.