Sacchi, Bartolomeo detto il Platina
Sia nell’ambito dell’Umanesimo romano, sia in quello dell’intero Umanesimo italiano ed europeo, il Platina assume un posto rilevante per aver concepito un’originale storia del pontificato, superando la tradizione erudita e l’impostazione prettamente ecclesiastica degli annali, e uniformandosi alla nuova storiografia con una predilezione biografica. Ma la vicenda drammatica di cui fu protagonista, quale l’incarcerazione subita per una presunta congiura e un’accusa di paganesimo, ne fa un esempio emblematico di avversione all’integralismo clericale, pur sottaciuta nelle forme etiche, più che politiche ed esplicite, del conciliarismo, della simpatia repubblicana e dell’epicureismo classico, e quindi di prudenza umanistica.
Nato nel 1421 presso Cremona (da Piadena, il borgo di origine, prese il soprannome di Platina), Bartolomeo Sacchi cominciò come soldato di ventura al seguito di Francesco Sforza e Niccolò Piccinino ma, ricevuta una formazione umanistica alla scuola mantovana di Ognibene da Lonigo (1449-53) e alla scuola fiorentina di Giovanni Argiropulo (1457), divenne precettore nella corte dei Gonzaga di Mantova, subentrando a Ognibene; quindi si trasferì a Roma (1462-63) quando il suo allievo Francesco Gonzaga ricevette la nomina cardinalizia, e a Roma concluse felicemente la sua carriera di umanista come prefetto della Biblioteca vaticana. Ma mentre durante il pontificato di Pio II, che lo vide impegnato presso la curia nel Collegio degli abbreviatori e associato al sodalizio accademico di Pomponio Leto, aveva avuto anche motivo di elogiare la cultura di quei tempi in una laus bonarium artium dedicata allo stesso papa, sotto il pontificato di Paolo II (1464-71), il quale sciolse l’Abbreviatura e perseguitò gli umanisti pomponiani, il Platina trascorse gli anni più amari della sua vita, tornando nelle grazie del potere papale solo durante il pontificato di Sisto IV (salito al soglio nel 1471), fino alla morte che lo colse a Roma durante la peste del 1481.
Il Platina subì, infatti, per due volte, la carcerazione fino alla tortura durante il pontificato di Paolo II; la prima volta per aver espresso in una lettera al pontefice (pur inviata sotto il falso nome di Ognigene) il risentimento degli abbreviatori, riacquistando però la libertà per intercessione del cardinale Gonzaga (1465); la seconda volta (1468) per le accuse di eterodossia, di paganesimo, di comportamento immorale e di cospirazione ai danni del papa, di cui furono vittime più esponenti dell’Accademia romana. In effetti, dopo la prima carcerazione, egli aveva ricordato con nostalgia i tempi di Pio II in una biografia del pontefice confluita poi in parte nella storia dei papi, ma cercò anche di ingraziarsi Paolo II con un trattato in lode della pace e un’orazione a lui diretta sulla composizione della pace in Italia e sulla necessità di muovere guerra ai turchi. Era destinata a Paolo II anche la prima redazione del De falso et vero bono, dove l’umanista, pur lamentando il carcere, si mostra disposto a sopportarne la miseria ascoltando i dettami della filosofia e della religione. La redazione finale dell’opera, dedicata a Sisto IV, le attribuisce ovviamente, nonostante il suo registro rimasto fondamentalmente consolatorio, il senso di una denuncia contro il papa scomparso, verso il quale in vita non si era comportato con la stessa fermezza di Pomponio Leto.
Dopo un breve soggiorno a Napoli, il ritorno a Roma riservò al Platina la benevolenza di Sisto IV, al quale egli dedicò appunto la nuova redazione del De falso et vero bono (ripreso assieme alla composizione di un libro collaterale sulla nobiltà), ricevendo l’incarico di scrivere una storia del pontificato e, nel 1475, la carica di prefetto della Vaticana in seguito alla scomparsa del precedente bibliotecario.
Prima di cimentarsi con la storiografia pontificia, che gli darà la fama in Italia e in Europa, il Platina aveva affrontato tre dei problemi più discussi nella cultura del 15° sec., destinati a essere ancora al centro del pensiero etico-politico nel pieno e nel tardo Rinascimento: la condizione dell’uomo in quanto anima costretta a una vita terrena, ma alla ricerca della felicità (De falso et vero bono), l’organismo politico nel quale questa sua vita si attua (De optimo cive, De principe), lo stato sociale cui la sorte o i meriti lo destinano (De vera nobilitate). Sembra un organico programma di ordine morale e politico, e infatti è svolto con un evidente piglio pedagogico, vista la scelta della forma dialogica adoperata in senso dialettico per quel tanto che basta a rendere articolato, ma non drammatico né acuto, lo scontro delle opinioni, e di uno stile latino piano e fin troppo ingenuo nell’uso di topoi ben riconoscibili della trattatistica antica e moderna. Il Cicerone delle opere morali, l’Aristotele dell’Etica, il Platone di alcuni dialoghi più noti, la Ciropedia di Senofonte sono i punti di riferimento più espliciti, con gli autori dell’antichità e le loro scuole di pensiero cui rimandava il tramite ciceroniano. Eppure l’esperienza autobiografica da cui derivano situazioni e riflessioni, qualche sotteso obiettivo polemico, come, per es., il Valla del De voluptate, il riferimento a qualche motivo più caldo della discussione attuale, quale la decadenza della Chiesa o la trasformazione del sistema bellico per l’introduzione delle armi da fuoco, introducono talora nel dialogo generalmente piano e accomodante un elemento non di discontinuità o di contraddizione, ma certo d’importanza documentaria per quel che riguarda il dramma che vive l’Italia del secondo Quattrocento.
Nel De falso et vero bono è riconoscibile lo schema del De finibus bonorum et malorum, ripristinato, un vero recupero del pensiero autentico ciceroniano, rispetto al De vero falsoque bono di Lorenzo Valla che ne aveva capovolti i valori facendo del piacere una premessa della felicità cristiana. Ma la riduzione del dibattito a una consolatio, concepita come un dialogo fra l’autore stesso, in carcere, e i tre dotti amici che fra un crescendo di argomenti filosofici lo visitano e lo conducono dalla sofferenza alla liberazione dell’anima verso la felicità divina, rivela l’intenzione di cumulare la situazione di Socrate in carcere alla vigilia della morte con la tradizione che ne era derivata, dalla Consolatio philosophiae di Boezio al Secretum di Francesco Petrarca. Si aggiunga che la condizione autobiografica del carcere subìto assume il carattere simbolico dell’anima racchiusa e oscurata dai sensi e dalle false opinioni.
L’articolazione dei tre dialoghi vede infatti la progressiva confutazione del senso inautentico attribuito dall’uomo alle cose, quando le sofferenze della vita sono assunte appunto come sofferenze perché non si vede il male che il loro contrario riserba (perfino la libertà e l’amicizia, di cui il carcerato sente la mancanza, potrebbero riserbargli la disillusione); quando non s’intende la sostanza della virtù, ribadita come valore fine a se stesso, perché vissuta nell’intimo dell’animo, non come mezzo per ottenere riconoscimenti esteriori, e quindi superata soltanto dalla felicità della contemplazione in quanto conoscenza di se stessi e della verità divina. Il paradosso che si annida in questa versione cristiana dello stoicismo, ovviamente intercalata da obiezioni mondane (per es., la ben nota difesa della ricchezza, quando è moderata alternativa alla povertà che invece disturba anche la vita del sapiente), esplode nella conclusione che utilizza la pietà cristiana per riconoscere al carcerato, privato di tutto ma in realtà povero di spirito nel senso evangelico, il privilegio di essere remunerato nell’altra vita. In realtà, la secolarizzazione del più autentico discorso cristiano risiede nella domanda finale, ansiosa, rivolta dal personaggio dell’autore quando chiede come si possa raggiungere il sommo bene proposto in questa vita: la liberazione dai falsi concetti e la contemplazione, ossia la conoscenza, sono, come in Petrarca, già una conquista dell’uomo nella vita terrena.
Uno sviluppo sul piano politico di questo stoicismo peripateticamente e accademicamente moderato, ma indirizzato, o deviato, in senso cristiano, e tuttavia rivolto a regolare la vita terrena, sono il De optimo cive, databile intorno al 1470, ambientato a Firenze nella villa di Careggi con interlocutori Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico oltre all’autore, e il De principe, databile al 1474, una trattazione rivolta a Federico Gonzaga nell’immaginaria occasione di un gradevole soggiorno nella sua villa di Alba. I contesti scelti ne fanno con tutta evidenza due opere complementari dedicate distintamente al regime repubblicano e a quello principesco, ma l’interscambio di certi argomenti e spesso la loro iterazione testuale ne fanno due facce dello stesso argomento, l’organizzazione del tessuto sociale e il governo della società civile. E, infatti, nel dialogo sul cittadino perfetto, il vecchio Cosimo, dall’alto della sua esperienza di governo, passa in rassegna i fattori della società ordinata in uno Stato, la religione, l’amor di patria, il legame familiare, l’amicizia, la vera libertà, la giusta ricchezza e la virtù attiva, e i fattori di disgregamento, quali l’arroganza, la dissolutezza e l’ozio, mostrando come le qualità del primo cittadino che regge la Repubblica debbano riguardare l’utile collettivo, non quello personale, con cui si configurerebbe una tirannide. Il discorso ha alle spalle, ma non nelle loro complesse implicazioni, il dialogo sull’infelicità dei principi di Poggio Bracciolini e il Momus di Leon Battista Alberti.
Proprio al pericolo della tirannide guarda il trattato sul ‘principe’, che comincia dalla considerazione dei pericoli della democrazia, che degenera in lotte civili (significativo è l’esempio di Firenze), come insegna la tradizione dei regimina principum risalente ad Aristotele, e dalla necessità che sia uno solo a reggere lo Stato, per poi attribuirgli le medesime virtù ideali del perfetto cittadino, la religione, il rispetto della famiglia, il culto dell’amicizia. Ma vi si aggiungono le qualità proprie di un principe che deve osteggiare i ben noti vizi delle corti e contornarsi invece di chi può consigliarlo, deve usare clemenza e fortezza, liberalità e magnificenza, provvedere alle opere pubbliche. Un particolare interesse suscitano, in vista della fortuna che avrà questa duplice tematica, le considerazioni dedicate al ‘comportamento’ del principe, un tema che avrà subito un altro valido propulsore in Giovanni Pontano (1426-1503), e quelle dedicate alla milizia, dove l’insistenza su presupposti morali e su forme di guerra in via di estinzione è ben lontana dalle innovative proposte machiavelliane di qualche decennio dopo, ma dove già l’argomento della guerra è introdotto a completare un trattato politico. Si trattava, a dir dell’autore che in realtà si valeva del trattato latino di Vegezio, di una riflessione dovuta alla sua giovanile esperienza militare; ma è proprio in considerazione di questa che diventa significativa l’opinione in favore delle milizie cittadine e non mercenarie.
La tensione polemica connaturata al discorso sulla nobiltà si smorza anche nel trattato De vera nobilitate, nonostante la forma dialogica che oppone il ‘povero’ umanista al gran signore della famiglia Orsini nella sontuosa dimora di quest’ultimo, la quale offre l’occasione finale all’elogio della virtù sostenuta dalle ricchezze, che è a fondamento del mecenatismo rinascimentale. L’ingenuità etica, con cui è abbracciata questa soluzione, si riscatta tuttavia nello spazio concesso a topoi meno accomodanti quali i pericoli cui vanno incontro la ricchezza e la supremazia delle virtù che non hanno bisogno del sostegno di mezzi economici, e quindi la sapienza e la prudenza. In questo senso il Platina si colloca lungo il recupero, non inattuale perché continuerà a nutrire l’etica politica al di là dell’urto machiavelliano, del pensiero platonico e della sua Repubblica.
Il Liber de vita Christi ac omnium pontificum, scritto fra il 1472 e il 1474 e pubblicato nel 1479, rappresenta un fatto nuovo rispetto alla tradizione della storiografia ecclesiastica, ma anche un punto notevole di riferimento per gli avanzamenti futuri, italiani ed europei, della storiografia pontificia. Colmando un vuoto nel panorama della storiografia umanistica, pervenuta dai tempi di Petrarca a uno sviluppo corrispondente a quello della trasformazione delle realtà comunali nei nuovi Stati territoriali, l’opera ebbe una grande fortuna editoriale e una diffusione rilevante fino a tutto il 19° secolo. Per avere imprese simili, che in parte continuano o completano il disegno del Platina, bisogna attendere l’Ottocento con la Englische Geschichte, vornehmlich im XVI. und XVII. Jahrhundert (1834-1836; trad. it. Storia del papato nei secoli XVI e XVII) di Leopold von Ranke, la Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter vom V. bis XVI. Jahrhundert (1859-1873; trad. it. Storia della città di Roma nel Medio Evo) di Ferdinand Gregorovius e la monumentale Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters (1886-1928; trad. it. Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo) di Ludwig Pastor. Ma l’opera del Platina si rifà, per dover essere nelle intenzioni della somma autorità ecclesiastica una storia del cristianesimo, ai primi anni della nuova religione, sfidando l’oscurità e l’incertezza delle testimonianze, perché la narrazione prende le mosse da Cristo e da san Pietro per protrarre il racconto fino ai tempi dell’autore, cioè fino al pontificato di Paolo II: l’abbozzo relativo al papato di Sisto IV (fino al 1474), durante il quale egli morì, rimase inedito.
L’iniziativa presa da Sisto IV di far redigere una storia ufficiale del regno pontificio corrisponde alla sua strategia politica e alla sua opera di sistemazione della città di Roma e di affermazione del potere papale; frattanto, con questo progetto storiografico, egli poneva lo Stato della Chiesa sullo stesso piano delle altre Repubbliche e Principati italiani. La scelta del Platina fu dettata dalla notorietà che l’umanista aveva raggiunto come storico e di città e di personaggi: aveva scritto infatti, per onorare i Gonzaga suoi protettori, una storia della città di Mantova (Historia urbis Mantuae), iniziata nel 1466 e completata nel 1469, e precedentemente un dialogo (Divi Ludovici Marchionis Mantuae Somnium) che era sostanzialmente un elogio della figura di Luigi Gonzaga; aveva composto una biografia di Vittorino da Feltre (Victorini Feltrensis vita), maestro della scuola mantovana, una vita del cardinale Giovanni Battista Mellini (Vita cardinalis Joh. Bapt. Mellini, 1471) e abbozzato una biografia di Pio II; aveva tradotto per tempo i Commentarii di Neri Capponi che, accresciuti di un’introduzione e di un epilogo, figurano come Vita Nerii Capponi.
La particolare esperienza dello storiografo condiziona naturalmente la struttura biografica della sua storia, che aveva alle spalle il famoso Liber pontificalis, scandito anch’esso secondo la successione dei pontefici, ma soggetto al modello annalistico e cronachistico, e tuttavia doveva fare i conti con la contemporanea cultura storiografica orientata nel senso dell’elogio delle città e dei principi, e ormai rivolta decisamente verso il modello letterario dell’antichità. Deve aver pesato anche la fortuna umanistica delle Vite di Plutarco, pur nel loro ordine diverso, non cronologico e tuttavia analogico fra storia greca e storia romana: le personalità della storia cristiana possono infatti considerarsi, nel disegno del Platina, un pendant di quelle romane. D’altra parte, il genere di una storia del papato per biografie non poteva conformarsi secondo la storia liviana, come in Leonardo Bruni, storiografo ufficiale di Firenze, e in Marcantonio Sabellico, storiografo ufficiale della Repubblica veneziana, e quindi non assumeva propriamente il carattere di opus oratorium richiesto da Cicerone, per quanto in sostanza celebrativo del moderno impero cristiano, ma trovava in Svetonio, e probabilmente nella Historia augusta, l’autorevole modello di una serie biografica di imperatori con cui poteva confrontarsi la ‘dinastia’ dei pontefici. Come nella storia di Biondo Flavio, che prendeva le mosse dalla caduta dell’impero romano, e nella storia di Sabellico, che andava dalle umili origini al successo imperiale di Venezia, e come nella storia di Ferdinando di Valla, o nella storia di Alfonso di Bartolomeo Facio, e di Ferrante di Antonio Beccadelli detto il Panormita, la vicenda moderna prendeva il posto di quella antica, ma sul versante cristiano, sebbene con un’analoga prospettiva che concepiva Roma nel suo ruolo di città e di centro dell’impero, e la successione dei papi come quella di imperatori della nuova età. Il modello, imprescindibile, delle storie universali come quella di Paolo Orosio, che nel 4° sec. prendeva le mosse dalla creazione, rimane ormai solo sullo sfondo.
L’impresa storiografica del Platina non è meno importante quale testimonianza dell’irrompere del classicismo, con le sue conseguenze sul piano anche formale e stilistico, nell’uso di una materia affidata prevalentemente alla cronaca e al linguaggio considerato barbarico dagli umanisti, di quanto non lo sia per la considerazione di Roma come città-Stato, oltre e più che come centro religioso della Chiesa, ossia di un’istituzione universale. Di qui deriva che, nonostante il rischio di risolversi in un’opera agiografica per la materia stessa e la tradizione che ne era scaturita, le biografie dei pontefici partecipano a quell’opera di secolarizzazione che investe la cultura nell’età umanistica. Ovviamente la vita di Cristo e dei primi pontefici non può sfuggire al carattere agiografico del racconto, e non includere alcune, sia pure non molte, vicende immaginarie e comunque edificanti, ma la stessa preoccupazione di intercalare certi racconti con una presa di distanza dall’ingenuità della tradizione, oppure di rimandare l’accertamento di certe storie a chi ha il compito di controllarne la veridicità, dimostra un atteggiamento storiografico orientato verso la ricezione critica delle notizie tramandate e disponibile, se non a una verifica filologica, ad assumere un punto di vista laico della documentazione. D’altra parte, la rinuncia a introdurre ricostruzioni letterarie dei discorsi tenuti dai personaggi, che sono proprie dell’opus oratorium, e l’uso di sunteggiare per offrire il succo dei pensieri espressi rivelano la tendenza a evitare, all’interno della secolarizzazione della storia, l’amplificazione retorica.
In effetti, lo stile narrativo del Platina, pur aprendosi, in certe circostanze, al tono celebrativo o edificante, è generalmente dimesso e abbastanza paratattico da dare l’impressione di una certa adesione alla semplicità delle fonti medievali e di una volontà di concretezza narrativa. Certo le Vite subiscono il necessario scompenso dovuto al racconto insieme di vicende attinte a un’insufficiente documentazione e vicende attinte alla personale esperienza. Queste ultime non solo prendono uno spazio maggiore, come avviene in tutte le storie universali, ma non nascondono predilezioni e risentimenti, come avviene nei casi più sintomatici dei papi direttamente conosciuti, Pio II e Paolo II.
Nel caso di quest’ultimo, la storia si piega per un verso al vituperio, rispondendo a una norma dell’epidittica ammessa dal classicismo nella storiografia, per l’altro all’apologia, meno tollerata in una scrittura che dovrebbe escludere il parlare di sé. Ma la storia della presunta congiura, che aveva segnato la vita del Platina, diventa per il lettore un’eccezionale testimonianza contemporanea, quantunque di parte (come nei Commentari di Enea Silvio Piccolomini e, si direbbe, nel comune modello cesariano), e un pezzo di bravura narrativa. Riemerge nel racconto dell’incarcerazione l’umore antitirannico che aveva animato la riflessione civile, e lo stile si fa colorito e nervoso per rappresentare il momento drammatico della cattura e la reazione del papa all’annuncio della presunta congiura:
[…] di notte molti soldati circondarono la casa nella quale abitavo e, rotte le porte e le finestre, vi entrarono per forza e pigliarono Demetrio Luchese mio familiare, dal quale seppero che io cenavo col cardinale mantovano; allora corsero subito, mi pigliarono nella sua camera e mi menarono da Paolo, il quale quando mi vide disse: “Così tu cospiravi contro di me con il favore di Callimaco?”. Allora io, confidando nella mia innocenza, gli risposi con sicurezza che non c’era alcun segno della mia cattiva coscienza. Lui, discinto e pallido insisteva e, se non avessi confessato la verità, mi minacciava di darmi ora la tortura, ora la morte (Liber de vita Christi ac omnium pontificum, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, 1952, p. 701).
Carichi di risentimento sono altri tratti come l’ingresso nella cella («Fui portato in prigione mezzo morto, e poco dopo sono convocato da inquisitori ben pasciuti e ubriachi», p. 705), o la figura indegna del papa («Voleva Paolo in tutto parere acuto e dotto; voleva anche parere faceto; si beffava di tutti e li spregiava», p. 711). Nel raccontare la cattura di Pomponio Leto trascinato da Venezia a Roma, lo scrittore scopre il modello sallustiano, ricordando la sorte di Giugurta, e paragonando implicitamente il potere papale con quello imperiale dell’antica Roma.
La consapevolezza dell’operazione si rivela nella dedica a Sisto IV, dove alla lode per l’utilità della filosofia e della teologia, non accessibili a tutti, si aggiunge quella della storia, giustamente e finalmente riconosciuta come altrettanto utile alla felicità:
Bisognava trovare – dice il proemio al Liber de vita Christi – una via che aprisse a tutti l’adito alla felicità, perché non sembrasse che si era provveduto solo ai filosofi. E tale è certamente la coscienza delle imprese passate che la storia raccoglie, con cui riunendo i fatti egregi, non di una sola, ma di tutte le età, avendo come maestra della nostra vita l’antichità stessa, anche da privati cittadini ci rendiamo degni di un certo imperio (p. 695).
Fa parte di questa consapevolezza storiografica anche il riconoscimento umanistico della necessità di curare la forma e di non lasciare, come nel recente passato, in mano di ignoranti e inesperti la materia storica, quasi che fosse inutile riscrivere quello che era già noto in maniera trasandata. Ma soprattutto affiora nel Platina una consapevolezza linguistica nella difficoltà di adeguare la scrittura all’età contemporanea: non abbiano il diritto di servirsi di nuovi vocaboli solamente gli antichi. Deriva da queste premesse la fortuna avuta in Italia e in Europa dalla storia dei pontefici del Platina, accolta in una cultura non solo ben disposta verso il genere biografico e l’adattamento della misura antica alla contemporaneità, ma anche verso una storia non ancora esposta ai contraccolpi critici e apologetici della Riforma e della Controriforma. L’uso moderato dei motivi agiografici, la mancanza di approfondimenti politici, la prevalenza del registro narrativo assicurarono all’opera una vita anche nei tempi drammatici dello scontro religioso.
Il moralismo che predomina nella trattatistica etico-politica del Platina è sembrato contraddire una personalità e uno stile di vita non propriamente improntati alla perfezione delle idee professate, non tanto per certe perplessità manifestate nei dialoghi dalla figura autobiografica lì presente, dovute soprattutto allo stereotipo del genere che attribuisce, sul modello petrarchesco, la debolezza umana alla persona dell’autore, quanto per qualche spiraglio biografico che ne farebbe semmai un esempio di ambiguità non insolita fra gli umanisti (quam bene tu scribis, tam male Platyna amas, «quel che scrivi è perfetto, ma il tuo amore no», scriveva in un epigramma Giovanni Antonio Campano, anche lui al seguito di Pio II) e destinata a emergere nel Rinascimento libertino e nell’ipocrisia controriformistica.
Il Contra amores, composto dal Platina fra il 1465 e il 1472 sfiorando il misoginismo, corrisponde con il titolo all’argomento proprio del trattatello più schiettamente del precedente De amore. Si riferisce, infatti, a una fondamentale distinzione fra amore onesto e amore disonesto e consta di un dialogo fra Stella, soggetta alla passione amorosa, e Platina, che cerca di liberarla attraverso esempi storici e consigli; e rispecchia un tradizionale dibattito che vedrà ancora la trattatistica d’amore cinquecentesca recuperare il pensiero platonico.
Non è infondato leggere anche il trattato culinario, apparentemente estraneo alla scrittura morale con il suo precedente classico nel ricettario di Apicio, come lo sforzo del pensiero umanistico di dare cittadinanza ad argomenti riguardanti la vita privata, perfino vicini alla sensibilità epicurea, mediante la loro trasposizione a livello etico.
Nel De honesta voluptate et valetudine, il piacere onesto e la salute, il discorso, infatti, parte da consigli ecologici per la salute («La terra e l’aria sono la sede appropriata al genere umano e in esse è da scegliere un luogo nel quale trascorrere la vita in maniera sana e piacevole, se non vogliamo apparire inferiori alle bestie che di regione in regione si scelgono un ambiente sano e sereno», B. Platina, Il piacere onesto e la buona salute, a cura di E. Faccioli, 1985, p. 9) e tratta degli esercizi fisici, dell’ora migliore per il pasto principale, del tempo da dedicare con moderazione ai giochi e ai passatempi per non compromettere la digestione, del sonno e dell’uso moderato del sesso. Il piacere del mangiare non fa dimenticare il motto socratico secondo il quale si deve mangiare per vivere, non vivere per mangiare. Eppure il trattato (dieci libri come l’etica di Aristotele) si occupa specificamente, anche sul piano lessicale, di ogni genere di vivande senza trascurare intingoli complessi, scartandoli con qualche ironia per le loro controindicazioni, e non trascura l’apparecchiamento della mensa che serve insieme all’appetito e al decoro.
Liber de vita Christi ac omnium pontificum (aa. 1-1474), a cura di G. Gaida, RIS2 (Rerum Italicarum Scriptores), t. 3, parte prima, Città di Castello 1913-1932.
De optimo cive, a cura di F. Battaglia, Bologna 1944 (pubblicato, con traduzione, assieme al trattato Della vita civile di Matteo Palmieri).
De principe, a cura di G. Ferraù, Palermo 1979.
De honesta voluptate et valetudine / On right pleasure and good health, ed. M.E. Milham (con trad. inglese), Tempe (Ariz.) 1998.
De falso et vero bono, a cura di M.G. Blasio, Roma 1999 (con ampia bibl.).
Contra amores, a cura di L. Mitarotondo, tesi di dottorato, Università di Messina 2002.
Vedi anche la prefazione al Liber de vita Christi ac omnium pontificum e parte della vita di Paolo II, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli 1952, pp. 693-711.
V. Zabughin, Giulio Pomponio Leto. Saggio critico, 2 voll., tt. 3, Roma-Grottaferrata 1909-1912.
E. Fueter, Geschichte der neueren Historiographie, München-Berlin 1936 (trad. it. Milano-Napoli 1970, pp. 61-63, 210-14).
F. Tateo, Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari 1967 (in partic. sul De nobilitate, pp. 390-96).
M. Miglio, Storiografia pontificia del Quattrocento, Bologna 1975.
E. Lee, Sixtus IV and men of letters, Roma 1978.
D. Marsh, The Quattrocento dialogue. Classical tradition and humanist innovation, Cambridge (Mass.)-London 1980.
M. Miglio, Tradizione storiografica e cultura umanistica nel “Liber de vita Christi ac omnium pontificum”, in Bartolomeo Sacchi il Platina (Piadena 1421-Roma 1481), Atti del Convegno internazionale di studi per il V centenario, Cremona (14-15 novembre 1981), a cura di A. Campana, P. Medioli Masotti, Padova 1986, pp. 63-89.
Su Polidoro Vergilio:
E. Haywood, L’area britannica, in Umanesimo e culture nazionali europee. Testimonianze letterarie dei secoli XV-XVI, a cura di F. Tateo, Palermo 1999, pp. 127-45, 168-71.
Bartolomeo Sacchi, detto il Platina
La storiografia umanistica fu introdotta inizialmente in Inghilterra, in una forma che ricorda le Vite del Platina per il fatto di assumere la narrazione della stirpe regnante e delle origini della nazione, da un umanista italiano, Polidoro Vergilio, nato a Urbino nel 1470 (dove morirà nel 1555) e passato dagli Studi di Padova e di Bologna. La sua Anglica historia, che pur appartiene al genere delle storie ufficiali commissionate dall’autorità politica, contribuì notevolmene fra Quattro e Cinquecento alla diffusione della cultura umanistica di origine italiana, accanto all’opera, svolta nello stesso periodo, sul versante etico-politico e filologico, da Thomas More (1478-1535) ed Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536). Vergilio era stato inviato in Inghilterra nel 1502 come sottocollettore del denaro di San Pietro, e vi rimase fino a poco prima di morire. La sua formazione, che risente di un’erudizione morale e naturalistica tipica del Rinascimento filosofico (raccolse Adagia, come Erasmo, scrisse un De inventoribus rerum, messo all’Indice, e un De prodigiis), gli consentì tuttavia di affrontare il compito assegnatogli dal re Enrico VII di riscrivere la storia dell’Inghilterra in latino per assicurarle un’ampia diffusione fra il pubblico colto, ed egli lo portò a termine dopo la morte del re (1534), ma concludendola con la narrazione del suo regno.
Fu accusato di aver trascurato una quantità di memorie conservate dalla tradizione, che egli in effetti aveva inteso superare seguendo la nuova forma storiografica che mirava a selezionare, a eliminare il favoloso, a salvaguardare il decoro della narrazione e ad assicurare il consenso al potere, nel caso specifico ad assecondare l’interesse dei Tudor di ottenere la legittimazione, di fronte all’Europa, della monarchia regnante. Rimase infatti nelle grazie dei successori Enrico VIII, Edoardo VI e Maria I, conservando i numerosi benefici ecclesiastici ottenuti, anche per la prudenza osservata nel nascondere le sue simpatie filocattoliche.
La storia d’Inghilterra di Vergilio, che ispirerà anche la tematica shakespeariana, conservò a lungo la sua autorità. Cercò di oscurarla il cappellano della corte di Enrico VIII, John Leland (1506-1562) con una storia d’Inghilterra che recuperava acriticamente la tradizione, come farà anche il poeta John Milton narrando i tempi favolosi precedenti alla conquista normanna. Si trattava di una revanche nazionale che si verificava collateralmente anche in Francia, quando Bernard de Girard du Haillan (1535 ca.-1610) nella Histoire de France riscriveva per un pubblico meno colto il De rebus gestis Francorum di Paolo Emilio (1499-1529). Ma Vergilio, pur assumendo criticamente le fonti, per quel che gli era possibile, rispettava molte leggende della tradizione religiosa e non si lasciava sfuggire, come accadeva invece al Platina di fronte alla storia pontificia, qualche commento poco riguardoso del sacro. Importante riusciva soprattutto lo sguardo rivolto alla nazione e al territorio oltre che alla stirpe regale. Motivando la sua impresa con la volontà di mettere in luce una grandezza che sarebbe rimasta altrimenti sconosciuta, come lo era nelle storie ridotte di Beda e di Gilda, e negli insipidi annali poveri di stile e di lingua, egli enunciava la novità di una storia complessiva: la natura della terra, l’origine della gente, i costumi dei re, la vita della popolazione, le arti che avevano reso grande il Regno. Era il programma della storiografia umanistica italiana, che aveva prodotto la storia cittadina e regionale.
Nel proemio, di notevole consapevolezza metodologica, erano esposti gli argomenti fondamentali della nuova storiografia, a cominciare da quello, famoso e duraturo, della necessità e utilità della memoria scritta in quanto capace di rimediare all’oblio prodotto dalla rovina cui sono soggetti invece altri generi di monumenti, e di favorire attraverso la lode l’imitazione e quindi il rinnovamento della virtù da parte dei posteri. Si aggiungeva il proposito di scartare quel che di padre in figlio era stato trasmesso ingenuamente, i sogni degli anziani e le favole delle vecchiette, ma anche il frutto di un amor di patria sottratto al vaglio del tempo e della ragione, «che rendono le cose autorevoli» (Prefazione all’Anglica historia, in Haywood 1999, p. 171).