DOTTI, Bartolomeo
Nacque nel Bresciano, probabilmente nel 1651, da Pasquino e da Ottavia Vinacesi.
Fin da giovanissimo manifestò particolare inclinazione per la poesia e lo studio delle lettere latine e greche. Portato Per un istintivo talento al genere della satira, coltivò con lunga cura i poeti satirici romani da Orazio a Persio, a Giovenale, dando prova assai presto di notevole abilità gareggiando con altri giovani verseggiatori bresciani. Fu in uno di questi certami poetici, che spesso, però, nella foga giovanile degeneravano in veri e propri scambi di ingiurie, che il D. incautamente fece il nome di un cavaliere bresciano di grande autorità, il quale gli giurò vendetta. Per sfuggire alle ire di costui, il D. pensò di abbandonare Brescia. Si recò a Venezia, dove fu al servizio di un gentiluomo veneziano, rappresentante della Repubblica, che seguì in Grecia per qualche tempo finché, per intercessione di amici comuni, ottenuto il perdono da parte del cavaliere offeso, poté rientrare in Brescia, dove in seguito venne eletto alla carica di nunzio del territorio di Brescia presso la Serenissima.
Qualche tempo dopo il D. fu accusato a Venezia di aver preso parte a un attentato, e anche di avere ospitato in casa sua gli altri attentatori. Ancora una volta fu costretto a fuggire. Lo Stato veneto lo bandì formalmente. Cercò allora rifugio a Milano con la speranza di trovarvi un po' di pace e di fortuna, invece si trovò coinvolto in un fatto che ebbe per lui conseguenze assai gravi.
Due nobili milanesi vennero assaliti da alcuni sicari, che però non riuscirono ad ucciderli. Furono catturati, e s'appurò che erano bresciani. Nacque allora il sospetto che anche il D. vi fosse implicato, e per questa ragione fu imprigionato per parecchi mesi, durante i quali scrisse un'autodifesa, in seguito molto lodata, che divulgò manoscritta. Successivamente, per sentenza pubblica, fu relegato nel castello di Tortona. Se il D. fosse realmente responsabile dell'aggressione fisica dei due nobili milanesi non è mai stato dimostrato; fatto è, però, che le sue satire gli procurarono fama di individuo rissoso e vendicativo, in quanto esse non sono animate dal semplice e generico desiderio di fustigare vizi e costumi corrotti, ma dal D. piuttosto considerate armi d'attacco contro precise persone a lui invise.
La prigionia nel castello di Tortona si protrasse per molti mesi, durante i quali soltanto lo scrivere gli fu un po' di conforto. Alla fine il D., disperando che dal Senato di Milano potesse arrivargli la grazia, si decise a una fuga rischiosissima, che però riuscì pienamente. Calatosi di notte dalle altissime mura, attraversato a nuoto il torrente Scrivia, riuscì a raggiungere il Genovesato, e dopo un lungo giro per il Parmigiano e il Mantovano raggiunse finalmente Brescia. Ma il suo desiderio di poter rientrare a Venezia lo indusse ad arruolarsi nell'armata della Serenissima, allora in guerra con i Turchi in quanto, in virtù di un buon servizio, si poteva ottenere la revoca del bando d'esilio. Fu destinato al seguito di Pietro Bembo, inviato in Levante con la spedizione comandata da Girolamo Corner, e prese parte a diverse azioni di guerra.
Terminato il servizio presso il Bembo, ottenne la sospirata revoca e tornò a Venezia. Qui cominciò per il D. un periodo relativamente tranquillo, insieme con una nuova maniera di fare satira, meno acre e personale almeno nell'intenzione, che dette uno dei migliori risultati nel Carnevale, recitato dal poeta stesso nell'Accademia degli Animosi in Ca' Grimani davanti a un folto pubblico acconciato in maschera. Ma non mancarono ancora occasioni violente nella sua vita, come una volta che fu fatto bastonare da alcune dame che non avevano gradito certi suoi versi pungenti e dispettosi, o la volta che, recatosi nell'autunno del 1711 a Brescia per rivedere alcuni vecchi amici, a causa di un incauto diverbio con un gentiluomo di Ostiglia, si buscò una scarica d'archibugiate da cui riuscì a stento a salvarsi.
Visse il resto della sua vita a Venezia, da pochi amato, in realtà assai più odiato. E la sua morte ne è testimonianza. La sera del 27 genn. 1713, in calle della Madonna a S. Angelo, un sicario lo uccise con tre pugnalate. Il delitto rimase impunito.
La figura del D. è stata più volte accostata a un'altra tipica del secolo barocco: quella di G. Artale, anch'egli letterato-soldato, spadaccino avventuroso che corse l'Europa e il Levante brandendo la spada e la penna, le cui litigiose imprese destarono l'ammirazione dei contemporanei cultori del punto d'onore. Ma è accostamento che serve più per delineare generalmente un'epoca e un costume, piuttosto che effettive rassomiglianze. Il D., nato oltre vent'anni dopo l'Artale, agì in ambito più provinciale, e la sua opera letteraria non ha l'ampiezza e la risonanza, nonché il complesso virtuosismo tardobarocco, di quella dell'Artale. Nondimeno, nel D. possono ravvisarsi qua e là certi particolari accenti, difficilmente rintracciabili nell'opera dell'Artale, che sono sicuro annuncio dell'approssimarsi dello spirito del secolo XVIII.
Godette in vita di notevole fama, che ebbe inizio sin dal 1689, anno della pubblicazione in Venezia delle Rime, e aumentò nel corso del tempo con le Satire che, lui vivo, non furono mai date alle stampe. Queste videro la luce per la prima volta soltanto nel 1757, raccolte da qualche ignoto ammiratore, a Parigi, con la finta indicazione di Ginevra, presso i fratelli Cramer, in due volumi.
La fama del D. è stata per lungo tempo legata proprio alle Satire, lette quasi esclusivamente come documento del costume veneziano e considerate anticipatrici di quelle, letterariamente ben più salde, di P. Buratti.
Abbastanza recente è invece la fortuna delle Rime, dove s'è voluto vedere, al posto della vena sensuale e naturalistica tipica del Marino e del marinismo, una nota dominante di genere moralistico, che sarà propria della tradizione lombarda, unitamente all'addensarsi di una certa aura abitata da ombre pariniane, e per alcuni anche alfieriane. In effetti nella raccolta delle Rime, come in quelle di altri rimatori tardobarocchi, la tematica amorosa è già molto limitata. Nei sonetti, ad esempio, certe evocazioni con tendenza realista della terra lombarda, sopratutto del paesaggio, sono alquanto lontane dal gusto marinista. Non lo salvano però dalla fredda e farraginosa ingegnosità, dallo sterile culto dell'arzigogolo lessicale, dall'intellettualistica ricerca dello stupefacente a oltranza, non sorretto tra l'altro da un sicuro talento letterario.
Dall'ispirazione vagamente moralistica delle Rime discende quel carattere in qualche misura politico del canzoniere dottiano. Più esattamente emerge un clima di rissosa protesta contro l'ingiustizia, la sistematica prevaricazione, la boria e l'arroganza tipiche degli aristocratici del secolo barocco, col sospetto di chi legge, però, che tale ulcerosa protesta sia soprattutto quella personale.
Nei versi brevi, settenari e ottonari, delle Satire egli continuò la sua personale polemica contro il mondo degli abusi e della prepotenza della nobiltà, e contro il clero corrotto, allargando il suo campo d'osservazione anche agli aspetti più concreti della vita del suo tempo. Ma le Satire segnano un infiacchirsi ulteriore della già debole ispirazione; allo scatto iroso del secentista offeso delle Rime subentra il prosastico ragionatore, magari non privo di qualche eleganza, ma sempre troppo prolisso nella descrizione dei costumi.
Fonti e Bibl.: E. Levi, Un poeta satirico: B. D., in Nuovo Archivio veneto, XII (1896), pp. 5-77; E. Filippini, Una miscellanea poetica del sec. XVIII contenente parecchie satire di B. D., in Rass. bibl. d. lett. ital., XIV (1906), pp. 326-339; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1947, pp. 314 s.; F. Croce, Tre lirici dell'ultimo barocco. III, B. D., in Rass. della lett. ital., LXVII (1963), 1, pp. 3-49; Id., Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze 1966, pp. 323-392.