GALLETTI, Bartolomeo
Nacque a Roma il 15 sett. 1812 (Archivio di Stato di Roma, Arch. Galletti, Acquisti e doni, b. 1, f. V) da Antonio e da Rosa Ruga. Il padre, proprietario di una delle maggiori drogherie cittadine, di altri negozi minori in provincia e di vari fondi rustici e urbani, deteneva inoltre la privativa dell'allume per tutto lo Stato pontificio: fu così che alla sua morte prematura, nel 1833, il G., figlio unico, si trovò erede di un patrimonio il cui valore si disse oscillante tra i 200.000 e i 400.000 scudi. Quale che ne fosse la consistenza, è certo che esso permise al G. un tenore di vita in cui avevano un peso precipuo l'ostentazione del lusso, le apparizioni in società e le avventure galanti: da parte di amici e conoscenti tutto ciò gli valse, con pungente riferimento al mestiere paterno, il titolo di "duca di cacao" che metteva in ridicolo le sue pose da aristocratico; e la sua fama di corteggiatore fortunato si consolidò quando nel 1842 sposò la bellissima Anna de Cadilhac (1825-93), discendente da una famiglia francese emigrata in Italia a fine '700. Dal matrimonio nacquero due figli, Arturo Galletti di Cadilhac (1843-1912), che per cinque legislature, dalla XVIII alla XXII, rappresentò alla Camera il collegio di Montegiorgio, e Maria Luigia (1845-82), che insieme con una figlia perse la vita nel terremoto di Casamicciola.
Proprio nel 1845, con la moglie prossima a partorire, il G. fu protagonista di una brutta vicenda, dalla quale venne fuori rapidamente ma senza poter impedire che un'ombra si posasse e restasse a lungo su di lui. Arrestato il 30 ag. 1845 per ordine del tribunale del Vicariato con l'accusa di violenza a due sorelle minorenni e rinchiuso in Castel Sant'Angelo, fu rimesso in libertà il 15 novembre per mancanza di prove. Non era la prima volta che incorreva nei rigori della legge, essendo già stato in passato denunziato per avere eluso una promessa di matrimonio, e forse fu per questo che nell'opinione pubblica i colpevolisti prevalsero sugli innocentisti, anche se non mancò chi volle spiegare l'accaduto in chiave di persecuzione per un'attività cospiratoria di cui per la verità restano tracce assai labili. D'altra parte, presso il popolino non tardò a prender corpo l'ipotesi che alla sollecita chiusura dell'incidente avesse dato un contributo decisivo la posizione sociale dell'imputato, cui si attribuirono indebite pressioni finanziarie sugli inquirenti e cospicui risarcimenti ai genitori delle parti lese.
È probabile che il G. mirasse anche a risalire nella considerazione pubblica quando, eletto Pio IX, cominciò a farsi vedere nelle grandi manifestazioni di massa a sostegno della politica riformatrice del sovrano. Tra i primi ad arruolarsi nella guardia civica col grado di maggiore, non si può dire avesse le qualità del militare di professione (né mai le avrà in seguito): lo motivava piuttosto, insieme con il nascente orgoglio di servire la causa dell'indipendenza nazionale, il desiderio abbastanza esteriore di apparire in pubblico emergendo tra quanti si erano offerti di gestire in prima persona un periodo di generale effervescenza. La stessa sua attenzione per gli sviluppi della questione nazionale non sembrava all'inizio molto profonda né ha lasciato, a parte un opuscolo di Pensieri intorno alle guardie civiche mobilizzate (Roma s.n.t.), particolare testimonianza di sé, in quanto il G. era sostanzialmente un isolato, e l'unica volta che si era trovato a operare con un personaggio come Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino (ponendosi alla testa della manifestazione del 7 sett. 1847), di fronte alle successive imputazioni di abuso della divisa, usurpazione dell'autorità pubblica e "ingiurie reali a persone costituite in dignità" (il corteo si era portato davanti alle ambasciate di Toscana e Piemonte per esortare i principi all'azione), si era dissociato, ostentando una moderazione che avrebbe convinto la Sagra Consulta a lasciar cadere l'accusa.
Il 23 marzo 1848 il G. era nominato maggiore comandante del I battaglione della Legione romana che, agli ordini del colonnello N. Del Grande, partiva tre giorni dopo per il Veneto come contributo pontificio alla guerra contro l'Austria. Dopo essersi rinforzata nel passaggio per Ancona e dopo aver vagato tra una piazza e l'altra del Veneto in una situazione di grande rilassatezza disciplinare e di totale abbandono logistico (in realtà Roma non sosteneva adeguatamente lo sforzo bellico e il Piemonte non vedeva di buon occhio l'impiego delle forze civiche), la Legione romana approdò infine a Vicenza, dove si schierò a porta Padova, punto che risultò tra i più battuti dagli Austriaci nell'assalto decisivo del 10 giugno: caduto subito il Del Grande, il G., da poco promosso tenente colonnello, si trovò allora a guidare una resistenza che dall'alba durò fino al tramonto e divenne insostenibile per l'esaurimento delle munizioni e per il cedimento della posizione di Monte Berico tenuta dalle truppe svizzere. "Ho fatto quello di cui forse non mi credevo capace", scrisse alla moglie il 12 giugno, a capitolazione conclusa e quando già il suo operato era stato formalmente elogiato dai comandi. Impegnatasi a non combattere per almeno tre mesi, la Legione tornò a Roma, accolta ovunque da popolazioni acclamanti. Una volta nella capitale, il G. dovette lavorare a fondo per evitare il già decretato scioglimento del corpo e per ottenere che esso venisse riorganizzato su basi più solide sia dal punto di vista disciplinare sia da quello delle forniture (decreto Mamiani del 12 agosto). Fino ad allora era infatti stato il G. stesso a provvedere di tasca propria alle esigenze più elementari, e il suo patrimonio ne aveva sofferto al punto che si era resa necessaria la vendita del negozio paterno e perfino dei gioielli della moglie; per di più, lo stesso andamento degli affari del commercio, per quanto affidato ad alcuni funzionari della Banca romana (tra gli altri F. Antonelli, fratello del cardinale), era stato compromesso dal forzato distacco e dalla situazione generale del paese.
Con l'avvento della Repubblica il G., che il 20 giugno 1848 era stato promosso colonnello, ebbe il comando di una delle quattro brigate (la IV, con una forza di 1810 uomini) in cui si articolava l'intera struttura difensiva del nuovo regime. Acquartierato nel centro di Roma il 29 aprile, il corpo fu richiamato il giorno dopo sul Gianicolo dal primo attacco francese, che aveva isolato dal resto dello schieramento le truppe di G. Garibaldi: la manovra riuscì e si concluse con la cattura di qualche centinaio di francesi e con un generale apprezzamento della tempestività dell'intervento, ma dimostrò pure che le vere doti del G. erano il coraggio e l'irruenza; perciò il Triumvirato durò fatica a imporre a lui, come pure al Garibaldi, di non proseguire l'azione nell'illusione di aver facilmente ragione del nemico. Quanto alla capacità di "leggere" strategicamente lo scontro, un altro militare, F. Torre, avrebbe più tardi rilevato che il G. aveva capito ben poco di quello del 30 aprile e che "almeno nella relazione che ha mandato a me, ha preso de'granchi a secco" (lett. del 5 ag. 1851, in L.C. Farini, Epistolario, III, Bologna 1914, p. 522).
Sull'onda del successo, il G. entrò poi nel corpo di spedizione che il Garibaldi guidò ai confini meridionali dello Stato per sventare la minaccia di un'invasione napoletana. È poco noto che in tale occasione il G., mentre con la brigata operava a ridosso di Terracina, liberò i parenti di F. Antonelli catturati da una colonna di finanzieri e si giustificò dicendo che pensava di usarli come pedine per uno scambio di prigionieri; è risaputa invece la sua partecipazione all'avanzata del 19 maggio su Velletri: va detto, però, che quel giorno la sua brigata arrivò sul luogo dello scontro quando già i Napoletani si erano ritirati. Fu significativo, inoltre, che per il rifiuto opposto dai suoi uomini all'idea di inseguire i Napoletani oltre confine, il G. rischiasse di restare coinvolto nel sordo conflitto insorto tra il Garibaldi e il generale in capo P. Roselli, cosa che si ripeté il 2 giugno allorché, da poco promosso generale di brigata, fu dal Roselli designato a sostituire temporaneamente nel comando di divisione il Garibaldi. Tuttavia, tra questi e il G. non c'erano veri motivi di attrito: li accomunava, anzi, un'idea della conduzione della difesa che, come si vide il 3 giugno alla ripresa delle ostilità, prevedeva una successione di assalti magari eroici ma molto dispendiosi e improduttivi; quel giorno, per esempio, il G. in persona si lanciò nel disperato tentativo di strappare ai Francesi villa Corsini con una sanguinosa carica di cavalleria da cui fu fortunato a tornare con una leggera ferita all'occhio destro.
Cessata la difesa il G., munito d'un passaporto francese, raggiunse Parigi. A Roma aveva lasciato i figli e la moglie, che durante l'assedio si era resa benemerita per l'opera di soccorso ai feriti prestata in qualità di sottodirettrice dell'ospedale dei Pellegrini. La lontananza, protrattasi per un decennio e interrotta da qualche fugace incontro in Toscana, minò alla base un rapporto che già non era più solido e cui non giovò la vita condotta da entrambi i coniugi, l'uno tutto dedito ai viaggi e alle serate mondane, l'altra costretta a trattare a Roma con i potenti per provvedere all'educazione dei figli e per difendere ciò che restava dell'antica ricchezza (e fu grazie a lei se la famiglia rientrò in possesso della privativa dell'allume persa dopo il ristabilimento del potere pontificio). Una vera consuetudine degli affetti non si ricreò neanche quando, nel 1859, la coppia tornò unita: alle prese con la difficoltà di riprendere la carriera militare in un esercito quale quello piemontese che gli riconobbe solo il grado di tenente colonnello, dopo che ebbe prestato servizio come maggiore nella divisione "Mezzacapo" e come tenente colonnello nel 1° reggimento delle truppe emiliane, il G. dovette accettare, con la sensazione di essere discriminato, l'impegno gravoso della lotta contro il brigantaggio: nel luglio del 1861, appena promosso colonnello, fu prima alla testa del comando militare di Benevento, un anno dopo alle dipendenze del VI dipartimento militare operante nel Molise. Non fu un'esperienza felice, anche per via di una forte frizione con la magistratura civile; e anzi nel 1862 il G. durò fatica a essere riammesso in servizio dopo una sospensione di qualche mese comminatagli per motivi che non si conoscono. Da ultimo non gli fece certo piacere la polemica di stampa con cui nel giugno 1863 alcuni giornali lo accusarono di inazione nonostante i 170 arresti effettuati dall'inizio del 1862 e la dispersione di una grossa banda inseguita fino ai limiti del territorio assegnatogli.
Intanto, la moglie, rimasta a Torino, frequentava l'ambiente di corte e, malgrado alcune voci la dicessero al servizio del cardinale Antonelli, faceva colpo su Vittorio Emanuele II: la relazione durò pochissimo ma, a dire della donna, bastò per renderla madre di una bambina che, nata a Torino il 12 apr. 1864, fu battezzata col nome di Maria Vittoria Aurora Magatti. Quando il G. ne fu informato troncò ogni restante legame affettivo con la moglie e, finché visse, si rifiutò di vedere una figlia che, non essendo sua, definiva "l'intrusa". La donna a sua volta, dopo vani tentativi di rivedere il re, apriva un'interminabile trattativa con la Casa reale per ottenere il risarcimento cui riteneva di aver diritto: ricavò così somme di denaro anche ingenti, ma ancora nel 1883 minacciava di far scoppiare uno scandalo se, attraverso gli uffici di L. Pianciani, non le fossero state versate altre 30.000 lire, convinta che i documenti in suo possesso fossero tali "da far vergognare la Corte" (lett. del 25 maggio 1877 a Pianciani) e disposta a consegnarli, diceva, solo se il marito fosse stato fatto senatore e se al figlio fosse stato promesso un collegio sicuro per l'elezione a deputato.
Il G. visse con dignità la sua disgrazia e forse, dopo aver molto sofferto per non essere stato impiegato nella guerra del 1866, non deprecò il fatto che, una volta collocato in disponibilità (18 maggio 1867), lo si inviasse a presiedere dal 4 ott. 1868 il tribunale militare di Milano. Il 14 sett. 1873 fu posto di nuovo in disponibilità "per soppressione d'impiego". Libero da ogni impegno il G., che durante l'esilio parigino aveva conosciuto e ammirato Adelaide Ristori, accettò l'invito del marito di costei, il marchese G. Capranica del Grillo, a seguire l'attrice nel viaggio che tra il 25 apr. 1874 e il 14 genn. 1876 portò la sua compagnia sui palcoscenici delle maggiori città del Sudamerica, degli Stati Uniti e dell'Australia. L'esperienza, vissuta dal G. con uno spirito curioso di ogni novità, fu poi da lui raccontata nel libro scritto in forma di diario e pubblicato per i tipi del "Popolo Romano" col titolo Il giro del mondo colla Ristori (Roma 1876): nell'assenza di ogni notizia sull'attività teatrale che non fosse di natura amministrativa (sono puntualmente registrati tutti gli incassi) e con qualche civettuolo riferimento ai romanzi di J. Verne, vi spiccano l'attenzione per eserciti e armamenti dei paesi visitati, lo stupore per i progressi civili e tecnologici degli USA, una vena leggera di liberalismo e di anticlericalismo, e un rilievo molto positivo "sulla lealtà, sul senno, sul valore e sull'amore alla libertà" di Vittorio Emanuele II (p. 438).
Negli ultimi anni il G. presiedette l'associazione romana dei veterani del 1848-49. Dalla caduta del potere temporale era tornato a vivere a Roma e, sebbene la moglie avesse cercato di fargli sapere che, ricongiungendosi, egli avrebbe trovato in lei "una vera suora di carità" (lett. del 29 maggio 1885 a Pianciani), preferì trascorrere gli ultimi anni ospite di una sartoria per signora, avendo da tempo rotto i rapporti anche col figlio; e fu tanto ostinato nella sua decisione da opporsi al desiderio della moglie di rivederlo mentre era moribondo e una folla di vecchi amici premurosi accorreva ad assisterlo.
Morì a Roma il 18 febbr. 1887 e, dopo i funerali religiosi decisi contro la sua volontà dal figlio, fu seppellito nel cimitero di San Venanzo (Fermo).
Fonti e Bibl.: Nell'Arch. di Stato di Roma, Collez. Acquisti e Doni, si conservano 5 fascicoli di Carte Galletti, comprendenti: il ms. dei "Ricordi" di Anna de Cadilhac, risalente al 1891 (la narrazione parte dal 1842, anno del matrimonio col G.); alcuni giornali di varie epoche con notizie riguardanti il G.; materiale documentario sulla campagna nel Veneto, inclusa la corrispondenza con la moglie, e lo stato di servizio. Nello stesso archivio sono da vedere le 176 lettere di Anna de Cadilhac a C. Moneta (1860-64) e, nelle Carte Pianciani, le 7 lettere del G. e le 36 della moglie a L. Pianciani, tutte ricche di informazioni sulle vicende familiari e sulle rivendicazioni della donna rispetto alla corte; nonché, nel fondo Rep. romana 1849, b. 37/84, 2 lettere del G. in qualità di comandante della Legione romana, e, nella Misc. Carte politiche e riservate, b. 109/3388, una copia della Romana di più titoli contro Canino, G. e Macbean del 1848. Non sono stati trovati nell'Arch. del Vicariato di Roma gli atti relativi all'accusa di stupro. Dell'arresto si ha notizia sicura in un rapporto di polizia che si legge nel Boll. polit. di Roma 1845, ora in Roma, Museo centr. del Risorgimento, vol. 439; per altri docc. sulle campagne del 1848-49: voll. 19/113; 371/12, 13, 15; 660/33; bb. 68/14; 78/14; 61/69/2 (relazione del G. sulla giornata del 10 giugno 1848, poi edita da G. Maioli, La I Legione romana alla difesa di Vicenza…, in Rass. stor. del Risorgimento, XII [1934], pp. 341-346). Le testimonianze dei contemporanei sul G. si riferiscono in prevalenza al 1848-49: in particolare F. Torre, Memorie stor. sull'intervento francese in Roma nel 1849, I, Torino 1851, pp. 30-34, 119 s., 364 ss.; L.C. Farini, Lo Stato romano dal 1815 al 1850, IV, Firenze 1853, pp. 19, 171; G. Spada, Storia della rivoluzione di Roma…, Firenze 1869-70, I, pp. 344 s.; II, pp. 72, 149 s., 228, 415 s., 453; III, pp. 434, 440, 529, 541, 573; C. Tivaroni, Storia crit. del Risorg. italiano. L'Italia durante il dominio austriaco, II, Torino-Roma 1893, pp. 314, 362, 366, 395 s., 400 s.; D. Diamilla Muller, Roma e Venezia…, Roma-Torino 1895, pp. 31 s., 36 s., 69, 73, 76, 83, 94, 105 s., 114, 118, 122 s.; E. Loevinson, G. Garibaldi e la sua legione nello Stato romano, Roma 1902-07, III, ad ind.; A. Chigi, Diario, Tolentino 1906, ad ind.; A.M. Ghisalberti, Roma da Mazzini a Pio IX, Roma 1958, p. 63; J.P. Koelman, Mem. romane, a cura di M.L. Trebiliani, II, Roma 1963, ad ind.; N. Roncalli, Cronaca di Roma, I, (1844-1848), a cura di M.L. Trebiliani, Roma 1972, ad ind.; R. Ugolini, Cavour e Napoleone III nell'Italia centrale…, Roma 1973, p. 82; G. Garibaldi, Epistolario, II, Roma 1978, ad ind.; IV, ibid. 1982, ad indicem. Toccano invece il periodo postunitario i riferimenti contenuti in Il carteggio Cavour - Nigra dal 1858 al 1861…, II, Bologna 1926, p. 162; Le carte di A. La Marmora, a cura di M. Cassetti, Torino 1979, ad ind.; G. Asproni, Diario politico 1855-1876, IV, 1864-1867, a cura di T. Orrù, Milano 1980, ad indicem. Ridotta l'attenzione degli storici: poche notazioni sulle occasioni in cui fu impegnato il G. in P. Moderni, I Romani del 1848-49, Roma 1911, ad ind.; C. Cesari, La difesa di Roma nel 1849, Milano 1913, pp. 29, 33, 38, 41, 44, 46 s., 59, 67 s., 70 s.; A. Lodolini, Luci ed ombre sulla guardia civica romanadel 1848, in Ad A. Luzio gli Arch. di Stato, II, Firenze 1933, p. 133; P. Pieri, Storia milit. del Risorgimento, Torino 1962, ad indicem. Concise biografie del G. in A. Brunialti, Annuario biogr. univ., III, 1886-87, Roma-Napoli 1888, pp. 340 ss.; Diz. delRisorgimernto nazionale, III, s.v.; più ampio il saggio di C. D'Altidona, Il gen. B. G. (1812-1887), Gubbio 1940. Sugli ultimi anni di vita cfr. G. Leti, Figure ed episodi del Risorgimento, II, L'ultima malattia e la morte del gen. B. G., in Nuova Riv. storica, XXII (1938), pp. 224-230.