GIULIARI, Bartolomeo
Nacque a Verona il 15 ag. 1761 da Federico, di nobile e antica famiglia veronese, e dalla nobildonna veronese Maria Caterina Pellegrini.
Compì i suoi studi a Milano dove frequentò, dal 1773, il collegio barnabita di S. Saverio ed ebbe poi come maestro Marcellino Segrè, professore di architettura all'Accademia di Brera e collaboratore di Giuseppe Piermarini.
Tornato a Verona nel 1780, il giovane G. seguì i lavori di ammodernamento del palazzo familiare, diretti dallo zio Ignazio Pellegrini, già architetto granducale a Firenze, secondo un intento teso ad attenuare le precedenti esuberanze manieristiche entro una misura neoclassica più aderente sia alla tradizione del Settecento veronese, sia all'orientamento classicistico assunto, a Milano, dallo stesso Giuliari. Questi nel 1781 sposò Isotta Dal Pozzo, figlia del nobile architetto Girolamo, che era stato protagonista, con Alessandro Pompei, della svolta neoclassica dell'architettura veronese di metà Settecento.
Nel 1782-84 il G. scrisse un trattatello, Serie di questioni di civile architettura, rimasto manoscritto: in esso venivano riprese le tesi espresse da Alessandro Pompei nel suo Li cinque ordini d'architettura civile (1735).
Sollecitato da Girolamo Dal Pozzo, nel 1785 il G. eseguì, per un concorso dell'Accademia di Parma, il progetto per un vescovado: la composizione (pianterreno bugnato, lesene al piano primo, accentuazione della frazione centrale timpanata) mostra inclinazioni neocinquecentesche, alle quali il G. sarebbe rimasto a lungo legato.
Nel 1788, accompagnato dallo zio, il G. compì il grand tour, visitando Firenze, Roma, Napoli e Pompei.
Nel 1790, morto Pellegrini, assunse la direzione delle opere di rinnovamento del palazzo familiare: suoi sono la sopraelevazione del terzo piano, il cornicione con fregio a festoni e la sala-biblioteca, neoclassicamente tripartita da diaframmi colonnati di ordine corinzio.
Al 1791 risale il progetto, non realizzato, di ristrutturazione di villa Giuliari a Settimo del Gallese. Il progetto fu in seguito arricchito, nel 1793, di vari studi per il giardino, di cui uno in stile formale all'italiana e un altro in veste "pittoresca", a testimonianza di una cultura figurativa già aggiornata su tematiche paesaggistiche di matrice anglosassone.
Nel 1791-92, frattanto, il G. ampliava il precedente trattatello intitolandolo Studi imperfetti d'architettura, un'opera intrisa di manualistica francese e di riflessioni sulle Vite e i Principî di Francesco Milizia.
Nel progetto, non realizzato, per la chiesa di Aselogna (1793), il G. introduceva marcati stilemi palladiani, già presenti, peraltro, nel diaframma colonnato semicircolare dello studio del 1792 per la chiesa di S. Pietro di Nogara (modificato nel 1830), in cui era previsto un pronao ricurvo, simile, peraltro, al tempietto rotondo edificato nel parco di villa Torri ad Albarè (1793). Un tempietto, quest'ultimo, teso a proiettare la tradizione sanmicheliana veronese sullo sfondo dei parchi inglesi alla William Kent.
Il restauro e il completamento, nel 1790-95, della cappella Pellegrini in S. Bernardino a Verona, edificata da Michele Sanmicheli, costituì per il G. occasione di approfondimento dell'architettura sanmicheliana, il cui studio fu uno dei fili conduttori del suo impegno professionale e civile.
Frattanto, negli anni Novanta il G. ricoprì più volte cariche pubbliche cittadine - fu provveditore all'Adige nel 1794 e provveditore di Comun nel 1796-97 - e strinse rapporti, oltreché con l'erudito veronese Gaetano Pinali, con vari esponenti della cultura neoclassica, come gli architetti Ottone Calderari, Luigi Cagnola e Giacomo Albertolli.
All'apertura del nuovo secolo, quando, dopo la pace di Luneville (1801) sia il settore austriaco di Verona, a sinistra dell'Adige, sia il settore francese, a destra, furono interessati da ipotesi di riassetto urbano, il G. assunse un ruolo di spicco nella salvaguardia del patrimonio storico, nonché nella proposizione di idee progettuali.
Nel 1801 fece rilevare la cinta urbana cinquecentesca di Sanmicheli, a destra dell'Adige, di cui l'amministrazione francese aveva già decretato lo smantellamento.
Emblematico, perché permeato di suggestioni utopiche tipiche dell'urbanistica napoleonica, è il progetto del 1803 per un Pubblico Passeggio e un Teatro in Campo Marzo. Il progetto avrebbe conferito un nuovo volto al settore meridionale della Verona austriaca (la cosiddetta Veronetta).
Redatto con la collaborazione di Giuseppe Barbieri e Antonio Noale, esso prefigura, nei pressi della Fiera, un'ampia area di verde pubblico, attraversata da un impianto stellare di viali intervallati da rond-points alla francese. Un tratto alberato si sarebbe inoltre dovuto estendere fuori dalle mura urbane, oltre porta Vescovo, mentre in connessione con il tessuto edilizio sarebbe dovuto sorgere l'edificio teatrale, un edificio memore, nell'interno a ferro di cavallo, di moduli bibieneschi, e, all'esterno, della facciata ad avancorpo del teatro alla Scala.
Nel 1807, all'indomani dell'inclusione di Verona nel Regno d'Italia napoleonico, il G. venne chiamato a far parte della neocostituita Civica Commissione all'ornato, come "intendente" di architettura. L'anno precedente, inviato a Parigi come "député de la Ville de Vérone", era stato nominato cavaliere della Corona di Ferro.
Gli anni della dominazione napoleonica (1806-14) videro il G. - membro autorevole e "mente direttiva" (Sandrini, 1994, p. 21) della Commissione all'ornato - sempre in primo piano nel dibattito urbanistico cittadino.
Nel 1808 elaborò uno studio per un cimitero fuori porta S. Giorgio e nel 1808-09, coadiuvato da Barbieri e da Gaetano Cellini, e su incarico del prefetto, presentò un progetto di sistemazione del principale accesso alla città.
Esso prevedeva, sulla direttrice che dalla campagna conduce a porta Nuova, e quindi al cuore della nuova Verona, piazza Bra, uno spazio continuo a verde alberato: un pubblico passeggio che dalla Bra si sarebbe esteso, fuori porta Nuova, in un piazzale circolare, un piccolo foro Bonaparte, seguito da un lungo e monumentale asse viario, denominato stradone Bonaparte. Manifesto della ventata rivoluzionaria napoleonica, e insieme delle istanze illuministiche volte alla creazione di attrezzature collettive per lo svago e la pubblica igiene, il progetto del G. era anche la naturale conseguenza della trasformazione di Verona - dopo la demolizione della cinta sanmicheliana a destra dell'Adige - in città "aperta", espansa verso il territorio.
Il regio liceo è la realizzazione architettonica più significativa del G. e dell'edilizia napoleonica a Verona. Al progetto definitivo egli giunse nel 1810.
Il prospetto, dominato dalla parata di semicolonne ioniche del piano primo, segna il prevalere di un classicismo purista e grecizzante, intriso di propositi celebrativi e universalistici. Il rigore neoclassico è tuttavia mitigato dai richiami alla tradizione cinquecentesca e romana antica: la poderosa serie di arcate su pilastri del pianterreno con teste di veronesi illustri, antichi e moderni, sulle chiavi d'arco. E pure l'inserto palladiano del timpano centrale rimarca il legame con l'architettura del Cinquecento veneto, un legame al quale il G. non rinunciò nonostante le sollecitazioni dell'amico Pinali, assertore di un lessico più rigidamente "greco".
L'Invenzione capricciosa di un palazzo triangolare (1810) va ancora inscritta nell'ambito delle riflessioni sull'architettura "da pubblico parco", entro la quale trova giustificazione la commistione di motivi palladiani (la loggia esastila timpanata) e di suggestioni pittoresche e medievaleggianti (le torrette circolari e l'uso estensivo della tessitura bugnata).
Frattanto il G. elaborava ipotesi progettuali per l'architettura ecclesiastica del territorio: il progetto neopalladiano (1810), non realizzato, per la parrocchiale di Illasi (facciata a semicolonne addossate e finestra termale), e quello portato a termine per la chiesa e per il palazzo municipale di Monteforte (1810-11). Nella chiesa di Illasi le tendenze neopalladiane appaiono filtrate dalle proposte di architetti veneziani come Giannantonio Selva e Antonio Diedo. Analogamente il palazzo municipale di Monteforte scaturisce da meditazioni su edifici sanmicheliani e palladiani (soprattutto palazzo Thiene).
Negli stessi anni il G. si adoperava nel promuovere la rilevazione e lo studio dell'architettura di Sanmicheli, nella previsione di dare alle stampe la sua opera completa. Il progetto trovò un primo esito parziale nell'illustrazione della Cappella della famiglia Pellegrini esistente nella chiesa di S. Bernardino, una pubblicazione che vide la luce a Verona nel 1816, nella stamperia che il G. aveva fatto impiantare nel palazzo familiare fin dal 1793.
Dopo la Restaurazione, nel 1816, il governo austriaco confermò il G. quale membro della Civica Commissione all'ornato. In tale contesto, nel 1817, nell'ottica di inserire Verona nel più ampio dibattito urbanistico del Lombardo-Veneto, il G. riallacciò rapporti con Giacomo Albertolli, che faceva parte dell'analoga commissione milanese.
Il passaggio al dominio asburgico impresse a Verona, perlomeno fino ai primi anni Venti, un nuovo impulso nella progettazione urbanistica, sebbene quest'ultima fosse in quel momento quasi esclusivamente incentrata sulla sistemazione dell'area designata a divenire il centro di rappresentanza del nuovo potere: piazza Bra.
Alla definizione del nodo della Bra, il G. concorse, come di consueto, da un lato con azioni di recupero e di salvaguardia dei monumenti esistenti, dall'altro con la proposizione di idee progettuali.
Dal 1816 al 1820 fu impegnato nella direzione degli scavi dell'anfiteatro romano, all'epoca ancora parzialmente interrato, le cui conclusioni vennero pubblicate a Verona nella Topografia dell'anfiteatro di Verona (1822).
Nel 1817, inoltre, fu nominato sovrintendente del Museo lapidario. Affacciato sulla medesima piazza e sorto per iniziativa di Scipione Maffei, il Museo era divenuto l'istituzione-simbolo di quella Verona settecentesca e illuministica cui la generazione del G. guardava come a un modello.
Nel 1819, in qualità di membro della Commissione all'ornato, il G. stese una serie di Considerazioni, volta a contestare il progetto di Saverio Dalla Rosa per piazza Bra; nell'occasione, egli formulava una proposta alternativa.
Essa prevedeva l'erezione di un monumentale edificio, posto a chiudere l'invaso della Bra nello spazio a imbuto che si era venuto a creare, dopo la demolizione dell'ospedale della Misericordia, tra l'anfiteatro e la Gran Guardia seicentesca. Il nuovo edificio si sarebbe affacciato sulla piazza mediante un grandioso prospetto tripartito, costituito da due avancorpi laterali di impronta neocinquecentesca, con rivestimento bugnato e finestre a edicola, e da un grandioso loggiato centrale, trabeato alla greca e a due ordini: dorico al pianterreno, adibito a mercato, e ionico al piano primo, con statue fra le colonne a segnalare la funzione civile ed educativa degli spazi interni, pinacoteca, scuola di pittura e biblioteca. Nel lungo loggiato, in particolare, i richiami a un classicismo "eroico" e severo (è sintomatico l'uso del "sublime" dorico) sono mediati, ancora una volta, dalla tradizione del Cinquecento veneto e soprattutto palladiano (evidente è il rimando a palazzo Chiericati a Vicenza).
Nel 1820 il G. inviò al podestà Giovanni Battista Da Persico nuove Osservazioni sui diversi progetti presentati per la Bra, e propose di bandire un pubblico concorso. La vicenda della Bra - risoltasi solamente nel quarto decennio con il progetto politico-celebrativo della Gran Guardia Nuova di Giuseppe Barbieri - da un lato coincise con il momento di massima saldatura, nel G., tra passione civile, ideali illuministici e impegno architettonico, dall'altro costituì il preludio, nel nuovo contesto politico asburgico, dell'irreversibile declino delle ideologie di trasformazione architettonica e funzionale dello spazio urbano.
Nel 1824 il G. abbandonò l'incarico per l'edificazione del regio liceo. Era il segnale della fine di un'epoca: con il venire meno delle idealità civili che avevano animato l'urbanistica napoleonica, e che avevano trovato nel G., a Verona, il più tenace fautore, l'età asburgica segnava il trionfo dei "tecnici", gli ingegneri municipali. Verona si preparava a divenire non più sistema di attrezzature collettive, ma città "militare": la costruzione della nuova macchina bellica, messa in moto negli anni Trenta con il rinnovamento della cinta magistrale, avrebbe condizionato pesantemente lo sviluppo della Verona "civile".
In tale contesto, la pubblicazione in fascicoli, a Verona tra il 1823 e il 1829, delle Fabbriche civili, ecclesiastiche e militari di Michele Sanmicheli di Gaetano Pinali, Francesco Ronzani e Gerolamo Luciolli con dedica al G., che ispirò, promosse e curò la redazione dell'opera, aveva il sapore della rievocazione nostalgica delle passate glorie veronesi.
Nella nuova situazione politico-culturale, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, il G. non poté che proiettare il proprio sogno laico e illuministico, paradossalmente, nell'edilizia ecclesiastica del territorio veronese, riprendendo, modificando talora ampiamente, e portando infine alla realizzazione progetti elaborati alcuni decenni prima. Così, dal quarto decennio il G. avrebbe applicato in diverse chiese del contado implausibili pronai "pagani", da tempio greco, espressione, nel suo itinerario progettuale, di un irrigidimento neoclassico e di un'indefessa quanto astorica fede nel sistema colonna-trabeazione-timpano.
In effetti, la revisione dei progetti di chiese operata in quel periodo, portò a un parziale allontanamento dall'eredità del Cinquecento veneto. Nel 1830 il G. propose, per la facciata di S. Pietro di Nogara, la variante (non realizzata) di un pronao rettilineo al posto della precedente versione "palladiana", del 1792, che prevedeva un colonnato semicircolare. Analogamente, per la parrocchiale di Monteforte, in luogo della facciata neopalladiana del 1805 (pronao incassato con finestra termale), venne eretto un classicistico pronao aggettante timpanato. Simile, del resto, ai pronai tetrastili con timpano fatti edificare, sempre su progetto del G., per la parrocchiale di Gargagnago (dopo il 1828) e per quella di Bardolino (su progetto del 1830 realizzato intorno al 1870 da Angelo Gottardi). In quest'ultima, tuttavia, risuonano ancora, nel colonnato semicircolare del coro, echi palladiani. Altro pronao rettilineo il G. propose, nel 1833, per la facciata della chiesa di Zevio.
Negli anni Trenta, come si evince da scambi epistolari, il G. condivise con Pinali, altra mente "illuminata" della cultura neoclassica veronese, la disillusione delle speranze coltivate nei decenni precedenti. Alla progressiva chiusura provincialistica dell'ambiente veronese, il G. e Pinali contrapponevano l'esempio di Venezia e soprattutto di Milano, come si desume anche dallo stretto rapporto che il G. intrattenne con uno dei principali architetti della Milano neoclassica, Luigi Cagnola. Tali contatti erano spie di un progetto non realizzato: fare, cioè, di Verona il baricentro non solo geografico di un'architettura neoclassica lombardo-veneta, capace di conciliare le spinte auliche e grecizzanti del neoclassicismo europeo con il patrimonio linguistico della tradizione rinascimentale veneta e italiana.
Il G. morì a Verona l'11 dic. 1842.
Fonti e Bibl.: Verona, Biblioteca capitolare, P/S 19b-20: B. Giuliari, Architettura ecclesiastica e civile; Ibid., Biblioteca civica, Carteggio A. Pompei, b. 927, cc. 1-69; Carteggio B. Giuliari, bb. 57-76 (dove sono conservati i suoi scritti inediti e i progetti architettonici citati); G.B. Da Persico, Descrizione di Verona e della sua provincia, I, Verona 1820, pp. 29, 118, 249; II, ibid. 1821, pp. 134, 247; G. Biadego, Notizie preliminari, in D. Zannandreis, Le vite dei pittori scultori e architetti veronesi, Verona 1891, pp. XX s.; L. Simeoni, Verona. Guida storico-artistica della città e provincia, Verona 1909, pp. 70, 417; F. Riva, La "dimestica" stamperia del veronese conte G. (1794-1827), Firenze 1956; P. Gazzola, Il neoclassicismo a Verona, in Bollettino del Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio, V (1963), p. 177; G.P. Marchini, Antiquari e collezioni archeologiche dell'Ottocento veronese, Verona 1972, pp. 24-27; F. Riva, Tipografi ed editori dal 1472 al 1800, in Cultura e vita civile a Verona, a cura di G.P. Marchi, Verona 1979, pp. 366-369; F. Giacobazzi Fulcini, Patrizi e cultura a Verona tra Sette e Ottocento: B. G. (1761-1842), in Studi storici veronesi Luigi Simeoni, XXX-XXXI (1980-81), pp. 381-502; A. Sandrini, Il Settecento: tendenze rigoriste e anticipi "neoclassici", in L'architettura a Verona nell'età della Serenissima (sec. XV - sec. XVIII), a cura di P. Brugnoli - A. Sandrini, Verona 1988, I, p. 324; M. Meneghelli, ibid., II, pp. 376-389; A. Sandrini, Il primo Ottocento: dal neoclassicismo "civile" all'architettura della Restaurazione, in L'architettura a Verona dal periodo napoleonico all'età contemporanea, a cura di P. Brugnoli - A. Sandrini, Verona 1994, pp. 1 s., 5-7, 10 s., 16-18, 21-24, 31 s., 52, 65-74; F. Venuto, Giardini a Verona e provincia nell'Otto e nel Novecento, ibid., pp. 283-285, 310-316, 335.