GUIDICCIONI, Bartolomeo
Nacque a Lucca nel 1469, figlio di Giovanni, attestato come gonfaloniere nel 1460, e di Angela di Niccolò Pietro Burlamacchi. La famiglia apparteneva alla nobiltà cittadina. Secondo la volontà paterna il G. si dedicò, a Pisa e a Bologna, agli studi giuridici, conclusi dopo sette anni con il dottorato.
Nel 1495 tornò nella città natale, ma, insoddisfatto delle prospettive professionali e delle discordie tra le famiglie dei suoi fratelli, si trasferì a Roma, dove si stabilì come procuratore in uno dei tribunali romani. Certamente gli facevano difetto in primo luogo un'adeguata conoscenza del diritto ecclesiastico e della prassi dei tribunali e degli uffici curiali, e quindi si impadronì di queste nozioni con ulteriori studi, ma non raggiunse nella misura sperata né il successo professionale, né i guadagni. Cambiò quindi i suoi piani e si fece accogliere, su raccomandazione del celebre canonista Felino Sandeo, nella familia del cardinale Galeotto Franciotti Della Rovere, nipote del papa Giulio II.
Il cardinale aveva, fra gli altri benefici, la commenda dell'abbazia di Farfa e vi insediò il G. come suo rappresentante per circa due anni. Pochi mesi prima della morte del suo protettore (11 sett. 1507) il G. perse il favore del cardinale a causa, come egli sostenne, di calunnie. Fu quindi licenziato e perse i suoi benefici. La situazione lo indusse a raccogliere una vasta documentazione che gli consentì di comporre un'opera sul tema dei benefici (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 1183).
Ancora nel 1508 fu accolto al servizio del cardinale Alessandro Farnese (il futuro papa Paolo III) al quale rimase legato per tutta la vita. Nel 1502 il Farnese era stato nominato legato nelle Marche e assegnò al G. l'incarico di uditore a Macerata e dopo poco meno di un anno lo richiamò a Roma. Nel marzo 1509 Farnese era divenuto vescovo di Parma e aveva deciso di porre il G. alla guida della diocesi, come suo vicario generale. Sembra che il G., che aveva ricevuto la tonsura nel 1499, abbia allora preso anche gli altri ordini. Nel novembre 1509 si insediò nella diocesi.
Anche nel nuovo campo di attività fu utile al G. la sua esperienza giuridica. Dovette intervenire nelle liti tra il vescovo, il capitolo e la città e difese con successo la sua posizione nelle controversie sulle delimitazioni giurisdizionali nella città e sui limiti dell'esenzione tributaria del clero. Con l'assunzione dell'ufficio pastorale il G. si impegnò profondamente negli studi e compose scritti di argomento teologico. Nel 1516 proseguì la visita pastorale intrapresa dal Farnese e lavorò alla sua grande opera, De visitatione (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 1179-1182; una successiva redazione, ibid., 1167). Anche le costituzioni per la riforma del clero emanate dal sinodo del 1519 furono redatte secondo quello spirito.
Il G. rimase a Parma come vicario generale per 19 anni, in un periodo di grandi mutamenti politici. Nel 1528, stanco del suo ufficio, si ritirò nella residenza di campagna di Carignano, presso Lucca, dove continuò a interessarsi di questioni teologiche, a rielaborare e ampliare i suoi scritti giovanili e a comporre opere di poesia, senza però dare nulla alle stampe. Non si interruppero le sue relazioni amichevoli con il cardinale Farnese, che nel 1527 aveva accolto nella sua familia come segretario anche il nipote del G., Giovanni, che nel 1534 divenne vescovo di Fossombrone e nel 1535-37 fu nunzio presso l'imperatore. Dopo che nell'ottobre 1534 Alessandro Farnese fu eletto papa, era auspicabile per la Repubblica di Lucca la partecipazione del G. all'ambasciata inviata a Roma per rendere omaggio al pontefice; il G. rifiutò l'incarico a causa dell'età, ma scrisse per l'occasione un discorso inviato a Paolo III.
Non ambiva all'assunzione di un ufficio in Curia e in uno scritto molto dettagliato dichiarò al suo protettore che non si sentiva più all'altezza degli impegni alla corte papale e che avrebbe preferito limitarsi, in privato, alle fatiche della dottrina, ma già nel febbraio 1535 gli fu chiesto di partecipare alle consultazioni sul progetto di riforma della Chiesa. Trascorse quindi due mesi a Roma ed ebbe occasione di discutere con il papa della convocazione di un nuovo concilio generale.
Questo scambio di opinioni gli diede occasione di iniziare, dopo il suo ritorno, la composizione di una vasta opera, il De concilio (ibid., 1165, 1175), nella quale (basandosi soprattutto sulla Summa de Ecclesia di Juan de Torquemada, che mette insieme le norme in vigore e le posizioni dei canonisti) tratta anche il problema, aspramente dibattuto nel XV secolo, della preminenza del papa sul concilio e prende inoltre in considerazione questioni come la composizione, la procedura di votazione, la definizione dei temi, lo svolgimento, il cerimoniale. Da una parte egli rappresenta il punto di vista strettamente curiale secondo il quale il concilio è solo uno strumento nelle mani del papa e solo dal papa trae la sua autorità; a differenza però dei precedenti canonisti di questa opinione, egli caldeggia la convocazione del concilio, in quanto - a maggior ragione nella crisi provocata da Martin Lutero e dai suoi seguaci - necessario per assicurare diffusione e forza in tutta la Cristianità ai decreti di riforma della Chiesa che già da tempo si sarebbe dovuto adottare. Nel perdurante rifiuto di indire un concilio da parte del papa precedente egli vide anche uno dei motivi delle agitazioni in corso. Il G. inviò a Paolo III il preambolo e il sommario dell'opera e fu incoraggiato ad andare avanti con l'elaborazione.
Nel 1536 fu offerta al G. la guida della Dataria, la cui riforma era ormai imprescindibile, a causa delle accuse di simonia che le venivano mosse, ma non accettò la difficile carica, per la quale propose un suo nipote. Non volle neanche partecipare alla commissione che si insediò a Roma il 23 luglio 1536 per elaborare proposte di riforma della Curia ed espresse più tardi una dura critica (Concilium Tridentinum, XII, pp. 227-233, sotto il titolo De consilio delectorum cardinalium) verso il Consilium de emendanda Ecclesia, redatto dal cardinale Gasparo Contarini.
Il G. ritenne le radicali proposte dei membri della commissione poco consone alle sue convinzioni. Nel suo isolamento di Carignano compose, invece, altre opere sui problemi da discutere nel concilio, in preparazione ma non ancora riunito. Tre trattati (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 1172) si occupano delle indulgenze (De indulgentiis, estratto in Concilium Tridentinum, XII, pp. 256-259), della divina provvidenza e predestinazione (Apologia Christiana cum salutifera instructione, altra versione in Barb. lat., 1176: Humana murmura adversus Deum et Christum eius), del libero arbitrio, della fede, della grazia e delle opere, come anche dell'aspramente contestata dottrina di Lutero sulla giustificazione (Contra malignos et pravos Pauli apostoli interpretes invectiva sive apologia). In altri scritti (Barb. lat., 1165, cc. 254-321) il G. si occupa della donazione di Costantino (senza titolo) e dei benefici (De annatis, De beneficiis ecclesiasticis, De spoliis, De taxis et compositionibus) a proposito dei quali egli confuta le accuse mosse dalla Chiesa tedesca verso Roma e verso i papi.
Anche negli anni 1538-39 il G. si interessò alla preparazione del concilio in alcuni scritti raccolti nell'opera De Ecclesia (estratti in Concilium Tridentinum, XII, pp. 226-256, e in Tacchi Venturi, I, 2, pp. 208-214) ed elaborò l'abbozzo di bolle che, a suo parere, si dovevano pubblicare congiuntamente da parte del papa e del concilio. Si occupò dettagliatamente dell'atteggiamento da tenere con i protestanti nel concilio (Concilium Tridentinum, XII, pp. 233-241; in abbozzo in Barb. lat., 1173, c. 42r con il titolo Schedula sive tenor articulorum saepius damnatorum et novissime a Lutheranis innovatorum). È chiaro che egli vedeva la riforma luterana - senza alcuna conoscenza dei testi di Lutero - solo come una reviviscenza di eresie ben note nella storia della Chiesa e da tempo condannate. Cominciando dalla negazione del primato papale, egli compose una lista di venti punti, in cui descriveva le eresie dogmatiche sostenute dai riformatori dal primo manifestarsi sino alla loro confutazione e definitiva condanna. Respinse risolutamente un esame approfondito in concilio di tali questioni, non solo perché ciò gli sembrava un'inutile lungaggine, ma perché temeva che con un ulteriore dibattito su dottrine già condannate si mettessero in discussione l'autorità dei decreti precedenti e le decisioni conciliari: bisognava invece assicurarsi che i libri dei riformatori venissero proibiti. Erano inoltre da chiarire le questioni relative alla citazione, alla procedura e alla condanna degli eretici - tra questi considerava Erasmo tra i più pericolosi - a proposito delle quali egli si rifaceva al processo di Hus a Costanza e utilizzava anche il Malleus maleficarum. Gli altri temi che secondo il G. si dovevano trattare nel concilio erano il ristabilimento della pace tra la Francia e l'Impero e la riforma della Chiesa. Nel conflitto in Europa egli vedeva solo colpe da parte di Carlo V e credeva fosse giunto il momento di ricordarsi di papi come Gregorio VII e Innocenzo III, che avevano deposto gli imperatori. Più differenziate sono invece le sue indicazioni per la riforma della Chiesa: auspicava che non si introducessero nuove norme, ma si applicassero in modo conseguente le costituzioni papali già esistenti e si vigilasse sul loro rispetto. Era necessario anche fare più chiarezza sulle norme vigenti; a questo proposito caldeggiava la pubblicazione di una nuova raccolta autorizzata delle Extravagantes in una codificazione da intitolare al papa regnante. La discussione sulle riforme basilari nell'ambito della Dataria non aveva portato alcun cambiamento.
Nel 1539 fu nuovamente offerta al G. la carica di datario, che egli ancora rifiutò, ma quando il 28 nov. 1539 Paolo III gli offrì l'incarico di vicario generale di Roma, non poté tirarsi indietro. Il 12 dicembre gli fu assegnata inoltre la diocesi di Teramo e già nel concistoro del 19 dic. 1539 fu creato cardinale. Il G. dovette affidare l'amministrazione della sua diocesi a un vicario, come a suo tempo aveva fatto il Farnese. Egli rinunciò a Teramo il 27 marzo 1542, e nello stesso anno lasciò la sua carica di vicario generale al giurista milanese Filippo Archinto. Nell'aprile 1544 gli fu assegnata la diocesi di Chiusi, alla quale rinunciò poco dopo mantenendone la pensione, e il 26 maggio 1546 divenne vescovo di Lucca, dove nel gennaio 1549 il pronipote Alessandro Guidiccioni divenne suo coadiutore cum iure succedendi.
A Roma il G. - che, nonostante l'età ormai avanzata, era stato gravato di incarichi - manifestò un'insolita capacità lavorativa e sino alla morte rimase uno dei più importanti e fidati collaboratori di Paolo III. Il 17 febbr. 1540 divenne prefetto della Signatura Iustitiae e il 27 agosto fu incaricato, con altri due cardinali, di riformare la Rota romana. Da Roma prese anche parte agli avvenimenti di Lucca, dove nel 1541 il governo aveva iniziato a introdurre innovazioni di tipo protestante e dove Pietro Martire Vermigli, vicino alle posizioni di H. Zwingli, predicava con grande affluenza di popolo e faceva seguaci. In uno scritto ammonitorio egli esortò la città al ritorno all'antica dottrina. Quando l'Inquisizione romana fu riorganizzata, egli fu uno dei sei inquisitori generali chiamati, il 21 luglio 1542, nel nuovo ufficio. Nell'autunno 1541 il G. aveva accompagnato il papa a Lucca all'incontro con l'imperatore Carlo V; nel febbraio-marzo 1543 si recò con lui a Bologna.
All'inizio della sua attività in Curia fu coinvolto nel dibattito sulla conferma papale degli statuti della costituenda Compagnia di Gesù. Il G. era convinto che il numero degli ordini già esistenti dovesse essere ristretto e non allargato. Egli ben sapeva come le comunità, in reciproca rivalità, con le loro liti rappresentassero uno scandalo e un permanente ostacolo per l'autorità della Chiesa. Già nel De concilio aveva espresso in proposito l'opinione che il papa avrebbe fatto bene a restringere rigorosamente a quattro il numero degli ordini e a vigilare con severità che non fossero consentite scissioni e nuove fondazioni. Il gruppo di sacerdoti intorno a Ignazio di Loyola godeva di protettori altolocati e aveva ricevuto il consenso verbale dal papa e quindi la stesura della bolla di conferma sembrava solo una formalità. Nel settembre 1539 furono espressi dubbi su singoli punti degli statuti. Quando il G. ricevette l'incarico di svolgere una perizia, non abbandonò i suoi dubbi di principio contro l'istituzione di nuovi ordini, al punto che non volle leggere neppure una volta gli statuti sottoposti al suo esame. Anche nel colloquio personale non si fece convincere da Ignazio, che decise di celebrare 3000 messe perché Dio illuminasse il perito. Nello stesso tempo Ignazio fece chiedere al duca di Ferrara, Ercole II, di premere su suo fratello, il cardinale Ippolito d'Este, e su altri intercessori che alla fine smossero il G. dalla sua rigida posizione.
Il rifiuto del G. aveva tuttavia rimandato di un anno l'approvazione dell'Ordine e ne aveva determinato la limitazione a sessanta membri.
Nel 1540 il G., in relazione alla sua nomina a prefetto della Signatura Iustitiae, compose il trattato De Signatura Gratiae necnon Iustitiae (Barb. lat., 1178). Per l'elaborazione dei memoriali che dovevano servire ai legati conciliari come guida (Concilium Tridentinum, IV, pp. 267-275), Paolo III incaricò il cardinale Giovanni Maria Del Monte (legato al concilio nel 1545 e divenuto nel 1550 papa Giulio III), il vescovo di Feltre Tommaso Campeggi e il Guidiccioni. Le direttive del G. consistevano prevalentemente nel mettere in guardia dal rischio di innovazioni sulla fede e sul culto e da discussioni su decisioni di precedenti concili; anche l'intero problema della riforma della Curia doveva essere evitato. Il 26 ott. 1542 i memoriali furono consegnati ai legati in partenza.
Nel maggio dell'anno successivo il G. fece parte della deputazione cardinalizia che, in un periodo dominato da tensioni di guerra, doveva decidere, durante il soggiorno del papa a Bologna, se e dove dare luogo al concilio. I protocolli delle sedute non sono stati tramandati e quindi le posizioni del G. non sono note. È comunque evidente che le sue competenze canonistiche e il suo consiglio furono molto apprezzati. Quando alla fine fu certo che nel marzo 1545 il concilio si sarebbe riunito e nel concistoro del 19 nov. 1544 il papa insediò la deputazione per le questioni del concilio, il G. fu chiamato a farne parte. Era abbastanza vigoroso per prendere parte alle sedute che, come avvenne nel gennaio 1546, si tenevano anche due volte alla settimana. In primo luogo la deputazione, sotto la presidenza del cardinale decano Domenico De Cupis, fu incaricata di collaborare all'istruzione per i nuovi legati. Quando il concilio fu aperto, il G. tenne regolarmente resoconti sul suo andamento, discusse i problemi che si presentavano e prese parte a tutte le decisioni importanti adottate a Roma. Dall'autunno 1546 egli fu in primo piano nelle discussioni sul trasferimento del concilio a Bologna - auspicato dal papa e dalla maggioranza dei partecipanti al concilio - realizzato nel marzo 1547. Sul ritorno del concilio a Trento, richiesto da Carlo V, il G. compose, nell'agosto 1547, un suo parere (cfr. Römische Quartalschrift, XXII [1908], pp. 140-142) nel quale respinse energicamente gli argomenti dell'imperatore.
Secondo il G. lo stesso concilio e non il papa avrebbe dovuto decidere sul luogo delle sedute ed era compito di Carlo V ordinare ai protestanti di recarsi al concilio ovunque esso si fosse riunito. Per il G. era un dato di fatto che l'imperatore si fosse dimostrato sostenitore dei protestanti. Sull'andamento del concilio sino a quel momento il G. si mostrava deluso e non si aspettava più neppure per il futuro alcuno sviluppo favorevole.
Alla fine di ottobre del 1549, lasciando il concistoro, cadde malamente a terra. Morì a Roma il 4 nov. 1549, pochi giorni prima di Paolo III e fu sepolto nella cattedrale di Lucca.
È stato ritratto dal Vasari tra le figure che fiancheggiano il papa nel palazzo della Cancelleria a Roma sulla stretta parete della sala dei Cento giorni, dipinta nel 1546, dove è raffigurata la Cancelleria apostolica.
Secondo Hubert Jedin, il G. fu un canonista dotto, ma non creativo. Tra i fautori del progetto conciliare appartenne al gruppo dei conservatori. Motivo delle sue ricerche giuridiche e dei suoi trattati fu, secondo la sua stessa dichiarazione, la necessità di fare chiarezza sugli aspetti giuridici dei problemi di cui si occupò. Dall'esperienza pratica nacque certamente la sua diffidenza verso l'efficacia dei nuovi decreti e la sua convinzione che era facile abolire un sistema non esente da abusi, ma difficile instaurarne un altro al suo posto. La sua visione dell'ordinamento giuridico non si orientò, come quella dei sostenitori del Consilium de emendanda Ecclesia, verso la Chiesa del primo Cristianesimo, ma piuttosto verso il modello ideale della Chiesa medievale. Era aperto alle novità quando vedeva abusi come le inosservanze di antichi decreti. Così ricordava come nei concili del XV secolo era stato deciso che nella scelta dei cardinali fossero da prendere in considerazione le richieste della minoranza e che nel Collegio cardinalizio le quattro grandi nazioni dovessero essere equamente rappresentate e disapprovava il prevalere di una singola nazione, come era avvenuto sino a quel momento. Con decisione rifiutava il sistema in uso delle expectationes e reservationes dei benefici concessi dalla Curia che ledevano i diritti degli ordinari vescovili; metteva in dubbio l'esistenza di validi fondamenti giuridici per tutte le imposizioni di pagamento da parte della Dataria. Biasimando un progetto di Gregorio X, a proposito degli ordini religiosi sostenne perfino la posizione radicale che essi fossero da riunificare al massimo e chiese la cessazione della vendita degli uffici della Cancelleria, della Camera apostolica, della Penitenzieria, non senza preoccuparsi di un diverso finanziamento degli uffici curiali. Anche per i collaboratori della Rota romana auspicò stipendi fissi. Si occupò del segreto confessionale, dei precetti di digiuno, del celibato del clero e discusse posizioni contrarie alla prassi cattolica. Avrebbe voluto sopprimere un istituto del diritto penale canonico come la scomunica ipso facto. Non fu in grado di capire le richieste propriamente teologiche della Riforma ed ebbe anche un'idea sbagliata della visione politica di Carlo V e dei rapporti di forza nel suo Impero.
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