QUERINI, Bartolomeo II
QUERINI, Bartolomeo II. – Nato probabilmente attorno al 1250, era figlio di Matteo, uno dei fratelli di Bartolomeo Querini I, vescovo della diocesi veneziana di Castello; non si conoscono invece il nome e il cognome della madre.
Studiò a Padova, ove fu rettore degli studenti cismontani nel 1283, l’anno nel quale fu proclamato decretorum doctor, e ivi divenne presto (ante 1290) canonico.
Con questa carica fu coinvolto in un’importante vicenda giudiziaria e politica, che prova come avesse già raggiunto una qualche notorietà. Fu infatti designato da Guglielmo, vescovo di Reggio, per risolvere la controversia che opponeva la diocesi reggiana ai Bonacolsi, signori di Mantova, per il possesso del castello e dell’insula di Suzzara. La sua controparte fu il suo stesso arciprete del duomo di Padova, Bovetino da Mantova, canonista presso lo Studio di Padova, poi sostituito per impegni accademici da Matteo Venier pievano di S. Silvestro a Venezia, ma che redasse comunque un consilium sul merito della vertenza. La controversia fu poi affidata dalla Curia romana a un arbitro terzo (medius et comunis iudex), il veneziano Simone Moro, primicerio di San Marco (1291); mentre essa pendeva, venne a morte (febbraio-marzo 1291) Bartolomeo Querini I, zio di Bartolomeo II, avvicendato nella carica proprio dal Moro.
Querini (che aveva avuto in eredità dallo zio una croce da tenere sull’altare durante la messa e l’intera biblioteca) sostituì a sua volta il Moro inizialmente nel primiceriato di S. Marco (1291) e poi nell’episcopato a Castello (1293). Le prime notizie della sua attività episcopale riguardano delicate questioni legate alle tendenze in atto di consolidamento dei mendicanti e di crisi monastica. Il 7 giugno 1294 si recò infatti nella parrocchia di Sant’Angelo, per la posa della prima pietra della chiesa dei «fratres heremitani ordinis Sancti Augustini», dedicata a santo Stefano. Nella predica che tenne nell’occasione, intese prevenire i futuri possibili contrasti fra il parroco di S. Angelo e gli eremitani, precisando che il suo consenso all’insediamento era subordinato all’impegno esplicito a rispettare la giurisdizione diocesana e parrocchiale. Poco dopo fu costretto ad autorizzare Francesco, abate di San Nicolò di Lido, alla stipula di due gravosi mutui (1000 lire di piccoli con Giovanni Sanguinacci da Padova, e ulteriori 87 lire di grossi) per sanare i debiti del cenobio.
Con il nuovo papa Bonifacio VIII, Querini ebbe rapporti stretti, non senza favoritismi e coloriture per così dire ‘nepotistiche’. Da Anagni, il Caetani gli elargì infatti in sequenza tre lettere nell’agosto del 1295: una per sistemare un chierico della casata (Pietro Querini, quattordicenne e illegittimo); una seconda indirizzata (pure il 13 agosto) al vescovo di Adria circa la licentia construendi et dotandi un oratorio (con il titolo di S. Bartolomeo), con un beneficio assai più ricco e soggetto a giuspatronato, che il clan Querini – a proprie spese – voleva ricostruire in pietra a Papozze (presso Ficarolo, diocesi di Adria), ove le precedenti generazioni avevano acquisito un cospicuo patrimonio. Ma ben più importante fu il precetto papale dell’8 agosto 1295: si trattava di una licentia conferendi, con la quale il papa attribuiva a Querini ampia discrezionalità nell’assegnare a chi gli paresse idoneo i benefici vacanti o vacaturi in tutte le chiese di Venezia. Ancor più stretti si fecero i rapporti quando Querini fu designato come collettore generale, per i patriarcati di Aquileia e Grado, per la Dalmazia e per Ferrara, della decima papale per il triennio 1295-98 (da destinare alla guerra angioino-aragonese): lo si apprende da una bolla del 29 marzo 1296, che conteneva l’obbligo di versare quanto raccolto nel primo anno.
Negli stessi anni, un’altra vicenda conferma l’affidabilità e il prestigio di Querini. In una situazione di contrasto e di contrapposizione, fu infatti designato – con Nicolò Natali, vescovo di Caorle, e Pietro Rossello, arciprete della Chiesa di Grado – come uno dei grandi elettori (per viam compromissi) del nuovo patriarca di Grado (dopo la morte di Lorenzo da Parma, 1295): il prescelto fu il domenicano Egidio da Ferrara, professore di teologia e cappellano del cardinale diacono Guglielmo Longhi, confermato dal papa il 19 maggio 1296 dopo il controllo svolto da una commissione cardinalizia. Querini presenziò anche (9 luglio 1296) al primo sinodo del nuovo patriarca, nel quale fu tutelata l’esclusività del foro ecclesiastico per i chierici, furono condannate le pratiche magiche e gli incantesimi, e vennero prese decisioni in materia liturgica.
Nello stesso anno Querini completò in Venezia la costruzione dell’ospedale di S. Bartolomeo, voluta in punto di morte dallo zio Bartolomeo I, ed eresse a fianco di esso una chiesa di giuspatronato, rimasta ai Querini sino all’avvento dei minimi (1598). Nel 1298 gestì poi (per decisione del Capitolo) l’assegnazione della carica di arciprete della sua cattedrale e la destinò al veneziano Leonardo «de Fabris» pievano di S. Tommaso di Venezia che ottenne anche dal papa (1° agosto 1298) di poter conservare i benefici precedentemente goduti a Venezia, Mestre, nella diocesi di Treviso e Corfù. Ciò permette di sottolineare, in generale, la precaria situazione economica delle parrocchie veneziane. Anche a S. Nicolò in Dorsoduro Querini fu costretto a mettere un limite (17 febbraio 1299) al numero dei chierici beneficiati: due preti, un diacono, un suddiacono e due chierici, oltre al pievano.
Ma a questi brillanti successi si accompagnarono anche seri problemi, che Querini dovette affrontare in diocesi per i classici contrasti tra mendicanti (in particolare i domenicani, capeggiati dal priore Ramberto Polo) e clero secolare (i suoi pievani, con i quali si schierò) per i diritti funerari, e un conflitto con il potere civile, per le decime mortuarie. Furono scontri durissimi, che alla fine gli costarono la cattedra castellana.
Il problema dei diritti funerari nacque dopo la morte di Agnese moglie di Andrea, detto Zeno, che nel suo testamento aveva disposto di essere sepolta nella chiesa dei frati predicatori, ciò che avvenne effettivamente in spregio a una costituzione di Querini, che fu costretto a scomunicare i frati e ad annunciare dovunque la sentenza di allontanamento dalla comunità dei suoi fedeli. A sua volta il priore, che riteneva di essere soggetto solo alla sede apostolica e quindi esente da ogni giurisdizione degli ordinari diocesani, ricorse al papa e al legato apostolico in Veneto, Matteo d’Acquasparta. La spinosa inchiesta, alla quale tre abati veneziani inizialmente designati abilmente si sottrassero, fu affidata dal legato a un monaco di Pomposa, Giacomo, rigettato perché illegittimo – in quanto semplice monaco e in quanto in precedenza scomunicato – da Querini e dai suoi pievani (che furono peraltro scomunicati, e ricorsero al papa). Alla fine Bonifacio VIII intervenne direttamente in forza della plenitudo potestatis Apostolice e sentenziò per viam provisionis che il vescovo e i pievani fossero ad cautelam assolti da tutte le accuse e annullò tutti i processi di Giacomo celebrati contro il presule e i suoi pievani, sciogliendo tanto il vescovo e i suoi pievani quanto il priore domenicano dalla scomunica e obbligando gli uni e l’altro a sostenere le spese di notifica dell’assoluzione. In buona sostanza, il compromesso (reso noto con la bolla del 20 gennaio 1300) permise al papa di evitare di prendere posizione sul problema dei rapporti tra parroci e ordini mendicanti nella prospettiva dello sviluppo pastorale verso i fedeli.
Quanto alle decime, per antica tradizione i testatori veneziani potevano destinare al vescovo o alle chiese parrocchiali un decimo delle proprie sostanze, poi suddiviso secondo la classica quadripartizione ‘gelasiana’ (vescovo, fabbrica, poveri, clero). Tuttavia nel 1301 Querini, forse pressato dalle continue situazioni di crisi delle sue chiese parrocchiali, volle esigere la decima mortuaria in modo drastico su tutti i morti, incontrando l’opposizione del Maggior Consiglio che, mediante una commissione, deliberò la sospensione del pagamento e impose che i beni e i denari rimanessero presso gli eredi e che al presule fossero versate solo le decime che gli spettavano di diritto. Seguirono il ricorso di Querini a Bonifacio VIII, le richieste di revoca delle disposizioni contro di lui da parte del delegato papale (il vescovo di Treviso) e l’interdetto fulminato contro la città (ma l’organismo politico tamponò avvalendosi del patriarca di Grado, e la vita liturgica non si interruppe). Anche i successivi tentativi di risolvere la questione (nei quali fu dal papa coinvolto anche il patriarca di Costantinopoli) non approdarono a nulla, né valse un’ambasciata veneziana al papa che escluse i parenti diretti di Querini. Il problema fu risolto solo nel 1303 quando il decreto emesso dal Maggior Consiglio fu annullato; ma l’apparente vittoria di Querini e del papa non si concretizzò, giacché poco dopo il vescovo fu traslato a Novara (8 gennaio) e nominato vescovo di Castello (20 febbraio) proprio il suo antico avversario, Ramberto Polo.
Anche nella nuova sede Querini si distinse per il pronto zelo nell’amministrare il patrimonio terriero della Mensa vescovile: il 5 giugno 1303, stando nel nuovo palazzo episcopale, affittava con un contratto oculato (censo modico, ma a tempo definito e imposizione di migliorie alle vigne della «brea domini episcopi») tutti i beni vescovili ubicati nel territorio della pieve di Vespolate. Qualche mese dopo (in ottobre), con il vicario generale Amedeo da Mantova e con l’amministratore del maggior ente assistenziale cittadino, investì dei diritti capitaneali, delle avvocazie e delle decime tradizionalmente godute tre esponenti della famiglia dei Capitanei da Momo; e subito dopo esercitò le sue funzioni di vescovo e signore recandosi in val d’Ossola (contea vescovile sin dal X secolo). Ivi sollecitò il Comune di Domodossola a fortificare il borgo, a protezione delle incursioni della pars Gibellina e dei Vallesani provenienti dalla valle del Rodano e dalla diocesi di Sion; con gesto simbolico, iniziò anzi lui stesso il lavoro, con una zappa in mano. Molto probabilmente alla sua committenza si deve la crocifissione affrescata nella cappella episcopale di S. Siro a Novara, ma la questione appare ancora oggi controversa.
La morte di Bonifacio VIII (11 ottobre 1303) e l’immediata elezione del trevigiano Benedetto XI furono l’occasione per un altro passaggio di carriera di Querini. Resasi disponibile la diocesi di Trento, il 10 gennaio 1304 (dopo che sin dal dicembre il papa si era riservata la nomina) egli fu designato come pastore in quella Chiesa ai confini dell’Italia, in quel momento travagliata dagli assalti dei conti del Tirolo. La nomina a una sede difficilissima testimoniava stima e apprezzamento: lo stesso giorno della nomina il papa inviò una lettera ad Alberto d’Asburgo, re dei Romani, ricordandogli le capacità e le doti di governo di Querini e pregandolo di intervenire sui suoi tre cognati, Ottone, Ludovico ed Enrico duchi di Carinzia, per chiedere a loro non solo di restituire i beni della Chiesa tridentina, ma anche di intavolare un dialogo.
Benedetto XI morì presto, ma la conciliazione andò avanti. Infatti Querini nel 1305, durante la lunga sede vacante papale e il conclave di Perugia, convocò «a casa sua», a Papozze in Polesine, i duchi di Carinzia e ivi fu raggiunto un accordo di massima, che prevedeva la restituzione delle giurisdizioni e degli honores un tempo esercitati dalla Chiesa di Trento, a eccezione della giurisdizione di Pergine Valsugana, nella diocesi di Feltre. L’accordo sarebbe stato ratificato da Clemente V. Il 7 luglio 1306 da Bordeaux il papa autorizzò Querini a chiudere la trattativa, promettendo la remissione della scomunica e l’assoluzione di Ottone ed Enrico (Ludovico era morto nel frattempo) purché restituissero le giurisdizioni e i danni. Nella lettera, Clemente V riassunse le vicende pluridecennali del contrasto tra conti di Tirolo e principi vescovi di Trento, a partire dai tempi di Mainardo II, il padre dei tre duchi già scomunicato da Niccolò IV.
Ottenuta la restituzione dei poteri che gli spettavano, Querini prese possesso della cattedrale e della città il 24 dicembre 1306; e il 19 febbraio 1307, nel quadro di un generale rinnovo di tutte le investiture feudali della sua Chiesa, con l’accordo del Capitolo della cattedrale, cedette di nuovo in feudo ai due duchi di Carinzia l’advocatia e tutti i territori che la casata tirolese deteneva in beneficio dall’episcopato tridentino, a patto che essi riconoscessero, con un giuramento di fedeltà, la supremazia feudale del presule e della Chiesa tridentina.
Tre mesi dopo (il 23 aprile 1307) questo navigato ed energico vescovo ‘di carriera’, esempio non frequentissimo di ecclesiastico veneto attivo nel Duecento e nel Trecento su uno spazio geografico ampio, morì improvvisamente. Il suo corpo riposa nella cattedrale trentina di S. Vigilio.
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