MANFREDI, Bartolomeo
Figlio di una non meglio identificata Maddalena e di Mercurio, definito "messere" per indicare uno stato sociale non mediocre (Merlo, 1986, p. 44), nacque, e fu battezzato il 25 ag. 1582, a Ostiano (Bellomi, p. 798; Merlo, 1986), cittadina lombarda poco distante da Cremona, allora inclusa nella diocesi di Brescia e sottoposta alla signoria dei duchi di Mantova.
La notizia, riportata nel registro dei battesimi, ha posto fine a una ridda di ipotesi che, sulla base dei documenti romani e delle prime biografie, ne collocavano la nascita attorno al 1580 (Heinrich - Noack; Moir), oppure la posticipavano al 1587 (Longhi, 1943; Nicolson, 1967; Cuzin, 1980), oscillazioni cronologiche che vertevano, in realtà, sulla formazione dell'artista, su una sua prima eventuale esperienza lombarda e sul suo rapporto con il Caravaggio (Michelangelo Merisi), presente a Roma fino al maggio 1606. L'incontrovertibile individuazione del luogo di nascita conferma inoltre l'accuratezza delle informazioni riportate da Gigli e da Mancini (I, pp. 96, 251), le uniche fonti seicentesche a ricordarne i natali ostianesi.
Il secondo riferimento documentario risale al 2 nov. 1596 e ne attesta la presenza a Mantova, dove viene fermato di notte "con spade e pugnali [(] senza lume qual dice essere servitore del Sign. Eugenio Barcha" (Tellini Perina, 1989); il terzo, al 28 marzo 1607, quando la sua presenza a Roma è acclarata da una citazione del tribunale criminale del governatore (Randolfi, p. 82, n. 17).
Al momento non si hanno altre informazioni certe sul periodo compreso tra queste due date, durante il quale ebbero luogo la formazione e il trasferimento a Roma. A colmare tale lacuna sono state avanzate ipotesi diverse, partendo da quanto tramandato da Gigli, Mancini e Baglione. Il primo lo ricorda allievo di Antonio Gandini, pittore bresciano legato al magistero del Moretto (Alessandro Bonvicini) e alla pittura veneta del secondo Cinquecento, presupponendo una formazione lombarda cui allude anche Mancini (I, p. 251), fonte molto bene informata perché conobbe di persona il Manfredi. Baglione, infine, lo fa nascere a Mantova e aggiunge: "da giovinetto se ne stette con il Cavalier Pomarancio. Ma poi fatto grande si diede ad imitar la maniera di Michelagnolo da Caravaggio" (p. 159). Dal confronto fra le tre diverse testimonianze si può supporre un primissimo apprendistato lombardo e il trasferimento a Roma "da giovinetto", di certo dopo i quattordici anni e, probabilmente, prima dei venti. Mancini e Baglione concordano nel ritenere che la formazione romana non si svolse nella bottega del Caravaggio e che la maniera di questo non ne connotò la primissima attività. Sandrart (1675, p. 256) è invece la sola fonte a dichiararlo in modo esplicito allievo del Caravaggio, ma a qualche decennio dagli avvenimenti e solo nella biografia di Valentin de Boulogne. Se Mancini parla genericamente di "accademie" dove il M. avrebbe imparato a disegnare, Baglione è più esplicito nell'indicarne l'alunnato presso C. Roncalli, il Pomarancio. Questa ricostruzione, ripresa dalla successiva storiografia (Bellori; Lanzi), è stata collegata alla documentata presenza a Mantova del Pomarancio nell'agosto 1595, soggiorno durante il quale i due forse vennero in contatto anche tramite la corte gonzaghesca (Morselli, B. M. and Pomarancio, 1987.
Controversa rimane l'interpretazione delle deposizioni nel noto processo al Caravaggio (1603). Nei verbali, in tre diverse occasioni, ricorre tal "Bartolomeo servitore del detto Michelangelo" il quale, stando a Tommaso Salini, diffondeva per Roma sonetti ingiuriosi, personaggio che, nella sua testimonianza, il Caravaggio ricorda come "già mio servitore" (Samek Ludovici). Costui è stato identificato con il M. da diversi studiosi (Moir; Cuzin, 1980); di recente tale proposta è stata ribadita, suggerendo che il M. vada anche riconosciuto con il "Bartolomeo pittore" che a Roma, sempre nel 1603, partecipò a una aggressione ai danni di G.A. Galli, lo Spadarino (Papi, 2004, p. 24). Altri (Gregori, pp. 15 s.; Randolfi, pp. 81 s.), anche in considerazione dell'età del M., che nell'estate 1603 aveva compiuto ventun anni, sono più cauti nell'abbracciare tale ipotesi, sottolineando che, tra l'altro, la tecnica pittorica del M. è diversa da quella del Caravaggio. Quest'ultimo elemento indurrebbe a escluderne l'apprendistato presso Merisi (Gregori, p. 16; Lapucci), dando quindi credito alle testimonianze di Mancini e Baglione. Il primo, parlando del "colorito del Caravaggio", presuppone un interesse per l'iniziale maniera di questo, per le scene di genere, realizzate tuttavia "con più diligenza e fine" (I, p. 251), distinguendosi così dal grande maestro lombardo. Il secondo, invece, testimone informato, ma non privo di risentimenti, lascia intendere una tardiva e, forse opportunistica, conversione alla maniera del Caravaggio, quando quest'ultimo dovette forzosamente abbandonare la scena romana: "e arrivò a tal segno, che molte opere sue furono tenute di mano di Michelagnolo, ed infin gli stessi pittori, in giudicarle s'ingannavano" (p. 159). La mancanza di opere che possano con certezza collocarsi nella prima fase di attività del M. rende tale questione pressoché insolubile. Di certo il M. costituì a Roma l'avanguardia del caravaggismo, di quel gruppo molto variegato di artisti che, a pochi anni dalla fuga del Caravaggio da Roma e dalla sua morte a Porto Ercole, ne raccolsero il testimone, soddisfacendo la crescente domanda del mercato d'arte e del collezionismo, come dimostra, nel catalogo del M., la preponderanza di dipinti a destinazione privata e di soggetto profano.
A partire dal 1607 i documenti romani consentono di registrarne la presenza quasi anno per anno e con crescente regolarità: nel 1610 gli Stati d'anime della parrocchia di S. Andrea delle Fratte ne attestano la residenza: "Bartolomeo Manfredi Pittore, Pietro di Lorena servo" (Longhi, 1943, p. 43). La presenza di un servitore, con tutta probabilità un aiuto, è stata interpretata come indizio di solidità economica e professionale. Nel 1614 "Bartolomeo Manfredi bresciano" risulta abitare "nella strada di Ripetta" con il "garzone mantovano" Francesco Galdori; in seguito andò ad abitare a S. Lorenzo in Lucina con un servitore, tal Francesco Caldeo, che forse è sempre Galdori (Bousquet, 1978, p. 105, e 1980). Il 21 ott. 1616 una querela ne segnala un nuovo trasferimento: "Bartolomeo Manfredi pittore Mantovano a S. Andrea delle Fratte", parrocchia dove continuerà a risiedere fino al 1619: il 27 nov. 1617, "Bartholomeus Manfredus pictor [(] a S. Andrea delle Fratte sopra la barberia havante alla chiesa" sporgeva denuncia e chiamava a testimoniare in suo favore "Andrea Risto maltese pittore" e "Gio. Pietro comasco pure pittore" (Bertolotti; Randolfi, p. 91). Nel 1618 era al suo servizio il romano Francesco Guarini "pittore, servitore"; e nel 1619, "Pietro Dontelli, savoiano, servitore", personaggio identificato nel pittore savoiardo Pierre Dontels (Longhi, 1943, p. 49). Nel 1620 si trasferì ai Ss. Apostoli e andò ad abitare nel vicolo dei Ciccolini. Nei registri parrocchiali è definito "pictor veronensis", che conviveva con Andrea Risto, certamente un suo collaboratore, e con il figlio (o nipote) Mercurio (Bousquet, 1978, p. 105). Nel 1622, forse dopo una breve residenza nella parrocchia di S. Nicola a Capo le Case, il M. si trasferì con il figlio in quella di S. Maria in Via e risulta abitare in "casa di Giovanni Saponaro per andare alla Chiavica del Bufalo" (Parlato). L'ultima dimora romana era vicina al palazzo del duca di Ceri ed era posta sulla strada che conduceva all'attuale largo del Nazareno, a pochissima distanza dalla sua prima documentata residenza in città.
Anche se il secondo decennio del Seicento è relativamente ben documentato, la ricostruzione dell'attività e del catalogo del M. non è priva di difficoltà, dato che degli oltre trenta dipinti che gli vengono assegnati solo un numero davvero esiguo è datato. Al ritratto di Bartolomeo Chenna del 1609 (Charkov, Museo di belle arti), attribuitogli in maniera quasi unanime, va aggiunto un capolavoro quale la Punizione di Cupido (Chicago, Art Institute). La documentazione rinvenuta permette di collocarne l'esecuzione tra febbraio e ottobre 1613 (Maccherini) e porre un punto fermo nell'incerta ricostruzione del catalogo del Manfredi.
La tela era stata commissionata da Giulio Mancini che aveva richiesto una replica di un dipinto del Caravaggio, lo Sdegno di Marte (perduto). Quest'ultimo fu liberamente interpretato dal M. che, infatti, si avvalse di modelli per le figure di Cupido e di Venere; una volta terminato, il proprietario volle che Philippe Thomassin ne realizzasse una traduzione incisoria, e poi ne dispose l'invio a Siena, con l'obiettivo di vendere, a caro prezzo, la tela costatagli 35 scudi (ibid.). I fatti sono di grande interesse perché individuano, anche nel caso di una "copia" l'autonomia del M. rispetto al prototipo caravaggesco, nonché le dinamiche mercantili messe in atto da un avveduto conoscitore nei confronti di un artista in rapidissima ascesa, quale era il M. nel 1613.
La vicenda della Punizione di Cupido suggella l'avvio alla definitiva affermazione sulla scena artistica romana. Il 12 ott. 1613, Mancini riferiva al fratello gli incoraggianti esiti dell'esposizione di pittura a S. Giovanni Decollato (ibid., pp. 132, 136). La fama sembra essere stata raggiunta nello spazio di qualche anno, come testimoniano gli encomi tributati da Gigli - "Bartolomeo Manfredi ch'alla sua terra fa sublime onore" (1615) - e poi da Mancini (I, pp. 96, 108), che lo elenca tra i primi aderenti alla maniera del Caravaggio, facendone un vero e proprio caposcuola. Attorno a questi anni si colloca la probabile (ma non documentata) ammissione all'Accademia di S. Luca.
La presenza del M. nel novero dei professori è testimoniata da un suo ritratto accademico ricordato da Baglione e dalla tarda testimonianza di Missirini; nel secondo decennio del secolo, l'istituzione romana sotto la sorveglianza del cardinale F.M. Bourbon Del Monte si apprestava ad aprire le porte ai seguaci del Caravaggio, preparando il terreno per la nomina a principe di Simon Vouet (ottobre 1624).
Nella seconda metà del decennio si addensano commissioni importanti enumerate da Mancini - sempre attento agli umori del mercato - ma ricordate, a posteriori, anche da Bellori e Sandrart: le sue opere entrano nella collezione del cardinale F. Verospi, del cardinale Luigi d'Este (inventariate nel 1624), nella celebre raccolta di un grande conoscitore come Vincenzo Giustiniani, nelle collezioni Medicee (Mancini, I, p. 251; Bellori; Sandrart, 1675, p. 277).
I dipinti Verospi sono stati identificati nella Cacciata dei mercanti dal tempio (Libourne, Musée des beaux-arts) e nella Negazione di Pietro (Brunswick, Herzog Anton Ulrich Museum); quelli estensi, nella coppia di Bevitori (Modena, Galleria nazionale); mentre quelli per "l'Altezza di Toscana" pagati "300 o 400 scudi" sono stati riconosciuti nella Riunione di giocatori e nel Concerto (già Uffizi, parzialmente distrutti nel 1993), opere, queste ultime, che entrarono nelle collezioni granducali prima del giugno 1618 (Maccherini, p. 137). In questi dipinti, nella scelta dei soggetti e, soprattutto, nella materia pittorica, si manifesta un modo di interpretare il luminismo del Caravaggio "con qualche diligenza e freschezza maggiore" (Bellori) e "con certi suoi segreti di vernice, e colori ad olio impastati faceva le sue pitture, che riuscivano con gran freschezza, e davano gusto a tutti" (Baglione, p. 159), rendendole più eleganti e attenuandone così l'incalzante naturalismo.
"Quel Bartolomeo - scriveva Mancini nel giugno 1618 - è stimato maggior di Michelangelo [Merisi]" (Maccherini, p. 137). Affermazione che sottolinea lo straordinario successo raggiunto in quegli anni e il ruolo di "nuovo" Caravaggio che, con la maturità, il M. veniva assumendo. Il ritratto che se ne tratteggia contrasta con gli stereotipi della marginalità caravaggesca e ben si attaglia al ruolo di un artista ormai celebre: "È d'aspetto nobile, di costume buonissimo [(] e ritirato, ma però a certi tempi ama la conversatione" (Mancini, I, p. 252).
Nel settembre 1619, il giovanissimo Francesco Furini si trasferì a Roma per studiare "pitture e statue sotto la scuola del Manfredi, pittore di assaissimo credito" e rimase al suo seguito fino alla prematura scomparsa del maestro (Barsanti), rendendo palese il prestigio di cui ormai godeva, che si estendeva ad altri importanti centri artistici, come la Firenze di primo Seicento. Nel 1621 ricevette un pagamento a saldo per opere acquistate dalla corte fiorentina (Corti) e all'agosto dell'anno seguente risale l'ultima importante commissione documentata. In una lettera autografa inviata a Ferdinando Gonzaga si impegnava a eseguire quattro tele di cui non rimangono tracce, poiché probabilmente non ebbe il tempo di eseguirle (Tellini Perina, 1965, p. 503 n. 227; Morselli, B. M. and Pomarancio, 1987.
Se le commissioni private, i dipinti di galleria hanno avuto un peso preponderante nell'opera del M., va segnalato il tentativo della critica moderna di assegnargli anche commissioni pubbliche. L'unica che ha riscosso qualche consenso è la pala con la Incoronazione della Vergine con i ss. Giovanni Battista, Francesco e Maddalena (Leonessa, S. Pietro) attribuitagli da Pulini. Tale ampliamento del catalogo, accolto nella recente monografia di Hartje, non poggia, al momento, su alcun riscontro documentario.
Il Libro dei morti della parrocchia di S. Maria in Via al 12 dic. 1622 recita: "Morrì il signor Bartolomeo Manfredi pittore ricevuti li santi sacramenti et il suo cadavero fu sepellito in nostra Chiesa nella tomba ordinaria" (Parlato).
Tra le sue ultime opere si colloca l'Apparizione di Cristo alla Vergine (Cremona, Museo Ala Ponzone), dipinto forse rimasto nella bottega al momento del decesso (Merlo, 1987, p. 84) e che entrò molto presto nella collezione Giustiniani. La tela, a figure intere, per dimensioni e soggetto sembrerebbe destinata a una chiesa; la composizione rievoca la pala, di tema analogo, eseguita da Tiziano per la parrocchiale di Medole, dipinto che probabilmente il M. ebbe occasione di vedere da giovane. In questa sua opera tarda il M. propone una pittura severa e poco attraente, lasciando intravedere un possibile, nuovo e diverso orientamento stilistico.
Il suo lascito più significativo va ricercato nella costruzione di una scuola e nello straordinario contributo alla diffusione del caravaggismo in Italia e in Europa. I suoi allievi diretti sono stati individuati in Nicolas Tournier e nel mimetico Nicolas Régnier, la cui maniera non è sempre facilmente distinguibile rispetto a quella del maestro. Più complesso e meno lineare il rapporto con Valentin de Boulogne che, stando a Sandrart (1675), "seguì Caravaggio e il suo discepolo Manfredi" (p. 256), ma che poi offrì una elaborazione personale dell'eredità del Caravaggio. Nei Paesi Bassi sempre sulla scorta di Sandrart (p. 170) va ricordato almeno il nome di Gerhard Seghers, affiancato da quelli di D. Van Baburen, G. Van Honthorst e H. Terbrugghen.
Di certo la diffusione della sua maniera si lega allo straordinario interesse di collezionisti italiani e stranieri. Tra questi ultimi, è ancora Sandrart a ricordare l'interesse per la sua pittura in Francia e in Olanda; le sue opere sono presenti in prestigiose collezioni, come quella del duca di Buckingham e dell'arciduca Leopoldo Guglielmo. Ad Amsterdam, Sandrart ricorda la collezione di Balthasar Coymans, nella quale il M. era ben rappresentato, raccolta che ebbe una notevole importanza per l'affermazione del caravaggismo nei Paesi Bassi (Morselli, 1993).
Il lascito e la fama del M. si uniscono anche all'ambigua espressione "Manfrediana methodus", coniata dal traduttore di Sandrart (1683), Christian Rhodius, nel trasporre in latino l'espressione tedesca "Manfredi Manier", quest'ultima da interpretarsi come "maniera" nell'accezione più estesa del vocabolario in italiano. Rhodius ricorre alla parola "methodus" intesa con il significato più circoscritto di "via et ratio docendi et discendi". La "Manfredi Manier" è uno stile e un modo di dipingere connotato da composizioni a mezze figure a grandezza naturale, da soggetti di genere "bassi" (giocatori, zingare che predicono la sorte ecc.), realizzati "imitando il naturale con grandissima verità" (Sandrart, 1675, p. 277). La fattuale osservazione dell'arte del M., enucleata da Sandrart, si è poi sovrapposta al mimetico rapporto con la maniera del Caravaggio, più volte sottolineato dai biografi. Così, quando, nel Seicento avanzato, l'astro del M. cominciò a eclissarsi e molte sue opere furono assegnate a Michelangelo Merisi, la "Manfrediana methodus" è stata sempre più intesa come accostante vulgata della pittura del Caravaggio.
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