PASSEROTTI, Bartolomeo
PASSEROTTI (Passarotti), Bartolomeo. – Nacque a Bologna nel 1529, rinnovando nel nome quello del padre; fu battezzato il 28 giugno.
Gli anni della formazione sono oscuri: a ventidue anni era a Roma, dove di lui rimane traccia il 12 giugno 1551 nelle cronache giudiziarie per un litigio con un Agostino Gambara (Bertolotti, 1885, p. 41). Il fatto corrobora la notizia del primo biografo, Raffaello Borghini, che nel Riposo (1584) scrive di un soggiorno nell’Urbe, prima al seguito dell’architetto Iacopo Barozzi (il Vignola), poi presso il coetaneo Taddeo Zuccari, con il quale Passerotti avrebbe diviso per un certo tempo la casa. Negli anni romani Passerotti dovette dedicarsi al «gran studio nel disegno» (R. Borghini, Il Riposo, 1584, 1967, p. 566) e alle acqueforti: è recente la proposta di restituire a lui, almeno in parte, il taccuino di disegni dall’antico, già riferito a Baldassarre Peruzzi, che si conserva a Siena (Biblioteca degli Intronati, Mss., S.IV.7). Da tempo si collocano al periodo romano (Bohn, 1996, p. 4) le acqueforti, circa una ventina, derivate da modelli di Francesco Salviati, Pirro Ligorio, Luzio Romano e, soprattutto, Taddeo Zuccari.
La permanenza a Roma fu certamente intervallata da rientri nella città natale. Al 1552 dovrebbe risalire il matrimonio con Imperia Toselli, dal quale l’anno dopo nacque Tiburzio, il primo e più noto figlio dell’artista, e in seguito Passerotto e Aurelio (Gualandi, III, 1842, p. 179, dove è pubblicato in estratto il primo testamento dell’artista, rogato l’8 febbraio 1582 dal notaio Giovanni Maria Brunetti Seniore, non Enetti, com’è scritto per sbaglio), battezzati rispettivamente il 20 gennaio 1562 e il 6 agosto 1567 (Arfelli, 1959, p. 460 nota 18). Entrambi furono avviati alla carriera artistica, di cui riferisce qualche notizia Carlo Cesare Malvasia (1678, 1841, pp. 188 s.); su di loro ci sono pochi studi (per Passerotto: Ghirardi, 2000, pp. 90 s.; Ghirardi, 2006, pp. 342 s.; per Aurelio e il Libro di lavorieri [1591]: Campioni, 1995 e 2001).
Nel febbraio del 1582, alla data del primo testamento, Passerotti risulta avere già contratto il suo secondo matrimonio con Cornelia Ricci ed essere padre anche di Ventura, figlio naturale (battezzato il 18 maggio 1566, cfr. Arfelli, 1959, p. 460 n. 18), anche lui dedito alla pittura, ma «con poca lode» (Malvasia, 1678, 1841, p. 189), di Vincenza e di Antonia. Di un’altra figlia, di nome Diana, si trova notizia nel secondo testamento, rogato il 14 luglio 1590 dal notaio Tommaso Passarotti (Gualandi, IV, 1843, p. 160).
Dalla testimonianza presente nella Graticola (1560 circa) di Pietro Lamo, che lo chiama «bonisimo disegnatore e coloritore», si sa che verso il 1560 Passerotti si era sistemato a Bologna, dove aveva aperto, presso le due torri, un «bello studio di varie cose di pitura e di scultura. E fra l’altre belle cose v’è un quadro de una Madalena in deserto de man del Parmesanino, cosa rara» (P. Lamo, Graticola di Bologna, 1560 circa, 1996, pp. 58 s.). Del quadro, perduto, rimane probabilmente memoria in un disegno del Parmigianino a Napoli (Museo di Capodimonte, inv. 1356), utile a suggerire che la posa della Lucrezia (Bologna, Pinacoteca nazionale) di Passerotti – e delle due Maddalene di ambito passerottiano o copie – possa derivare dal quadro illustre, un tempo conservato nella raccolta del pittore bolognese (Ghirardi, 2006, pp. 145 s.).
La citazione di Lamo apre anche su un interessante aspetto della personalità dell’artista, quello di collezionista, che altre testimonianze suffragano. Risale al 9 settembre 1572 il documento che riferisce dell’invio di anticaglie (frammenti di statue di marmo e di bronzo, un vasetto) da Roma (Bertolotti, 1876, pp. 177 s.); spettano ad Amadi (1588, p. 154) e a Malvasia (1678, 1841, p. 188) attente descrizioni della raccolta di Passerotti, che, con il secondo testamento del 1590, era stata destinata in eredità al figlio Passerotto, ma che giunse invece nelle mani del figlio primogenito Tiburzio, al quale pare si debba l’ultima fase di ampliamento della collezione.
Il 7 marzo 1560 Passerotti fu aggregato alla Compagnia delle Quattro Arti (pittori, spadari, guainari, sellari), nella quale rivestì più volte la carica di massaro, dandosi anche molto da fare per promuovere il ruolo sociale dell’artista. La separazione dei pittori dalle Quattro Arti, avvenuta nel 1569, e la formazione della nuova Compagnia con i bombasari vanno intese all’interno del lungo processo di emancipazione degli artisti dalla condizione di artigiani e di acquisizione di uno status più alto.
L’attività pittorica documentata di Passerotti si avvia dal 1564-65 con la pala di S. Giacomo Maggiore, commissionata da Giulia Brigola. Destinata a una delle più prestigiose chiese di Bologna, la pala rivela un artista ormai padrone di un linguaggio autonomo, in debito verso la pittura nordica, le eleganze della maniera (la base del trono della Vergine con le sfingi e le ghirlande è un raffinato pezzo di oreficeria) e, soprattutto, verso le pale modenesi del Correggio, ora conservate a Dresda. Di un Passerotti copista della Madonna di San Sebastiano, allora a Modena, nella chiesa di S. Pietro Martire, si aveva notizia dagli scrittori ottocenteschi (Pungileoni, Campori); di recente si sono ritrovati due documenti, del 31 ottobre 1564 e del 13 gennaio 1565, che lo provano, ne danno la cronologia precisa e stabiliscono la strettissima contiguità tra l’esecuzione della copia da Correggio e quella della pala per S. Giacomo (Borsari, 2007, pp. 171-177).
Poco dopo si colloca il Gentiluomo con lettera (Marsiglia, Musée des beaux-arts), firmato e datato 10 gennaio 1566 – noto fin dai primi studi su Passerotti degli anni Trenta del secolo scorso (Venturi, Arslan, Bodmer, Porcella) –, eseguito nell’anno dell’insediamento in città del vescovo Gabriele Paleotti, che, con la sua azione pastorale e il suo famoso Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582), avrà grande importanza sulle vicende dell’arte. Appena successivo è il Ritratto virile con spada da parata (Rio de Janeiro, Museu nacional de belas artes), da tempo riferito a Passerotti (Marques, 1992, pp.120-125), ma appena accolto nel suo catalogo (Ghirardi, 2013, p. 43). Alla ritrattistica Passerotti si dedicò con impegno costante e con successo. Fu chiamato a ritrarre il Papa Pio V Ghislieri verso il 1566 (Baltimora, Walters Art Gallery) e il papa bolognese Gregorio XIII Boncompagni (Gotha, Museen der Stadt).
Quest’ultimo, secondo una lettera di Lorenzo Sabatini a Prospero Fontana, pubblicata da Malvasia (1678, 1841, p. 181), datata 7 marzo 1575, ma più correttamente da retrodatare al giugno 1573 (Zapperi, 1991, p. 188 n. 6), volle essere ritratto solo dallo stesso Sabatini e da Passerotti e per una sola volta, verso il 1572-73. Si tratta di un ritratto accompagnato da disegni e dalla stampa del 1572, anno dell’elezione al pontificato, inventata da Passerotti e incisa da Domenico Tibaldi (Ghirardi, 1989, pp. 125-130), forse voluta dal fratello minore del papa, il senatore Boncompagno Boncompagni, ritratto da Passerotti in un disegno, già erroneamente inteso come autoritratto, conservato a Chatsworth (Ghirardi, 2011, pp. 347 s.).
Passerotti ritrasse anche il Papa Sisto V Peretti (Bologna, Pinacoteca nazionale), verso il 1590, ispirandosi all’effigie del papa dipinta e incisa da Pietro Facchetti (Ghirardi, 2006, pp.157-159).
Ma sono gli studiosi, i musici, i collezionisti ad avere una speciale rilevanza nella ritrattistica di Passerotti. Nel Sertorio Sertori (Modena, Galleria Estense) del 1577 e nel Collezionista di Londra (Ambasciata d’Italia) – identificato con il celebre antiquario bolognese Ercole Basso (Missere Fontana, 1995, pp. 180-186, 191 s., 203) – si rispecchia la passione di Passerotti per le anticaglie. È rappresentato in procinto di fare lezione lo scienziato domenicano Ignazio Danti (Brest, Musée municipal) che, nei suoi Commentari (1583) al trattato del Vignola, scrive il più antico e sperticato elogio di Passerotti per la bravura nel disegno, esteso anche ai due figli Tiburzio e Passerotto. Tra Ignazio Danti, che fu docente nello Studio di Bologna per alcuni anni, tra il 1576 e il 1580, e Passerotti dovette correre un rapporto di reciproca stima, quasi di amicizia. Appartennero a padre Danti, che le conservava in un suo «libro di disegni», le «due teste l’una di Christo e l’altra della Vergine Maria in foglio imperiale finite in tutta perfettione con la penna», ricordate da Raffaello Borghini (Il Riposo, 1584, 1967, p. 566), ora separate ma originariamente tracciate da Passerotti sullo stesso foglio del formato di cm 50×74 (Ghirardi, 2007, pp. 113-130).
Nel Ritratto dei quattro fratelli Monaldini (Hopetoun House, Lord Linlithgow Collection), intenti alla musica e al canto, in compagnia del «ridicoloso cane» come scrive Malvasia (1678, 1841, p. 191) che ne fu il più antico proprietario finora noto, Passerotti sembra rileggere le riunioni cortesi affrescate da Niccolò dell’Abate in palazzo Poggi e aprire alle scene di soggetto popolare, sulle quali comincia a sperimentare in anni molto prossimi, intorno al 1577-78.
Chiamato a deporre al processo del 1574, in cui era imputato il suo scolaro Francesco Cavazzoni, Passerotti affermò di essere stato «a casa di un medico che stava nella Mascarella che io voleva vedere una notomia», rivelando così il suo interesse per l’anatomia, allora disciplina in emergente ascesa, di cui rimane traccia in molti suoi disegni, in tante pale d’altare, nel culto per Michelangelo (Ghirardi, 1990, pp. 39-46; Ghirardi, Il culto, 2004). Secondo la testimonianza di Borghini (1584, 1967, p. 566), Passerotti lavorava a «un libro di notomie, d’ossature e di carne», probabilmente una specie di manuale per gli artisti, perduto o, forse, mai concluso, di cui si è pensato che il foglio di Varsavia (Biblioteca universitaria, Collezione Reale, vol. 1113), con l’autoritratto dell’artista in veste di docente, potesse fungere da frontespizio.
Allo stesso 1574, in data 11 agosto, risale il documento che attesta la presenza di Passerotti a Firenze, dove fu testimone, insieme con Michelangelo di Baccio Bandinelli, in un atto notarile di accettazione di eredità da parte delle suore del convento fiorentino di S. Onofrio (Privitera, 1996, p. 68 n. 53). A Firenze Passerotti ebbe occasione di visitare lo Studiolo di Francesco I, da poco terminato, e ne trasse ispirazione per il Perseo e Andromeda (Torino, Galleria Sabauda) e il Doppio ritratto travestito come Circe e Ulisse (Bologna, Museo della storia di Bologna), entrambi del 1575 circa. Quadri in sintonia con le ricerche di Ulisse Aldrovandi, del quale si può sospettare un ritratto ideale nell’Ulisse armato della tela bolognese (Ghirardi, Aldrovandi, 2004, pp. 153 s.).
Del resto, tra il pittore e il naturalista correvano stretti rapporti, che si evidenziano nei disegni (si pensi almeno al ‘bestiario’ passerottiano, dove sono illustrati squali, aquile, coccodrilli, galli e cani) e in tanti ritratti: dal Botanico (Roma, Galleria Spada) al Gentiluomo che gioca col cane (Milano, Pinacoteca di Brera), per citare solo qualche esempio. Rapporti che trovano largo spazio nelle scene di mercato con la Macelleria e la Pescheria (entrambe a Roma, Galleria nazionale in palazzo Barberini), le Pollivendole (Firenze, Fondazione Roberto Longhi) e, ultima ritrovata (Benati, 2000, pp. 21 s.), la Pescheria, che completa in modo definitivo il cosiddetto ciclo Mattei, poi transitata sul mercato artistico svizzero (M. Natale, scheda 17 del catalogo di vendita del 25 settembre 2010 presso la Galleria Gloggner di Lucerna, pp. 16-21). La curiosità verso il mondo naturale, marino soprattutto, risente dell’illustrazione scientifica promossa da Aldrovandi e del suo collezionismo enciclopedico (Ghirardi, 1990, p. 67; Ghirardi, 2012b, p. 84), perseguito con inesauribile tenacia. Le quattro tele, di identiche dimensioni, facevano parte della collezione del marchese Ciriaco Mattei, che le aveva comprate il 22 aprile 1603, quando era anche committente del Caravaggio, dal cavalier Marc’Antonio Pietra (Cappelletti - Testa, 1994, p. 139 n. 36) e le conservava a Roma nella sua villa sul Celio. In un inventario, steso all’indomani della sua morte, in data 15 novembre 1614, se ne trova la prima descrizione: «Quattro quadri del Passarotto doi che rappresentano carne tagliate in pezzi et pesci, uccellami, tartaruche et gambari con figure d’huomini, et donne cioè doi per quattro, et in uno vi è un putto con la loro cornice» (Lanciani, 1907, p. 89).
Le scene della serie Mattei sono radicate a Bologna, dove nacquero verso il 1577-78, ma hanno orizzonti più ampi, di respiro europeo. Si alimentano sul modello dei mercati e delle cucine dipinti ad Anversa da Pieter Aertsen e Joachim Beuckelaer, aprendosi anche ad altri fatti della pittura ‘moralistica’ dei Paesi Bassi (Ghirardi, 2010, pp. 445 s.); si realizzano in parallelo con le analoghe sperimentazioni di Vincenzo Campi a Cremona, città con la quale Passerotti ebbe rapporti di lavoro documentati nell’estate 1577, quando fu coinvolto nell’inchiesta, avviata dai fabbricieri del duomo, intesa al completamento dell’Assunta, rimasta incompiuta alla morte di Bernardino Gatti (Sojaro) e alla quale è forse collegato il suo disegno con i Funerali della Vergine di Windsor (Ghirardi, 1995, pp. 287-290).
Diversamente dai quadri ‘di genere’ – com’è di solito chiamata in pittura la rappresentazione di soggetti bassi e feriali – dipinti da Vincenzo Campi per Kirchheim, quelli di Passerotti sono privi di date e di documentazione. L’indizio cronologico sul 1577 si ottiene dal confronto tra l’Allegra compagnia (Parigi, collezione P. Rosenberg) di Passerotti e il Martirio di S. Caterina (Bologna, chiesa di S. Giacomo Maggiore), firmato e datato 1577 da un esordiente Tiburzio Passerotti, dove compare in un carnefice accosciato, ferito dalle schegge in volo della ruota spezzata della santa, lo stesso tipo dell’ubriacone urlante dipinto dal padre Bartolomeo nell’Allegra Compagnia (Ghirardi, 1986a, p. 181).
Lo sfrontato quadro, strettamente contiguo al ciclo Mattei, dove compare il vecchio lussurioso nel ruolo del vecchio macellaio, fu descritto da Malvasia (1678, 1841, p. 191): «la caricatura di un bruttissim’uomo, che palpeggia le cinne ad una più mostruosa e stomachevole vecchia, sterminatamente dietro di essi a bocc’aperta gridando il rivale», che ne ricordò anche la fortuna in ambito bolognese presso artisti di diversa generazione. Ne trassero copie il vecchio Prospero Fontana e il giovane Agostino Carracci, all’epoca probabilmente nella bottega di Passerotti. E si è appena notato come, a distanza di tempo, ancora si possa ritrovare, in un dipinto del senese Francesco Vanni – talvolta ricordato per un suo giovanile soggiorno a Bologna, presso Passerotti – la ripresa del tipo del vecchio lussurioso dell’Allegra Compagnia (Ghirardi, in corso di stampa).
Dopo i quadri Mattei si collocano le Venditrici di ortaggi e di pollame (Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie), per un certo tempo considerate parte della serie, fino al ritrovamento della seconda Pescheria con il pescivendolo morso dal luccio, che venne a smentire la proposta. In anni ancora più tardi si attesta il quadro spesso intitolato l’Allevatore di cani (Roma, Galleria nazionale in palazzo Barberini), probabilmente da intendersi come la raffigurazione dei Cinque Sensi (Ghirardi, 1998-99, pp. 1-4), un’allusione che si ritrova anche nel Liutista (Modena, Banca popolare dell’Emilia-Romagna), rintracciato di recente (Benati, 2006, pp. 76 s.).
Con la produzione di ‘genere’ e la vitalità della formula ritrattistica Passerotti seppe affermare una personalità originale d’artista, cresciuto con gli insegnamenti della maniera tosco-romana, ma capace di aggiornare il suo linguaggio aprendo al colore dei veneti, alle acute osservazioni ottiche dei fiamminghi, alle notazioni naturalistiche. La stessa strada seguì nella pittura sacra, sebbene con minore coerenza, restando vincolato dalle convenzioni figurative della maniera, più urgenti nella pala d’altare. Sono lavori documentati la pala di Scanello del 1575, l’impegnativa Presentazione della Vergine al tempio (Bologna, Pinacoteca nazionale) del 1583-84, a lungo ritenuta l’ultimo quadro sicuramente datato di Passerotti, ora superato dalla ritrovata S. Caterina di Scandiano, firmata e datata 1588 (Mazza, 1991, pp. 70, 72; Mazza, 1999, pp. 184 s.).
Passerotti morì a Bologna il 3 giugno 1592 e fu sepolto nella chiesa di S. Martino. Un mese dopo, il 10 luglio 1592, i tre figli legittimi Tiburzio, Passerotto e Aurelio, suoi eredi, si spartirono la casa paterna (Gualandi, IV, 1843, p. 161).
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