SPATAFORA, Bartolomeo
– Nacque intorno al 1514. Secondogenito di Francesco e di Melchiorra Moncada, appartenne a un illustre casato messinese. Non si conosce il luogo di nascita.
Per lui si prospettò, sin dagli anni giovanili, la difficile vita del cadetto. Desideroso di ritagliarsi all’interno della famiglia uno spazio personale che gli consentisse di conseguire un’autonoma posizione economica e politica, venne avviato allo studio delle lettere latine e greche. La familiarità con la cultura classica si perfezionò anche attraverso la frequentazione di quegli ambienti umanistici vicini alla corte vicereale ove l’umanesimo cristiano si coniugava con il profetismo escatologico e con il desiderio di rinnovamento evangelico. In questo entourage si annoverano alcuni esponenti, come Antonio Minturno, precettore dei figli di Ettore Pignatelli, Mariano Accardo, il corrispondente netino di Erasmo da Rotterdam, Tommaso Bellorusso, protonotaro apostolico e appartenente alla Confraternita imperiale dei Sette Angeli, che unirono la ricerca dell’eleganza letteraria alle esigenze di approfondimento del sentimento religioso più autentico.
Un attento studio dei testi sacri traspare anche dai costanti riferimenti ai testi biblici disseminati nelle sue opere letterarie ed encomiastiche (Quattro orationi di M. Bartolomeo Spathafhora di Moncata, gentil’huomo venetiano. L’una in morte del serenissimo Marc’Antonio Trivisano. L’altra nella creazione del serenissimo Francesco Veniero principe di Venetia, et una in difesa della servitù. L’altra in difesa della discordia, pubblicate a cura di Giacomo Ruscelli a Venezia nel 1554), manifestazione inequivocabile di un travaglio spirituale che lo spinse a cercare nelle letture e nelle conversazioni colte risposte soddisfacenti ai dubbi in materia di religione.
Su di lui esercitò un forte ascendente la zia paterna, Bartolomea, badessa di un monastero cistercense cittadino, S. Maria dell’Alto, e sua guida nella ricerca di un modello di spiritualità. Le idee di Bartolomeo maturarono grazie ai contatti con la badessa e alle influenze di ambienti nei quali circolavano opere come le prediche di Bernardino Ochino, il Beneficio di Cristo e alcuni testi di Juan de Valdés.
Se la badessa svolse un ruolo determinante nella vita del nipote, questi ebbe un rapporto privilegiato anche con un altro fratello del padre, Giacomo. La benevolenza dello zio fu suggellata dal matrimonio, avvenuto il 22 dicembre 1541, con la figlia primogenita Violante. L’unione si rivelò assai utile per Bartolomeo e gli garantì l’aiuto economico del quale aveva bisogno. Al momento delle nozze, infatti, le sue condizioni finanziarie non erano floride, poiché, oltre alla vita militia, il padre gli aveva lasciato soltanto alcune abitazioni di modesto valore. Per questo Giacomo accolse con affetto i giovani sposi e dispose che abitassero nel suo palazzo. Da questa unione nacquero due figli: Pietro Paolo, il 28 giugno 1543, e, tra il 1544 e il 1546, Giacoma Melchiorra.
Dopo il matrimonio fu incaricato di assumere il disbrigo di pratiche e negozi legati alle vicende nelle quali si trovò coinvolta la famiglia. Tra il 1543 e il 1547, infatti, accaddero importanti avvenimenti. In quegli anni, la città di Messina sollevò eccezione di controprivilegio contro la concessione dell’esercizio della giurisdizione civile data a Francesco Spatafora, barone di Venetico, sulla terra di Rometta. Il 27 febbraio 1546 era stata emanata l’esecutoria imperiale del privilegio (imperiale) che confermava la giurisdizione agli Spatafora. L’universitas tuttavia continuò a opporsi. Fu così che venne deciso di inviare Bartolomeo a difendere le ragioni del casato presso l’imperatore che si trovava allora a Ratisbona. Il 16 marzo 1546 era ancora a Messina, dove appare come uno dei firmatari del contratto matrimoniale tra suo fratello Pietro e Laura, un’altra figlia di Giacomo. Frattanto a lui venne affidata un’ulteriore incombenza. La lunga lite per il recupero della baronia della Ferla aveva avuto conseguenze disastrose per il patrimonio dei suoi genitori e dunque, per evitare «la quasi totale destructio eorum», era intervenuta la zia. Il 9 maggio di quell’anno la badessa aveva concesso a Francesco e alla moglie un prestito di 100 onze che dovevano servire «in recuperatione» della baronia della Ferla. In effetti la lite si risolse, di lì a poco, con il matrimonio di Mattia, figlia di Francesco e quindi sorella di Bartolomeo, con il cugino di secondo grado, Girolamo Moncada, che era stato investito del feudo nel 1539, dopo la morte del padre. È probabile, dunque, che le 100 onze servissero anche a pagare un viaggio di Bartolomeo a Roma e a favorire il disbrigo delle pratiche necessarie per ottenere la dispensa pontificia per le nozze della sorella.
Recatosi a Ratisbona nell’estate del 1546 per compiervi la sua prima missione, dovette giungere a Roma nell’autunno dello stesso anno e lì, durante i mesi invernali, fu ospite di Vittoria Colonna. In quel periodo attorno alla gentildonna romana si raccoglievano dotti ecclesiastici, letterati, artisti e nobili che discutevano di arte e di problemi religiosi. Tali incontri esercitarono una forte influenza su Spatafora che conobbe allora Pietro Carnesecchi, Michelangelo Buonarroti, Marcantonio Flaminio e Girolamo Seripando. Vi era una sostanziale consonanza tra le posizioni dei circoli romani frequentati da Spatafora e la sensibilità religiosa che egli aveva maturato in patria. Nello stesso periodo entrò in contatto con il cardinale Reginald Pole, grazie alla mediazione di Giovanni Antonio Buglio, barone del Burgio, un siciliano che risiedeva nella città pontificia al servizio di Ottavio Farnese. La permanenza a Roma, dunque, gli consentì di intrecciare importanti amicizie anche sul piano politico. Fu allora che, per il suo tramite, gli Spatafora stabilirono rapporti diretti con i nipoti di Paolo III: Ottavio e il cardinale Alessandro.
Nel frattempo gravi nubi andavano addensandosi sul capo del messinese. Nel 1547 infatti venne colpito dall’accusa di eresia da parte dell’Inquisizione siciliana, dichiarato contumace e, scomunicato, subì la confisca dei beni. Alla fine del 1547, impossibilitato a tornare in patria, invocò l’intervento di Pole. Questi invitò il cardinale Cristoforo Madruzzo, vescovo-principe di Trento, a scrivere agli inquisitori dell’isola a favore di Spatafora. Ma l’istanza non giunse a buon fine. Frattanto, prima del dicembre del 1548, nonostante le proteste dell’inquisitore dell’isola, Paolo III aveva avocato a sé la causa affidandone l’esame a una commissione costituita dai cardinali Pole, Francesco Sfondrati e Marcello Cervini. In questo modo Spatafora ottenne un breve assolutorio che, in virtù dei poteri spettanti al viceré grazie all’Apostolica Legazia, non conobbe applicazione in Sicilia, dove il processo si concluse addirittura con la richiesta del rogo in effigie. Nella prospettiva di un lungo esilio, per Spatafora si rivelò di grande utilità lo zio-suocero Giacomo, console dei veneziani a Messina.
Il 26 gennaio 1549, l’esule inoltrò alla Repubblica veneziana la richiesta, in seguito accolta, di essere riconosciuto, a tutti gli effetti, come membro del Maggior Consiglio, in virtù del legame che univa da oltre un secolo gli esponenti del suo casato alla città lagunare. Il 3 luglio 1549 il viceré Juan de Vega scrisse a Carlo V lodando il buon zelo dell’inquisitore siciliano e mise in guardia il sovrano dai forti appoggi di cui Spatafora continuava a godere presso la Curia romana.
Per capire in quali circostanze maturarono l’accusa di eresia contro Bartolomeo e il rifiuto opposto dall’Inquisizione e dal viceré dell’isola all’assoluzione pontificia, è necessario considerare il caso del siciliano all’interno di un complesso equilibrio di forze che finirono per condizionarne pesantemente la vicenda umana. Nel gennaio del 1547, promulgato a Trento il decreto de iustificatione con il quale, per la prima volta, si dava una definizione dogmatica a questa controversa dottrina, le contrapposizioni religiose si irrigidivano ma soprattutto per Spatafora entravano in causa anche questioni di ordine politico. L’aspro scontro tra il papa e l’imperatore, culminato nell’assassinio di Pier Luigi Farnese, ebbe ripercussioni anche in Sicilia dove, nel maggio, era giunto come viceré Juan de Vega, già ambasciatore imperiale a Roma. Ancor prima, una eco sinistra aveva suscitato nell’isola la partecipazione di due membri della famiglia Spatafora alla congiura antimperiale dei Fieschi a Genova. In questo quadro, il viceré guardò con sospetto Bartolomeo, divenuto nel suo soggiorno romano familiare dei Farnese, e appartenente a un casato che, grazie alle nozze tra Mattia e Girolamo Moncada, aveva ulteriormente accresciuto la propria forza. La sola possibilità che una famiglia così potente a Messina partecipasse a trame contro la Spagna era un pericolo concreto e intollerabile. Del resto il viceré de Vega non aveva esitato a trattare con estrema durezza le sfere più alte della nobiltà siciliana. Gravi ragioni politiche militavano quindi contro Spatafora e minacciavano di travolgere l’intero casato. A questo punto toccò alla zia badessa scendere in campo. Una delle più importanti novità portate nell’isola era stata l’introduzione del nuovo Ordine dei gesuiti. Eleonora Osorio, moglie del viceré, infatti, intratteneva da tempo stretti contatti con Ignazio di Loyola e si impegnò a favorire la venuta dell’Ordine a Messina. Bartolomea capì subito quanto fosse importante stabilire buoni rapporti con la viceregina e, grazie a lei, entrò in contatto con Loyola. Il legame con il fondatore dell’Ordine le consentì di tentare la difesa del nipote salvando nel contempo alcune sue istanze di rinnovamento spirituale. Alla luce di ciò si spiega la lettera scritta il 14 aprile 1548 da Ignazio di Loyola a Gerolamo Domenech, padre spirituale del viceré e della sua famiglia, nella quale gli chiedeva di informarsi sulla situazione di Bartolomeo e ne perorava la causa di assoluzione. La posta in gioco era troppo alta e neanche Ignazio poté aiutare lo sfortunato Bartolomeo.
Nel 1553, ancora esule a Venezia, Spatafora inviò un nuovo lungo memoriale all’imperatore, ma solo nel 1555 de Vega accettò che il Supremo Consiglio della monarchia riesaminasse il suo caso e lo riabilitasse. Bartolomeo si fermò ancora un anno a Venezia, forse in attesa che la lenta burocrazia spagnola consentisse l’effettiva restituzione dei beni. Il ritardo fu sufficiente perché si trovasse nuovamente travolto dalle tempeste che continuavano ad agitare la vita politica e religiosa in Italia. Il 23 maggio 1555 era salito al trono pontificio Paolo IV ed era subito iniziata una severissima repressione. Nell’agosto del 1556 Spatafora fu arrestato a Venezia per ordine dell’Inquisizione romana questa volta, ricondotto a Roma e ivi rinchiuso nelle carceri di Ripetta. Quando però, nell’agosto del 1559, alla morte del pontefice, il popolo assalì le prigioni dell’Inquisizione e ne liberò i prigionieri, Bartolomeo si rifugiò presso Giulia Gonzaga a Napoli e vi rimase fino al novembre. Il 30 era a Scilla e da lì si preparò al ritorno a Messina. Nell’aprile del 1560 scrisse all’ambasciatore veneziano a Roma chiedendo, per sé e per il figlio, la conferma alla carica di console dei veneziani a Messina. L’anno dopo venne eletto giurato.
Non abbiamo notizie relative agli ultimi anni di vita, ma sappiamo che morì a Messina nel 1566, a pochi anni di distanza dalla zia, morta nel 1563, chiudendo così in Sicilia il tumultuoso trentennio che lo aveva visto direttamente coinvolto nella crisi religiosa del secolo.
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