DELLA TOSA, Baschiera
Nato a Firenze nella seconda metà del sec. XIII, apparteneva al ramo cadetto degli Anchioni ed era figlio di un noto e valoroso esponente della nobiltà guelfa, il cavaliere Bindo del Baschiera.
Il padre del D. si era distinto, infatti, in varie campagne militari: nel 1259 aveva comandato una guarnigione fiorentina in Maremma. Nel 1261 aveva partecipato alla difesa del castello di Fucecchio quando quest'ultimo era stato assediato invano per oltre un mese dai ghibellini toscani: nel corso dei combattimenti aveva riportato una ferita, in seguito alla quale aveva perduto un occhio. Nel 1277aveva guidato una spedizione antighibellina in Romagna. Cavaliere a Spron d'oro nella pace del cardinale Latino del 128° e capitano del Popolo a Bologna nel 1284, aveva trovato la morte in battaglia, a Campaldino, nel 1289.
Il D. eguagliò certamente la fama del padre quanto ad audacia e valore, ma non seppe unire all'ardimento analoghe capacità di uomo politico e di stratega. Tra il 1298 e il 1299 venne chiamato alla podesteria di Città di Castello: fu, questo, l'unico incarico pubblico di un certo rilievo che. egli ricoprì durante la sua pur lunga carriera. Non ebbe infatti molta fortuna nella sua città, anche perché si legò ben presto alla fazione destinata a soccombere, quella dei guelfi bianchi di Vieri Cerchi.
Varie sono le ipotesi avanzate per spiegare questa sua adesione alla parte bianca: secondo i cronisti dell'epoca, egli, assieme con i familiari Biligiardo e Baldo Della Tosa, si schierò con i bianchi in odio al più vecchio e scaltro parente Rosso Della Tosa, che assieme con Corso Donati capeggiava la parte nera. Secondo il Masi, invece, il suo legame con la fazione dei Cerchi sarebbe derivato dai suoi precedenti rapporti, troppo compromessi, con i ghibellini in Toscana: ma la prova addotta a sostegno di questa tesi - un atto di fideiussione del 1297 per un prestito di 100 fiorini d'oro contratto con l'usuraio Masino Manetti Alberti da un ghibellino pisano, il giudice di Gallura Ugolino di Giovanni (Archivio di Stato di Firenze, Notarile, C. 102, c. 10gr) - appare troppo labile: infatti, tra i numerosi Della Tosa che garantirono la restituzione di tale prestito, compare anche Arrigo del fu Gottifredo, fratello di Rosso e seguace dei neri. Più credibile appare, quindi, la testimonianza dei cronisti coevi secondo i quali il fatto che i Della Tosa avessero aderito chi all'una chi all'altra delle due fazioni si doveva piuttosto spiegare come una presa di posizione nei confronti dell'atteggiamento prevaricante di Rosso, che aveva sempre cercato di tenere lontani dai pubblici incarichi gli altri familiari ed in particolare il D., che egli considerava un temibile rivale ed al quale aveva usurpato anche legittimi diritti ereditari e di rango.
D'altra parte, nella discordia tra bianchi e neri, oltre alle note ragioni di carattere politicp, economico e sociale (il vecchio disaccordo tra guelfi "intransigenti" e guelfi "moderati" perpetuato nella nuova scissione; la concorrenza tra i banchieri fiorentini per accaparrarsi l'ambita clientela pontificia; l'odio tra i Donati, tipici esponenti del ceto magnatizio d'antica tradizione, e i Cerchi, esemplari rappresentanti della "gente nova dai sùbiti guadagni"), confluirono anche motivi di antagonismo e di rancore personale che inasprirono i contrasti e favorirono le divisioni anche all'interno di una stessa consorteria. Il caso dei Della Tosa, del resto, non rimase isolato, poiché molte altre grandi famiglie fiorentine si divisero tra le due fazioni.
La fase acuta delle ostilità tra gli opposti schieramenti ebbe inizio in occasione della festa di calendimaggio del 1300, quando un gruppo di giovani appartenenti alla famiglia dei Donati e alcuni loro seguaci assalirono improvvisamente alcuni membri della casa dei Cerchi che, assieme con altri amici tra i quali si trovava anche il D., stavano tranquillamente assistendo ad uno spettacolo. I sanguinosi incidenti, nel corso dei quali l'anziano Ricoverino Cerchi fu ferito sconciamente al volto, provocarono un clima di tensione che si protrasse per alcune settimane, costringendo il governo cittadino ad adottare sanzioni contro gli elementi più turbolenti delle parti in conflitto. I Priori delle arti, insediatisi il 15 giugno (tra i neoeletti vi era anche Dante), mandarono al confino, pur essendo di parte bianca, non solo i riottosi capi dei neri, cui fu riservato un trattamento più rigoroso, ma anche otto personaggi tra i rappresentativi del gruppo dei Cerchi: tra essi erano il D., Baldinaccio Adimari, Naldo Gherardini e il poeta Guido Cavalcanti. Il D., con gli altri confinati di parte bianca, poté comunque rientrare in città dopo un breve periodo di esilio a Sarzana.
Dal maggio del 1299 la parte bianca era al potere in Firenze, ma non riusciva ad approfittare della favorevole congiuntura per consolidare il proprio dominio, anche a causa dell'atteggiamento eccessivamente prudente dei Cerchi. Il fronte avversario, invece, aveva in Corso Donati, anche se allora in esilio, un capo intraprendente e deciso, e poteva contare anche sul consistente appoggio di Ronifacio VIII, il quale mirava ad impadronirsi di Firenze con il pretesto di far da paciere tra le fazioni in lotta. A questo scopo il pontefice inviò in città, subito dopo i disordini del maggio 1300, il cardinale Matteo d'Acquasparta, ma questi, dopo mesi di inutili tentativi volti a ottenere il rientro dei neri, dovette abbandonare Firenze, alla fine di settembre, non senza avere prima scomunicato il governo e lariciato l'interdetto su tutto il territorio fiorentino. Simili provvedimenti, per le conseguenze religiose e, soprattutto, economiche che essi implicavano, obbligarono i Fiorentini ad una politica più condiscendente nei confronti dei papa, dal quale si sperava di ottenere la revoca delle sanzioni. Assieme con le città alleate fu deciso di inviare perciò una ambasceria al papa.
Il D. fu chiamato a farne parte come rappresentante del Comune di Firenze. Bonifacio VIII concesse agli ambasciatori solenne udienza e l'11 novembre 1300 ricevette il D. e i suoi colleghi, mostrandosi, almeno all'apparenza, assai disponibile e giunse ad accordare una sospensione temporanea all'interdetto. In realtà il papa stava già trattando con Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo IV, in quegli stessi giorni, per organizzare una spedizione francese in Italia, che avrebbe dovuto avere come obiettivo principale Firenze e la Toscana.
I preparativi per la spedizione francese si protrassero per molti mesi: solo un anno più tardi, il 10 novembre 1301, il Valois arrivò a Firenze, entrandovi ufficialmente come "paciere generale in Toscana", di fatto per riportare al potere Corso Donati e i suoi. All'inizio i neri si mostrarono concilianti con gli avversari, manifestando - come fece anche Rosso Della Tosa nei confronti del D. - propositi di pace, ma ben presto, per sventare ogni reale possibilità di resistenza da parte dell'opposizione, preferirono passare all'azione armata. Alle violenze scatenate dalla fazione nera e dallo stesso Corso Donati, nel frattempo rientrato in città, i bianchi non seppero contrapporsi con altrettanta decisione.Solo il D. cercò di reagire con le armi agli avversari, ma, dopo un fallito attacco contro la casa di Rosso Della Tosa, suo odiato consorte, non poté proseguire nell'azione perché il contingente dei fanti di Romagna che pure era stato posto ai suoi ordini, per disposizione dei governo municipale gli venne sottratto per essere impiegato altrove. Grazie all'appoggio di Carlo di Valois, che aveva ricevuto i pieni poteri dal Comune, ma che si era rigorosamente astenuto dall'intervenire per sedare i tumulti provocati dalla parte nera, quest'ultima nel giro di pochi giorni riuscì ad impadronirsi del potere. A partire dal gennaio del 1302 si cominciò a colpire con l'esilio i principali esponenti bianchi.
Il 4 aprile il D., accusato insieme con altri esponenti della parte bianca di aver tramato contro la vita di Carlo di Valois, fu da quest'ultimo condannato ill'esilio ed alla confisca dei beni. Il giorno successivo, dal podestà di Firenze Cante Gabrielli fu per il medesimo motivo condannato a morte. Il D. dovette pertanto abbandonare nuovamente Firenze.
La vicenda in cui il D., Baldinaccio Adimari e Naldo Gherardini furono allora coinvolti non è tuttavia a tutt'oggi ben chiara né nella sua genesi, né nel suo sviluppo, né nelle sue implicazioni. Sembra infatti che i capi dei neri inducessero uno dei cavalieri al servizio di Carlo di Valois, Pierre Ferrand d'Alvernia, a mettersi in contatto con il D., con Baldinaccio Adimari, con Naldo Gherardini, tutti di parte bianca, offrendosi di collaborare con loro nel caso avessero voluto eliminare lo stesso "paciere generale". Il Ferrand in seguito, svelando un presunto complotto, sostenne invece che erano stati il D. e gli altri esponenti bianchi a rivolgersi a lui per indurlo a uccidere il principe francese. Come prova della congiura fu prodotto un documento dal quale risultava che in cambio dei suoi servizi il Ferrand avrebbe ricevuto diversi compensi ed onori, tra cui la signoria su Prato e due castelli della Lucchesia. Vero o falso che fosse, il documento, di cui esiste ancor oggi una copia (Archivio di Stato di Firenze, Capitoli, XLVI, cc. 188 s.), forni a Carlo di Valois un valido motivo per condannare all'esilio e alla confisca dei beni il D. e i principali'esponenti della parte bianca.
Si iniziò così, per il D., un lungo periodo di esilio, interrotto per breve tempo nella primavera-estate del 1304, quando poté tornare ancora una volta in Firenze, come rappresentante dei fuorusciti alla pace dei cardinale, Niccolò da Prato.
La scissione creatasi nel frattempo in seno alla parte guelfa, a causa della frattura avvenuta tra Corso Donati e Rosso Della Tosa, e l'ascesa al soglio pontificio (12 ott. 1303) di Benedetto XI, personalità, al contrario del predecessore, al di sopra delle parti, avevano fatto sperare in Firenze che si potesse giungere ad una riconciliazione generale, che sanasse anche le antiche piaghe provocate dalle lotte tra guelfi e ghibellini. A tale scopo il nuovo pontefice aveva inviato a Firenze un suo legato, il cardinale Niccolò da Prato, peraltro sospettato di aperte simpatie per la parte bianca e i ghibellini. Nonostante gli ostacoli frapposti dai neri alla sua azione pacificatrice, il cardinale legato riuscì a far accettare il suo piano, che prevedeva una serie di incontri fra due delegazioni, in rappresentanza dei fuorusciti di parte bianca e della fazione ghibellina l'una, della parte nera l'altra, che avrebbero dovuto elaborare e concludere un vero e proprio trattato di pace fra i gruppi avversari, ristabilendo così la concordia nella città.
Nella delegazione dei fuorusciti giunta a Firenze nel maggio del 1304 spiccava, come personaggio eminente, il D., che fu accolto al suo arrivo con molti onori e che a sua volta onorò "in parole e in vista" il vecchio parente e rivale Rosso Della Tosa. L'intolleranza sempre più scoperta dei neri e l'atteggiamento contraddittorio della famiglia Cavalcanti che, pur essendo favorevole alla pace, si rifiutò di cedere ai dodici rappresentanti dei fuorusciti le proprie case, considerate una più sicura difesa contro, possibili attacchi avversari, fecero precipitare la situazione. L'8 giugno il D. e gli altri delegati ritennero più opportuno abbandonare di nuovo la città, mentre la parte nera scatenava una nuova ondata di feroci violenze.
Per i misfatti commessi in quell'occasione, CorsoDonati, Rosso Della Tosa e gli altri capi neri furono citati da Benedetto XI a comparire al suo cospetto a Perugia, per essere processati. Anche se il processo non si poté tenere per l'improvvisa morte del pontefice il 7 luglio 1304, il D. e gli altri fuorusciti decisero di approfittare dell'assenza dei principali esponenti neri, che si erano recati a Perugia accompagnati da una forte scorta, per tentare un colpo di mano su Firenze e riprendere il potere. L'iniziativa sembrava nascere sotto i migliori auspici, poiché si valeva anche dell'appoggio del cardinale da Prato, che aveva procurato ai Fiorentini in esilio il sostegno di potenti città come Bologna, Arezzo, Pistoia e Pisa. La mancanza di coordinamento tra gli attaccanti e una serie di errori compromisero però l'esito dell'impresa. Lo stesso D., che in quella circostanza fungeva da comandante della spedizione, contribuì personalmente al suo fallimento. Il 19 luglio i fuorusciti, assieme con le truppe inviate da Bologna e da Arezzo, avevano iniziato le operazioni e si erano accampati infatti a La Lastra, sulle colline a nord della città. Invece di attendere i rinforzi pistoiesi e portare così da tutte le direzioni un attacco congiunto contro Firenze il D., per guadagnarsi il merito della vittoria, volle assalire la città, il giorno dopo, anche se con un numero non adeguato di armati e durante le ore più calde della giornata. Superata la sorpresa iniziale, i guelfi neri riuscirono a riorganizzare le proprie truppe e a ricacciare gli assalitori ben presto sfibrati dalla calura estiva. Costretto a ritirarsi, il D. si fermò, durante il ripiegamento, nel monastero di S. Domenico di Cafaggio, da dove fece uscire due sue ricche nipoti che portò con sé. Con tale gesto intendeva impedire che il loro cospicuo patrimonio cadesse in possesso del convento.
L'insuccesso del tentativo della Lastra costò al D. altri lunghi anni di esilio. Soltanto nel 1308, quando fu eletto imperatore Arrigo VII, in lui cominciò a riaccendersi la speranza d'un vittorioso ritorno nella sua città. Con ogni probabilità nel 1310, non appena Arrigo VII fu sceso ìn Italia, il D. si affrettò a recarsi presso di lui per rendergli omaggio e mettersi al suo servizio. Già poco tempo dopo, infatti, egli appare ricoprire un grado importante alla corte del sovrano lussemburghese. Anche per questi motivi fu compreso nella "riformagione di Baldo d'Aguglione", così detta dal nome del priore che ne fu il principale estensore, la lista di circa millecinquecento personalità - ghibellini e, comunque sotto questo nome, anche guelfi bianchi responsabili di precisi atti di ostilità contro Firenze, come il D., appunto, e Dante Alighieri - che furono escluse dal provvedimento di amnistia varato il 2 sett. 1311 dal Comune di Firenze in favore dei fuorusciti di parte bianca.
L'anno seguente, comunque, il D. si trovava di nuovo davanti alle mura di Firenze, nell'accampamento imperiale presso San Salvi, come dignitario di corte e cavaliere dell'esercito di Arrigo VII. Dopo l'assedio, protrattosi inutilmente dal 19 settembre alla fine di ottobre 1312, il D. rimase al seguito dell'imperatore e nel marzo del 1313, per avere partecipato alla sfortunata impresa contro la sua città, fu condannato ancora dal Comune di Firenze come ribelle e traditore della patria e della Parte guelfa. Negli stessi giorni presenziò alla sentenza di condanna pronunziata da Arrigo VII contro i Fiorentini e i Toscani che si erano ribellati all'autorità imperiale. Solo molti anni più tardi, forse prima del 1321, il D. venne finalmente liberato dalla condanna a morte che gravava su di lui fin dal 1302 e gli fu consentito di tornare nella sua città, dove morì nel 1323.
Ebbe almeno un figlio, di nome Francesco, che nel 1341 vendette la casa del padre al cronista Simone Della Tosa. Al padre del D., o ad un suo omonimo antenato, era intitolata una delle piccole porte della seconda cerchia di mura (fine sec. XII), detta appunto "postierla del Baschiera" e posta all'incrocio delle attuali via Panzani e via del Giglio.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Notarile, Giovanni Cantapochi, C.102, c. 109r; Ibid., Capitoli, XLIV, cc. 188-189; Ibid., Capitani di parte, numeri rossi, 20, cc. 16r, 146r, 157v; S. Della Tosa, Annali, in Cronichette antiche di vari scrittori...,a cura di D.M. Manni, Firenze 1733, pp. 160, 169; P. Pieri, Cronica delle cose d'Italia dall'anno1050 all'anno 1305, Roma 1755, pp. 11, 79; D. Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, in Rer. Ital. Script., 2 ed., IX, 2, a cura di I. Del Lungo, ad Ind.; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, ibid., XXX, 1, a cura di N. Rodolico, pp. 80, 83, 86; S. Della Tosa, Annali, in Cronichette antiche di vari scrittori..., a cura di D. M. Manni, Firenze 1733, pp. 160, 169; P. Pieri, Cronica delle cose d'Italia dall'anno 1050 all'anno 1305, Roma 1755, pp. 71, 79; G. Villani, Cronica, a cura di A. Racheli, Trieste 1857, pp. 183 s., 187; Cronichetta inedita della prima metà del secolo XIV, in P. Santini, Quesiti e ricerche di storiografia fiorentina, Firenze 1903, p. 124; Consigli della Repubblica fiorentina, a cura di B. Barbadoro, I, Bologna 1921, p. 70; G. Lami, S. Ecclesiae Florentinae monumenta, I,Florentiae 1758, p. 131; Delizie degli eruditi toscani, X (1778), pp. 86, gi, 99, 109;XI (1778), pp. 71, 87, 137;I. Del Lungo, Dell'esilio di Dante, Firenze 1881, p. 134;G. Richa, Notizie istor. delle chiese fiorent., VII,Firenze 1758, p. 109;I.Del Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, Firenze 1879-1880, ad Indicem; R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, III, Berlin 1901, p. 285;IV, ibid. 1908, p. 571;G. Masi, I banchieri fiorent. nella vita politica della città sulla fine del Dugento, in Archivio giuridico, CV (1931), p. 11; R. Davidsohn, Storia di Firenze, IV,Firenze 1960, ad Indicem; VII, ibid. 1965, p.86; Ghibellini, guelfi e popolo grasso..., Firenze 1978, pp. 317, 320 n, .