BASE
(dal gr. βάσις "appoggio, sostegno"; fr. base; sp. base; ted. Basis, Unterlage; ingl. base). -
Architettura. - È una delle tre parti in cui viene distinta la colonna - capitello, fusto, base - e precisamente la parte sottostante al fusto; appoggia o direttamente sul terreno, o sul piedistallo o sullo stilobate, quando l'ordine è dotato anche di questa parte basamentale. Non sempre questo terzo elemento della colonna è stato ritenuto assolutamente necessario; esso manca nelle colonne del più tipico fra gli ordini greci, il dorico, ove il fusto poggia direttamente sul basamento, senza alcuna modanatura di raccordo; negli altri ordini però, ove la rastremazione del fusto non è forte come nel dorico greco, la base, allargando l'appoggio della colonna, ne favorisce la solidità reale e apparente; quando manca il piedistallo, garantisce la parte inferiore del fusto dal logorio dovuto alle acque scorrenti sul suolo, dall'urto dei passanti, ecc.; inoltre il vario gioco delle ombre sulle modanature circolari - listelli, tondini, scozie - dà alla colonna un'eleganza che si armonizza con quella caratteristica e particolare a essa donata superiormente dal capitello.
Nelle colonne egiziane spesso esiste una base, ma in forma appena embrionale; simile cioè a un disco da cui la colonna si diparte con la caratteristica e anticostruttiva contrazione iniziale.
Nel periodo greco la base, come si è detto, manca sistematicamente nell'ordine dorico, o vi appare soltanto in epoca tarda per eccezione. In Roma stessa e nei suoi dintorni fino all'epoca augustea si alternano gli esempî di ordini dorici senza base, come nel Tabularium e nel Teatro di Marcello, e di ordini con base embrionale come nel tempio di Ercole a Cori (di età sillana).
Invece l'ordine ionico greco ha costantemente avuto la base, e forse allo spirito logico dei Greci ciò è sembrato adatto alla proporzione sottile delle colonne, alla loro piccola entasi, al capitello di notevole sporgenza. Tutti gli elementi di questa, pur semplice, parte della colonna, sono stati da essi tracciati con quell'insuperabile finezza di ricerca estetica che animava ogni linea e ogni profilo dei loro monumenti. ll plinto talvolta appare, talvolta no in queste basi ioniche. Sembra che fosse frequente nei primi periodi, come si può vedere negli esempî arcaici della Licia; nel sec. V è quasi costantemente soppresso, sicché, per esempio, nei più noti capolavori (come il tempio della Vittoria senz'ali, l'Eretteo, il tempio sull'Ilisso) il toro inferiore si appoggia direttamente sul pavimento con la sua pianta rotonda; si ritrova nuovamente nel periodo alessandrino, per esempio nei templi di Priene e di Mileto, nel quale ultimo caso l'architetto ha creduto opportuno smussarne l'angolo, incomodo e soggetto a spezzarsi, trasformando la pianta del plinto in un ottagono.
Il tipo e l'apparecchio delle basi più antiche, come quella di una delle colonne votive di Delfi, rispondono all'idea di un disco sporgente posto sotto il fusto; poi lo schema s'ingentilisce e si fraziona, ma costantemente rimane nella base greca il carattere della netta suddivisione in due parti, una inferiore avente l'aspetto e la sostanza di un robusto supporto, una superiore, collegata costruttivamente al fusto della colonna, che s'appoggia sulla inferiore con un'accentuata rientranza. Nonostante la tipica organicità dell'architettura greca, non mancano i casi, come ai Propilei d'Atene, in cui tale suddivisione è falsa e solo il listello d'imoscapo, e non tutta la parte superiore della base, si fa d'un sol pezzo col fusto: soluzione di evidente vantaggio economico ma non priva d'inconvenienti materiali oltre che estetici, per la fragilità del sottile listello e per la conseguente necessità d'isolarlo allargando esternamente la commessura.
Tra le tante modalità delle sagome di basi greche due principali si differenziano: l'una è quella che, come nell'Ereo di Samo, riduce la parte inferiore suddetta a una semplice scozia; la seconda invece vi pone un toro e una scozia suddivisi da listelli o da altre minori membrature, e tutta la base assume il tipo, che si suole chiamare "base attica", di due tori separati dalla scozia. Né mancano schemi accessorî, come quello della doppia scozia, di cui ci forniscono esempî i templi di Atena Poliade in Priene, e di Apollo in Mileto; e svariatissimi sono gli elementi ornamentali, come quelli delle scanalature orizzontali che seguono e intaccano le superficie curve, ovvero delle trecce sottili, quali appaiono nel mirabile esempio dell'Eretteo; e infine talvolta la base diviene elemento corrente e continuo, come nello zoccolo del portico delle cariatidi all'Eretteo, o, per ciò che riguarda la parte inferiore, nella cosiddetta Lanterna di Lisicrate, opera che appartiene all'ordine corinzio, considerato al tempo greco come una semplice variante dello ionico.
L'architettura etrusca, che presenta un così singolare innesto di forme elleniche sul tronco indigeno, ha talvolta basi rudimentali che s'avvicinano al semplice disco (tomba dei capitelli a Cere), talvolta basi più complesse che spesso, come nella tomba dell'alcova a Cere, nel tempio dello Scasato a Civita-Castellana, e soprattutto nella mirabile ara del genius loci al Palatino, seguono lo schema (a partire dall'alto) di un listello, un toro od ovolo e un plinto. Per il che non inopportunamente il Vignola ha denominato "toscana" una siffatta base. Questa prosegue a svilupparsi in molti monumenti dell'architettura romana, o nella forma semplice, come nella Colonna Traiana e nell'atrio dei pilastri a Villa Adriana, che ci mostra uno dei più istruttivi esempî del ritorno e della rifioritura di elementi arcaici; ovvero con innesti di altre membrature e specialmente di gole diritte, come nel dorico del Colosseo e nelle basi di piedistalli o di plutei, o di urne, come nel sarcofago di Cornelio Scipione Barbato, negli stilobati degli archi trionfali di Susa e di Ancona.
Ma il tipo di base senza confronti più usato nell'architettura romana, insieme col costante prevalere dell'ordine corinzio, o nella forma normale o nella variante del composito, è stato quello della base attica semplice o doppia: semplice negli esempî del tempio della Fortuna Primigenia a Palestrina, dei templi della Fortuna Virile e di Marte Ultore, dell'arco di Settimio Severo in Roma, della Biblioteca d'Adriano in Atene; doppia nel Pantheon, nel tempio di Saturno, nell'Arco di Tito in Roma; nel quale ultimo esempio è interessante notare il prolungarsi della base per tutto l'arco, in ricorrenza con quella delle colonne.
Tale base attica romana ha ormai perduto le caratteristiche di quella greca, consistenti nell'accentuata suddivisione in due parti e nella frequente abolizione del plinto, ed ha anche, come tutte le cornici a partire dal periodo ellenistico, perduto quello di una libera composizione di sagome elementari, tracciate con profili ideati dall'artista e segnati a mano; è, nel caso della base attica semplice, una successione, al disotto dell'ampio listello d'imoscapo della colonna, di un toro, di una scozia, di un secondo toro e di un plinto con due listelli minori separanti le superficie curve, le quali sono regolarmente geometriche e quasi sempre composte d'archi di cerchio. La geometria e le proporzioni costanti si sono sostituite allo studio diretto del particolare, mentre ciò che interessa l'architettura romana è lo studio dell'insieme, della grande composizione spaziale; ove vuole raggiungere un effetto di novità e di ricchezza anche nella composizione decorativa si affida all'ornato intagliato con vera sovrabbondanza di frastagliamento e di rilievo. Non mancano difatti le basi in cui ogni membratura è adorna di fogliami di trecce, di suddivisioni geometriche; e l'esempio più noto e più bello è quello dell'interno del tempio della Concordia in Roma. La base, naturalmente, mantiene sempre le sue modanature e le sue proporzioni anche passando dalla colonna al pilastro.
Nei periodi precursori del Rinascimento (nel Medioevo toscano e romano) e dal Quattrocento in poi, queste forme romane ritornano per le basi senza novità essenziali, come del resto ritornano per tutti gli elementi degli ordini, ove si eccettuino i capitelli in cui spesso vive uno spirito nuovo. Il lavoro di studio dei trattatisti interviene a catalogarle e a tradurle in formule stabili. Così, mentre Vitruvio (IV, 4) pur descrivendo varî tipi di basi non li assegna a determinati ordini, il Serlio, il Palladio, lo Scamozzi e specialmente il Vignola ci definiscono basi tipiche per ciascun ordine. Il Vignola passa dalla semplice base già descritta per l'ordine toscano a una di poco più complessa per il dorico; per l'ordine ionico propone o la base attica semplice o quella doppia, mutilata però del toro inferiore; per il corinzio e il composito la completa base attica doppia; a tutte assegna un'altezza di un modulo (cioè la metà del diametro della colonna) e una larghezza del plinto non molto diversa dai moduli 2 + 2/3. (Per la più completa trattazione sulle teorie vignolesche e per le relative illustrazioni, vedi: ordine architettonico).
Dopo queste determinazioni teoriche nulla più di notevole si può dire della base, considerata come organo di secondaria importanza, da copiarsi senza mai una ricerca originale pur nel periodo barocco così pieno di vita, così anelante al nuovo e al vario in ogni manifestazione.
Quanto agli altri periodi, agli altri stili all'infuori dei classici, e alle grandissime varietà che si possono noverare per le basi e, più genericamente, per gli appoggi del sostegno isolato, ecco qualche esempio e qualche dato. Nelle colonne dei palazzi babilonesi o persiani, la base, alta, complessa, adorna, ha quasi il carattere di un capitello a corolla aperta, rovesciato. L'India passa dalle alte basi sagomate di Ellora e di Mandura, a quelle panciute del tempio ipogeo di Karli, a quelle enormi e informi, ma finemente ornate a intaglio come un avorio, che si ammirano nel tempio di Mount Abu.
Nelle architetture cinese e giapponese, in rispondenza alla diretta stilizzazione delle costruzioni di legname, le basi o mancano o sono sostituite da grossi dadi. Anche nelle architetture musulmane esistono varî tipi: talvolta la base è sagomata, come nelle colonne dell'Alhambra; talvolta è costituita, come nella moschea del sultano Ḥasan e in numerosi altri monumenti del Cairo, da un alto bulbo che si restringe a un diametro notevolmente minore di quello della colonna, per poi raccordarsi secondo lo schema alveolare allo zoccolo parallelepipedo; talvolta infine, come nella moschea di Cordova, manca completamente.
Interessante è da notare quali profonde radici abbia mantenuto il tipo della base attica nelle architetture europee del Medioevo. Lo stile bizantino l'adotta quasi costantemente, pur deformandola con l'allungarla e con l'attondarne le sagome. L'applica anche il romanico, che solo tende a rialzarla da terra e a farla portare da un supporto, che talvolta ha il carattere di un alto zoccolo semplice e liscio, talvolta è simile a una seconda base sagomata, talaltra è costituito, come nei portali di chiese lombarde (a Modena, Piacenza, Verona) o di chiese pugliesi (a Bari, Ruvo, Bitonto) o di provenzali (ad Arles), da figure di animali, ordinariamente leoni; una forma comune alle maestranze lombarde e forse da esse diffusa nei paesi renani, è quella della foglia protezionale angolare, disposta nel triangolo mistilineo formato dal toro e dai lati dello zoccolo quadrato.
Va notato però che nell'età di mezzo si perdette molto spesso il senso delle proporzioni della base (come del resto delle altre parti della colonna) e parecchie basi antiche furono rimesse in opera in pittoresco disordine e disuguaglianza (così in molte chiese romane: S. Maria d'Aracoeli, S. Maria in Trastevere, ecc.).
Nell'architettura gotica ritorna il criterio di proporzione, pure in disposizioni spesso molto complesse. In Italia dove essa non è che diretta continuazione, con lievi aggiunte più formali che sostanziali, della romanica, la base varia di poco dal tipo della base attica allungata e quasi sempre rialzata su di un alto supporto, talora congiunta col basamento in modo da costituire una serie multipla di zone orizzontali, talora innestata a larghi piani inclinati, talaltra adattata alle forme delle pilastrate composte o dei pilastri ottagoni. Ma nel gotico francese o tedesco e nei pochi monumenti italiani che direttamente vi si riannodano, come la chiesa superiore di S. Francesco d'Assisi, quando pur lo schema è quello della base attica, il profilo è tutto deformato dalle rigide linee geometriche a spigoli acuti; e nella fitta composizione molteplice delle pilastrate le sporgenze variamente s'incontrano, e la maggiore importanza è assunta dall'alto zoccolo, in cui alle rientranze corrispondono raccordi secondo piani inclinati. Anche la base, così, invece d'essere un solido elemento orizzontale di appoggio e di ripartizione di pesi, seconda il carattere verticale dell'edificio e partecipa, fin dal nascere dei pilastri, dello slancio verso l'alto che continuerà nelle nervature delle grandi crociere. Gli stessi elementi tradizionali sono dunque volti a una funzione completamente diversa. (V. tav. LXIV).
Nelle opere moderne il senso di semplificazione che spesso, pur nell'enorme confusione di tentativi e di tendenze, le ispira, ha portato talvolta a sopprimere nelle colonne le basi e i capitelli. Non è qui il caso di giudicare direttamente quanto queste atrofizzazioni siano felici; circa l'opportunità di conservare certi elementi nell'architettura moderna, v. colonna.
Chimica. - Il gruppo di sostanze che venne primitivamente riunito sotto il nome di alcali, in contrapposto a quello di acido, traeva la sua origine dalle ceneri di piante.
R. Boyle definì gli alcali come sostanze che: 1. possiedono proplietà detersive e saponacee; 2. sciolgono olî e zolfo; 3. ripristinano il colore delle sostanze vegetali arrossate dagli acidi; 4. reagiscono con gli acidi per dare sostanze indifferenti.
Il concetto connesso alla parola "base", è in relazione generica con il termine alcali, e nel 1744 G. F. Rouelle impiegò la parola base per indicare qualunque sostanza che si unisce con un acido per dare un sale e che dà al sale una forma concreta o solida. La parola base voleva originariamente esprimere il concetto che il metallo (o l'ossido metallico) era il costituente fondamentale, la base, di un sale; naturalmente tale concetto ha perduto il suo valore quando si è visto che il costituente acido di un sale non è meno importante del costituente basico.
In prima approssimazione si potrebbero definire basi le sostanze che reagendo con un acido producono un sale e acqua: p. es.: l'ossido di zinco reagisce con l'acido solforico per dare solfato di zinco e acqua: ZnO + H2SO4 = ZnSO4 + H2O, e così l'idrato sodico: 2NaOH + H2SO4 = Na2SO4 + 2H2O.
Di regola le basi comprendono gli ossidi e gl'idrossidi metallici; ma sono chiamate basi anche certi aggruppamenti di elementi che formano sali con gli acidi per addizione o combinazione diretta: p. es.: ammoniaca NH3, idrossilammina NH2OH, fosfina PH3. Così, ammoniaca ed acido cloridrico gassoso formano cloruro ammonico: NH3 + HCl = NH4Cl. Però si ammette che in soluzione acquosa l'ammoniaca formi idrato ammonico NH4OH, il quale si comporterebbe secondo la regola anzidetta:
È bene notare che i due termini alcali e base non sono ritenuti sinonimi, poiché tutti gli alcali sono basi, ma non tutte le basi sono alcali. Gli ossidi alcalini dànno origine ad idrossidi solubilissimi con accentuate proprietà basiche (es: idrato di potassio); gli ossidi alcalino-terrosi dànno idrossidi poco solubili, con proprietà basiche meno marcate; gli altri ossidi di regola non reagiscono direttamente con l'acqua e gl'idrati vengono ottenuti indirettamente. Tali fatti possono riunirsi nel seguente schema:
Gli ossidi basici potrebbero anche chiamarsi anidridi basiche, ma comunemente il termine anidride viene riservato agli ossidi acidi, mentre si chiamano idrossidi o idrati le combinazioni delle anidridi basiche con l'acqua:
Dal punto di vista della teoria della dissociazione elettrolitica, un acido viene definito dal fatto che in soluzione acquosa fornisce ioni idrogeno; una base viene invece definita come una sostanza che disciolta in acqua fornisce ioni ossidrile OH′. Le proprietà basiche sono dunque dovute allo ione OH′, e l'acidità di una base è data dal numero di ioni OH′ che si ottiene per dissociazione completa di una molecola di base:
intendendo per peso equivalente la quantità di base che satura 1 gr.-equivalente (36,47 gr.) di acido cloridrico. Tale acidità si può anche determinare per mezzo di metodi chimico-fisici studiando i fenomeni di neutralizzazione o di spostamento, analogamente a quanto è stato detto per gli acidi.
La forza o energia di una base dipende dal grado di dissociazione, e questo può essere determinato dalla conducibilità elettrica; in soluzioni equivalenti le basi, come gli acidi, differiscono molto riguardo alla loro energia, e i seguenti numeri rappresentano la forza relativa di alcune basi in soluzione N/40, nell'ipotesi che la forza della base sia proporzionale alla conducibilità elettrica:
Come già è stato detto a proposito degli acidi, la misura della forza o energia di una base è rappresentata dalla costante di dissociazione. La tabella qui riportata riguarda le basi più comuni.
Dopo quanto è stato detto a proposito degli acidi, vi è qui poco da aggiungere riguardo alla determinazione della concentrazione degli ioni ossidrili in una soluzione; è bene però mettere in rilievo che gli esteri degli acidi alifatici vengono, dagli ioni ossidrili, scissi cataliticamente in sale ed alcool. Ad es. si ha:
e quindi gli ioni ossidrili spariscono man mano dalla soluzione, permettendo di seguire la reazione a mezzo della titolazione volumetrica, od anche di misure di conducibilità elettrica.
L'alcalinità di una soluzione si può distinguere, analogamente quanto si è detto per l'acidità, in attuale e totale, intendendo per alcalinità attuale o reale quella dovuta agli ioni OH′ presenti nella soluzione, e per alcalinità totale quella determinata dalla totalità degli ioni ossidrili, siano essi liberi, o siano combinati in molecole indissociate. Tale alcalinità viene ad essere determinata dal valore del PH, come è stato detto per gli acidi.
Teoria del Werner sulla costituzione delle basi. - Estendendo il fatto stabilito dal Pfeiffer, che gl'idrati dei metalli pesanti sono combinazioni che dànno sali per un processo di addizione e non per sostituzione, A. Werner riguarda allo stesso modo in generale tutti gl'idrati metallici con gruppi ossidrili legati direttamente al metallo, e quindi anche gli idrati alcalini ed alcalino-terrosi. La reazione alcalina, che mostrano in soluzione acquosa numerosi idrati metallici, non proviene dal fatto che gl'idrati si scindono in ioni metallici e in ioni ossidrili, ma dall'addizione di ioni idrogeno dell'acqua per parte del gruppo ossidrile dell'idrato (che rimane unito al metallo), e dalla consecutiva rottura dell'equilibrio di dissociazione dell'acqua, per cui rimangono liberi ioni ossidrili.
Gli idrati metallici MeOH stanno quindi ai prodotti risultanti dall'addizione di acqua [MeOH2]OH (i cui ioni sono [MeOH2]+ e (OH) ), come l'ammoniaca sta all'idrato di ammonio [NH4]OH, ecc.
Analogamente a quanto si è detto per gli acidi si ha dunque che: ogni combinazione che con acqua dà un idrato e in soluzione acquosa si dissocia in un ione positivo complesso e in ioni ossidrili, viene chiamata anidrobase, e l'idrato aquobase, o semplicemente base.
Rimarrebbe da risolvere la questione se l'addizione di acqua avviene in uno dei due modi seguenti:
Il Werner esclude la prima ipotesi, e quindi si ha la definizione: anidrobasi sono combinazioni, che in soluzione acquosa legano gli ioni idrogeno dell'acqua, e spostano quindi l'equilibrio di dissociazione dell'acqua fino a che questo non abbia assunto un valore caratteristico.
La forza di un'aquobase verrebbe definita dal seguente equilibrio tra aquobase e idrato metallico:
e poiché è da ammettere che l'aquobase sia, in soluzione acquosa, notevolmente dissociata nei suoi ioni, la forza della basicità dell'aquobase considerata dipende dall'ammontare della scissione idrolitica dell'aquobase, e precisamente tanto è più piccola l'idrolisi, tanto più forte è la base.
All'equilibrio, l'ammontare della scissione idrolitica, cioè della parte di aquobase o anche del suo ione complesso [MeOH2]+ dipende però dalla concentrazione degli ioni idrogeno dell'acqua e dall'affinità dell'anidrobase MeOH verso gli ioni idrogeno. E poiché la concentrazione degli ioni idrogeno dell'acqua è piccolissima, si possono formare quantità apprezzabili dell'aquobase, elettroliticamente dissociata, soltanto quando l'affinità dell'anidrobase per gli ioni idrogeno è relativamente grande.
L'idrato metallico in soluzione acquosa reagirà tanto più alcalino quanto più è grande la sua affinità per gli ioni idrogeno.
Bibl.: v. acido.
Linguistica. - In linguistica il termine base è adoperato come sinonimo di radice (v.), e ritenuto da alcuni più proprio perché meglio di radice si adatterebbe alla forma tanto monosillabica (*bher "portare") quanto bisillabica (*pelē "riempire") dell'elemento morfologico fondamentale della parola indoeuropea.
Metrica. - Per gli antichi scrittori di cose metriche il termine "base" fu l'equivalente dell'altro "tesi", ossia indicò la parte forte del piede, quella percossa dall'ictus; essi adoperarono poi la parola base anche a significare una dipodia nella quale un piede funzionasse in certo modo da parte forte rispetto all'altro. I moderni trattatisti invece, seguendo le orme di Goffredo Hermann, diedero il nome di base al primo piede di alcuni metri usati principalmente dai poeti eolici, piede bisillabo il quale può presentare le forme di un giambo, di un trocheo, di uno spondeo o di un pirrichio (⌣-, -⌣, --, ⌣⌣). In Anacreonte, nei poeti melici corali e nei drammatici, la base presenta, accanto alle altre, anche la forma del tribraco (⌣⌣⌣). Quando la recitazione si sostituì al canto, questa libertà di forme cessò, e la base si fissò nella forma dello spondeo come si ritrova in Orazio. La base è dai varî trattatisti diversamente interpretata, intendendola alcuni come una specie di più lunga anacrusi (v.), mentre altri la incorporano nel verso e la considerano come il vero primo piede di esso.
Bibl.: F. Zambaldi, Metrica greca e latina, Torino 1882, pp. 57, 109, 135 segg.; H. Gleditsch, Metrik der Griechen und Römer, 3ª ed., Monaco 1901, pp. 84, 92, 122, 202, 291 seg.
Matematica. - Nelle scienze matematiche la parola base si usa in varî sensi. In geometria piana si designa con questo nome quel lato di un triangolo isoscele, che non è uguale agli altri due; e, più in generale, si dice spesso base di un qualsivoglia triangolo uno qualsiasi dei suoi lati, in quanto il triangolo si pensa situato in un piano verticale, in modo che abbia codesto lato orizzontale e il vertice opposto al disopra di esso. Similmente di un rettangolo o di un parallelogramma si chiama base un lato qualsiasi, soprattutto in contrapposto alla rispettiva altezza (distanza di codesto lato dall'opposto); e in ogni caso si chiamano basi di un trapezio i due lati paralleli. In geometria solida, sempre in relazione ad un'ipotetica posizione particolare della figura, si chiama base di un tetraedro o di un parallelepipedo una faccia qualsiasi. Per i prismi e cilindri finiti si dicono basi le faccie (piane e parallele) che li limitano entro i corrispondenti prismi o cilindri indefiniti; e, analogamente, base di una piramide o di un cono finito è la faccia (piana) opposta al vertice.
In algebra si dice base di una potenza αn il numero α; e il nome si estende al caso della corrispondente funzione esponenziale y = αx e del rispettivo logaritmo x = loga y.
E significati speciali diversi assume la parola base in varie teorie più elevate (sistemi di numerazione, corpi algebrici e ideali, sistemi lineari e moduli di forme algebriche, ecc.).