BASILIANI
L'espressione ordo sancti Basilii indica convenzionalmente le comunità monastiche italo-greche dell'Italia meridionale e della Sicilia e pare derivi da un inciso dell'ultimo cap. della Regola di s. Benedetto relativo alla "Regula sancti Patris nostri Basilii" (SC, CLXXXII, 1972, p. 672). È peraltro a partire dall'età di Innocenzo III (1198-1216) che essa compare con frequenza crescente nei documenti, in specie nelle bolle pontificie, tanto da far ipotizzare che si tratti di una denominazione creata dalla curia romana per i monasteri di rito greco dell'Italia meridionale e della Sicilia (Enzensberger, 1973). Ma in ogni caso, anche se la definizione è tarda, il monachesimo italo-greco ha origini ben più antiche.Per il periodo fra la prima e la seconda conquista bizantina dell'Italia meridionale si hanno scarse informazioni sulle fondazioni monastiche italo-greche. Appare meglio documentata la situazione nella Sicilia nordorientale a partire soprattutto dalla metà del sec. 7°; il monaco greco Zosimo, per es., egumeno del monastero di S. Lucia a Siracusa, divenne vescovo della città (642-649), riproponendo in tal modo la figura del monaco-vescovo peculiare dell'Oriente cristiano. È in questo periodo che si registra inoltre, a causa delle invasioni persiana e araba, un'intensa immigrazione di siropalestinesi ed egiziani, fra cui Massimo il Confessore al tempo del suddetto Zosimo. Anche durante il periodo arabo la situazione appare solo di poco meglio documentata in quest'area, dove era prevalente la popolazione greco-cristiana (Falkenhausen, 1983); ma di questa prima fase del monachesimo bizantino in Sicilia non rimangono - a quanto risulta - testimonianze artistiche.A seguito delle invasioni arabe della Sicilia, nel sec. 9° e soprattutto nel 10°, si registra un movimento migratorio di monaci italo-greci dalla Sicilia verso la Calabria e la Lucania e i Bíoi, le vite di questi santi monaci, siciliani e calabresi soprattutto, forniscono preziose notizie sia sul piano storicosociale - si pensi alla vita di s. Nilo di Rossano (Falkenhausen, 1986) - sia sui modelli di vita monastica attestati in quest'area. L'età d'oro, a tutti i livelli, del monachesimo italo-greco si pone dunque fra i secc. 9° e 10°, in sincronia con la c.d. seconda colonizzazione greca dell'Italia meridionale, almeno per quanto riguarda Calabria e Lucania, mentre per ciò che riguarda la Sicilia araba le notizie sono più rare.Diversa è la situazione in campo monumentale, dove le testimonianze artistiche più significative sono da mettere in relazione ai Normanni, i quali, per motivi anche di politica religiosa, non solo non latinizzarono le fondazioni monastiche bizantine - la c.d. Rekatholisierung infatti interessò le sedi vescovili -, ma promossero al contrario la fondazione di quelli che sono considerati i monasteri italo-greci più importanti dell'Italia meridionale e della Sicilia. Per il periodo fra i secc. 9° e 11°, dunque, si hanno numerose notizie sulle fondazioni monastiche bizantine dell'Italia meridionale - a eccezione della Puglia - ma, ancora una volta, le testimonianze artistiche relative alla loro ubicazione, dedicazione e committenza sono assai scarse. È noto, per es., che all'attività di s. Fantino (m. a Tessalonica verso il Mille), maestro di s. Nilo di Rossano ed egumeno di un monastero del Mercurion, si lega la fondazione di numerosi monasteri (Follieri, 1969). Non è dunque casuale che l'immagine più antica del santo monaco (sec. 11°) sia stata recentemente individuata in un piccolo edificio di culto a Scalea in Calabria, forse dedicato a s. Nicola, che rappresentava lo sbocco sul mare del Mercurion (Falla Castelfranchi, 1985; 1989). Alcuni dei monasteri ricordati in queste vite costituirono inoltre il nucleo di quelli ricostruiti su ben più vasta scala fra i secc. 11° e 12° e in parte ancora esistenti, come per es. l'euktípion dei Ss. Adriano e Natalia presso San Demetrio Corone, dove si stabilirono s. Nilo e s. Vitale da Castronuovo. Sicuramente essi ebbero modeste dimensioni, a giudicare dalla loro connotazione nelle fonti, e spesso gli stessi monaci ne furono i costruttori. Ciò è confermato, del resto, dai rari esempi di edilizia religiosa superstiti in Calabria, soprattutto del sec. 10°: la chiesa di S. Marco a Rossano, con cupola, quella analoga presso San Luca, oggi in gran parte distrutta, e gli edifici a pianta basilicale di S. Giovannello a Gerace e di S. Nicola (già 'dello Spedale') a Scalea, tutti edifici di modeste dimensioni. In Calabria vanno anche ricordati il monastero fondato dal siciliano s. Luca di Demenna (m. nel 975) e quello dei Ss. Elia e Anastasio di Carbone, noto anche per il suo attivo scriptorium. In Sicilia, per il periodo prenormanno è celebre il monastero di S. Filippo di Agira presso Enna (Borsari, 1988), ricordato in testi agiografici del sec. 10°, dove iniziarono la loro vita ascetica alcuni santi monaci dell'Italia meridionale: Cristoforo da Collesano e i suoi figli, Saba e Macario, Luca di Demenna e Vitale da Castronuovo (Da Costa-Louillet, 1959-1960).Come il monachesimo bizantino, anche quello italo-greco conobbe ogni tipo di esperienza monastica, illuminato in questa sua complessa realtà dalle vite dei santi (Pertusi, 1974; Morini, 1977).Una significativa analogia con il mondo orientale in relazione alle grotte esicastiche dell'Italia meridionale si coglie nell'ideologia della grotta - quale emerge dalle opere di Gregorio di Nissa (Daniélou, 1964) -, che ritorna in alcune vite di santi italo-greci. Il culto delle sacre grotte palestinesi favorì in quell'area la nascita degli eremitaggi e il moltiplicarsi dei monasteri rupestri, come si riscontra per es. nella vita di s. Elia lo Speleota, nativo di Reggio e vissuto fra i secc. 9° e 10° (AASS, Septembris III, 1750, pp. 848-888: 863-865). A Cosma è demandata la sistemazione dello spílaion, il cui ingresso principale è a oriente; poetica è la descrizione della luce solare che entra a dar vita all'anfratto facendo fuggire i demoni che, secondo un antico tópos, l'avevano eletta a loro dimora. Ritorna così l'allegoria cristiana della caverna cara ai Padri della Chiesa. I monasteri in rupe sembrano dunque presentare nell'Italia meridionale singolari affinità con la situazione palestinese: affinità forse non proprio singolari se si pensa alle strette relazioni che si colgono fra queste aree anche in campo liturgico, dove è notevole l'influenza della liturgia siro-palestinese su quella italo-greca (Jacob, 1974). La realtà dei monasteri rupestri in Italia meridionale va però ridimensionata, particolarmente per ciò che attiene alla situazione in Puglia, dove la maggior parte delle cripte affrescate superstiti andrebbe piuttosto ricondotta a una committenza e a una liturgia eminentemente private, con funzioni spesso di sepoltura (Falla Castelfranchi, 1985; 1989). Diversa è la situazione della Sicilia e della regione calabro-lucana, terre dove il monachesimo bizantino fioriva da tempo in ogni sua forma.Differente è poi il livello di istruzione dei monaci italo-greci: più colti sembrano i calabresi rispetto ai siciliani (Cavallo, 1982; Falkenhausen, 1983) e, del resto, dopo l'invasione araba della Sicilia, la Calabria ereditò il ruolo di cardine della cultura greca già svolto dall'isola. In Calabria risultano attivi, sempre per ciò che riguarda l'età prenormanna, numerosi scriptoria monastici e ancora una volta preziose indicazioni in merito vengono assicurate dalle vite dei santi monaci locali. Lo stesso Nilo di Rossano fu maestro di calligrafia e alla sua attività si devono numerose opere di contenuto ascetico, dogmatico, agiografico (Follieri, 1983). Fra le scritture peculiari dell'ambito italo-greco in quest'arco di tempo compare proprio la c.d. niliana, che prende appunto il nome dal santo (Perria, 1989). Alcuni codici superstiti provenienti da quest'area, databili fra i secc. 10° e 11°, testimoniano dell'attività degli scriptoria monastici italo-greci prima della conquista normanna. L'esemplare datato più antico risulta un codice con le Omelie di Gregorio Nazianzieno (Patmos, monastero di S. Giovanni, bibl., 33), trascritto a Reggio dal monaco Nicola e dal 'figlio spirituale' Daniele nel 941 in minuscola antica oblunga (Grabar, 1972; Cavallo, 1982), che presenta alcune affinità con l'affresco della cattedrale di Rossano rappresentante l'Odighítria, prodotto della 'grecità calabrese', databile anch'esso al sec. 10° (Falla Castelfranchi, 1989). Se questa produzione presenta connotazioni codicologiche e grafiche che ne svelano l'origine italo-greca, così è anche per la decorazione, che accoglie talvolta influenze beneventane e arabe. Le iniziali, in particolare, presentano forme specifiche, soprattutto in età prenormanna; in seguito, infatti, a partire dalla fine del sec. 11°, in linea generale la produzione si allinea allo stile di Costantinopoli, anche per ciò che concerne la decorazione (Leroy, 1983).Se questo patrimonio scritto è dovuto soprattutto all'attività dei monaci, si tratta di un caso in cui la committenza non svolge un ruolo determinante; a parte il contenuto, la sua peculiarità infatti è, anche nella decorazione, quella del librotipo di area italo-greca e non solo degli ambienti culturali monastici locali.Un capitolo interessante nella storia di questi monasteri appare quello relativo ai loro tesori, che ne riflettono la ricchezza. Da questo punto di vista molto significativo risulta l'inventario del tesoro del monastero di S. Nicola in Gallocanta presso Vietri, del 1058, conservato nell'Arch. dell'abbazia di Cava de' Tirreni (Vitolo, 1982). Esso si riferisce a un piccolo monastero longobardo retto da un monaco greco, mentre il tesoro probabilmente apparteneva a un importante monastero calabrese. Nell'elenco compaiono patene, calici, croci, turiboli, un'icona musiva, undici icone d'oro provenienti da Costantinopoli, un'altra dorata e tempestata di gemme e altre ancora (Falkenhausen, 1978). La menzione dell'icona musiva appare particolarmente rilevante per la sua precocità. Nello stesso periodo una grande icona del Salvatore è ricordata nel Brébion di Reggio, un documento greco del 1050 circa.Una svolta decisiva fu impressa al monachesimo italo-greco dalla potenza normanna. Archiviate ormai le tesi critiche relative a un atteggiamento sostanzialmente antigreco dei Normanni, emerge piuttosto che essi furono interessati soprattutto alla latinizzazione delle sedi vescovili. L'atteggiamento verso i monasteri bizantini fu non solo tollerante - la popolazione del resto era greca e così i monaci -, ma gli stessi Normanni appoggiarono e promossero fondazioni e rifondazioni di monasteri greci su ampia scala, mentre i monasteri minori, quando non furono assorbiti dalle abbazie benedettine, vennero sottoposti a un'abbazia madre. Ai diciotto monasteri ricordati nelle fonti d'epoca normanna in Puglia si contrappone una situazione ben più fiorente in Calabria e Sicilia, regioni più profondamente grecizzate, fra 11° e 12° secolo. All'ordito normanno si collega la fondazione dei monasteri italo-greci storici, come, in Puglia, S. Nicola di Casole presso Otranto, fondato da Boemondo d'Altavilla nel 1098-1099, mentre per S. Maria di Cerrate, menzionata nelle fonti a partire dal 1133, non è provata sullo scorcio del sec. 12° la committenza di Tancredi, conte di Lecce. In Calabria, i Normanni appaiono legati alla fondazione dei più noti monasteri bizantini di questo periodo, come il Patírion - fondato presso Rossano verso il 1105 da Bartolomeo di Simeri - di cui furono i benefattori.In questo periodo la vita di ciascun monastero è rigidamente regolata dal proprio typikón (Pertusi, 1974): così è per il monastero del Salvatore, il cui typikón fu stilato dallo stesso Luca sul modello di quello dato da Bartolomeo di Simeri per il Patírion agli inizi del sec. 12° (Arrantz, 1969).Il periodo più fulgido coincide dunque con l'età normanna e i rapporti fra Sicilia e Calabria in particolare sono assai stretti. Se inizialmente, nella fase 'eroica' del monachesimo greco, furono i monaci greci di Sicilia a spostarsi verso la vicina Calabria a causa dell'invasione araba, in questa seconda fase i monaci calabresi si trasferirono in Sicilia per volere di Ruggero II, a vivificare con la loro cultura la sopita grecità isolana (Falkenhausen, 1978).
Se per il periodo prenormanno i numerosi piccoli monasteri in rupe o subdiali che costellavano il paesaggio dell'Italia meridionale sembrano esistere solo nelle fonti, le nuove fondazioni escono dai libri e dalle grotte e acquisiscono via via monumentalità, quasi a voler rivaleggiare con le grandi abbazie benedettine fondate dai Normanni e con le loro cattedrali. Muta così l'immagine stessa del monachesimo bizantino in Italia meridionale, attirato in una spirale politico-religiosa, come testimonia anche la creazione di monasteri urbani. E nel contempo si assiste, per ciò che attiene specificatamente all'edilizia monastica bizantina, a una compenetrazione di forme locali e d'oltralpe con elementi orientali, per es. la cupola. Tranne rare eccezioni, la struttura muraria sembra svolgere un ruolo determinante, costituendo quasi la sigla, il sigillo della grecità dell'edificio di culto rispetto alle fondazioni latine. In Calabria e in Sicilia infatti i più importanti monasteri italo-greci sono costruiti nella maggior parte dei casi in opera laterizia oppure con una tecnica mista, a imitazione di quella c.d. cloisonnée, peculiare dell'architettura mediobizantina, di contro al concio ben squadrato caratteristico - sia pure con qualche eccezione - delle cattedrali e delle abbazie benedettine di fondazione normanna. In questo settore, alla Calabria va il merito di aver sperimentato schemi e moduli architettonici complessi, subito accolti in Sicilia.Sostanzialmente sono due i modelli architettonici attestati in Calabria e Sicilia, fra la fine del sec. 11° e il 12°, nell'edilizia monastica bizantina. Lo schema a T, a navata unica con presbiterio cupolato fortemente aggettante e di origine transalpina, variamente articolato, qualifica in Calabria la chiesa monastica di S. Giovanni Theristi (fine sec. 11°-inizi 12°) e un gruppo di edifici monastici siciliani.D'altra parte, un gruppo di chiese monastiche bizantine siciliane e calabresi adottò la pianta basilicale a tre navate desinenti in altrettante absidi - spesso con una o più cupole diversamente distribuite - attestata in Calabria già nella prima metà del sec. 11° nella cattedrale di Santa Severina, almeno per l'impianto di base. Si pensi, sempre in Calabria, alle chiese monastiche di S. Adriano a San Demetrio Corone, del Patírion, di S. Maria di Tridetti e S. Maria di Terreti, la datazione delle quali - con l'eccezione del Patírion - oscilla di qualche decennio. Anche S. Giovanni Vecchio ha creato non pochi problemi per la tipologia della struttura muraria impiegata nei muri perimetrali, diversa rispetto a quella del transetto, e si è discusso a lungo sulla possibilità di legare questi due tipi di muratura ad altrettante fasi costruttive (Bozzoni, 1974). La scoperta recente di affreschi di tipo bizantino, di alta qualità, all'esterno della parete perimetrale meridionale rimette però in discussione i termini della questione, poiché tale muratura non era a vista (Falla Castelfranchi, 1985), suggerendo una probabile contemporaneità delle due diverse tessiture.Sembra dunque, alla luce di questi dati, che non si possa parlare in Calabria, come in Sicilia, di architettura basiliana legata cioè al mondo monastico italo-greco, con sue proprie specificità tra 11° e 12° secolo. Gli schemi adottati riflettono infatti la variegata realtà di queste regioni: non si tratta cioè di formule connesse esclusivamente all'edilizia monastica di ambito bizantino, come fu per es. il caso della tipologia atonita a triconco preceduto dalla líte, divenuto in seguito sinonimo della chiesa monastica in alcune regioni dell'impero bizantino. In aggiunta alla liturgia, l'elemento discriminante rispetto all'edilizia religiosa latina, almeno per la maggior parte dei casi, rimane la struttura muraria. Le dimensioni stesse delle chiese monastiche italo-greche, di solito piuttosto ridotte, appaiono come una peculiarità di questa edilizia rispetto ai monasteri benedettini e soprattutto alle grandi cattedrali normanne.Contemporaneamente in Puglia, e in particolare nel Salento, le due abbazie storiche di quest'area, S. Nicola di Casole e S. Maria di Cerrate, adottano schemi e tipologie del Romanico pugliese e né il loro involucro esterno, né l'articolazione interna ne svelano la grecità.
Per quanto riguarda la scultura, un caso interessante è costituito da un gruppo di opere coagulate tra il SS. Salvatore in lingua Phari di Messina e il monastero del Patírion presso Rossano, che fanno capo alla committenza di Luca, archimandrita prima del Patírion, e poi del SS. Salvatore, dove fu trasferito per volere di Ruggero II. Risolto il problema della sua scomparsa, la vasca battesimale del Patírion - sottratta alla fine del secolo scorso e oggi al Metropolitan Mus. di New York (Castelnuovo Tedesco, 1985; Zinzi, 1985) - con la gemella del SS. Salvatore (Messina, Mus. Regionale) potrebbe ricondursi, come pure altri pezzi conservati a Messina, all'opera di Gandolfo - ricordato infatti nella vasca del SS. Salvatore - e della sua bottega (Zinzi, 1985). Sia la conca messinese sia quella del Patírion presentano significative iscrizioni che svelano la committenza di Luca e la rispettiva collocazione cronologica, nel 1135 la prima, nel 1137 la seconda, nella quale è menzionato Ruggero II. Gandolfo è chiaramente un artista occidentale, che integra sapientemente fra loro un tipo di decorazione di gusto mediobizantino - nastri piatti bisolcati, che si intrecciano e si concludono con gigli, pigne e palmette intorno a una croce di Malta - con quattro potenti teste di profeti che aggettano dalla superficie della conca, dalla stessa desueta forma a calice di quella del Patírion (Zinzi, 1985). Ad ambedue le vasche si salda sia il sarcofago di Luca (m. nel 1149) sia un ulteriore pezzo di vasca battesimale (erroneamente ritenuto di forma diversa), datato da Agnello (1965-1966) al sec. 7° e presentante sull'orlo un'iscrizione greca inedita, entrambi nel Mus. Regionale di Messina (Zinzi, 1985). L'analisi del sarcofago di Luca contiene indicazioni interessanti poiché, al pari della conca del SS. Salvatore, si tratta di un pezzo riutilizzato - un sarcofago paleocristiano in parte riscalpellato - anziché confezionato ex novo come comunemente si ritiene (Zinzi, 1985).I legami fra il Patírion e il SS. Salvatore di Messina, attraverso le figure di Bartolomeo di Simeri e di Luca, emergono anche dal typikón messinese, ove si parla delle reliquie dei 'grandi santi' che adornavano la chiesa, alcune delle quali provenivano dal Patírion, che Bartolomeo aveva in parte riportato da Costantinopoli insieme con libri e icone, mentre altre erano state donate, per ambedue i monasteri, da laici ed ecclesiastici (Mercati, 1939).Per rimanere nel campo della scultura, va segnalato un gruppo di stucchi rinvenuto in Sicilia e in Calabria, alcuni dei quali pertinenti a chiese monastiche italo-greche.Se i frammenti della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo di Itàla non consentono, a causa del loro stato di conservazione, approfondite indagini (Barsanti, 1989), i pezzi di S. Maria di Terreti e di S. Nicolò di Calamizzi in Calabria riflettono la pluralità di vettori culturali compresenti in queste regioni durante l'età normanna, i cui modelli sono in parte da individuarsi nelle stoffe di origine sasanide (Gabrieli, Scerrato, 1979) - in ispecie le rotae con animali affrontati -, ma soprattutto in quelle prodotte nell'ergastérion reale di Palermo. Dallo stucco questi motivi passano talvolta a opere di materiale diverso: è il caso del motivo a stella entro rombi che costruisce e decora le colonne di stucco di S. Nicolò di Calamizzi e di S. Maria di Terreti. Esso si ritrova nelle colonnine di pietra, erratiche, oggi conservate nella chiesa del SS. Rosario di Calanna (Minuto, Venoso, 1985), per le quali si potrebbe ipotizzare una provenienza dal monastero italo-greco di S. Giovanni di Castaneto, dato che, a partire dalla fine del sec. 15°, i beni di questo monastero furono affidati a una chiesa di Calanna, sito presso cui sorgeva il monastero (Adorisio, 1980).Anche in Puglia la situazione relativa ai monasteri italo-greci, il cui numero è più esiguo rispetto alla Calabria e alla Sicilia, permette di escludere che si possa parlare di arte basiliana in ispecie particolare per ciò che attiene all'architettura e alla scultura. I più importanti monasteri bizantini del Salento, come S. Maria di Cerrate, furono costruiti nelle forme del Romanico pugliese e anche la scultura architettonica è di ambito locale. Così è pure per i monasteri minori, come S. Mauro e il SS. Salvatore presso Gallipoli, di limitate dimensioni, a tre navate divise da pilastri e unica abside, coperti da una volta a botte nella navata centrale e da semibotti rampanti in quelle laterali, tipologia attestata nella regione.Circa la decorazione pittorica, la pittura di orizzonte bizantino è l'unica attestata in quest'area più o meno per tutto l'arco del Medioevo, in relazione alla decorazione sia dei monasteri italo-greci sia, benché la documentazione appaia più rarefatta, delle cattedrali latine (per es. lo straordinario ciclo di S. Maria di Anglona, in Basilicata). Solo a partire dalla metà ca. del sec. 13° e comunque, inizialmente, in modo episodico, segni diversi affiorano nel campo della pittura monumentale in contesti sia rupestri sia subdiali, come testimonia la decorazione della cripta di S. Margherita presso Melfi, in Basilicata, e quella nella volta a botte della chiesa di S. Maria della Croce a Casaranello, in Salento, legate alla Napoli angioina, diventata via via il polo di attrazione della cultura artistica dell'Italia meridionale.Se si registrano differenze sul piano dei programmi iconografici - e la decorazione delle absidi è significativa, poiché difficilmente vi può comparire, nell'abside di una chiesa episcopale, la Déesis o l'Ascensione, come nella chiesa monastica di S. Maria di Cerrate (Falla Castelfranchi, 1985) -, su un piano più squisitamente stilistico non sembra esistere un tipo di pittura che possa definirsi monastica sotto il profilo formale. Ciò emerge fin dalle testimonianze più antiche, relative ai secc. 10° e 11°, in Calabria (Falla Castelfranchi, 1985; 1989), nella Sicilia orientale (Messina, 1983) e in Salento (Falla Castelfranchi, 1989), anche se nella maggior parte dei casi non si conosce la destinazione dell'edificio che le ospita. Per la chiesa di S. Nicola a Scalea, nella Calabria settentrionale, la presenza in una nicchia della parete absidale dell'immagine di s. Fantino monaco, maestro di s. Nilo di Rossano, di cui rimane ben conservato anche il nome in lettere greche (Falla Castelfranchi, 1985; 1989), può autorizzare l'ipotesi che possa trattarsi di un piccolo monastero italo-greco urbano. In quanto alla Cattolica di Stilo, essa era probabilmente la cattedrale della città, mentre scarne notizie si hanno sulla funzione del S. Marco e della Panaghía di Rossano, che ospitano resti di affreschi di tipo bizantino. Così anche per la maggior parte delle chiese rupestri pugliesi, tra cui risaltano, per la complessità del programma iconografico, la decorazione della chiesa rupestre di S. Biagio presso San Vito dei Normanni, datata al 1196 da un'iscrizione in greco che menziona tra gli altri l'egumeno Benedetto, e quella di S. Simeone a Famosa nell'agro di Massafra, del 13° secolo. Tenendo poi presente che i programmi si sono conservati solo parzialmente, per la Puglia non è possibile mettere a confronto quelli concepiti per le chiese monastiche italo-greche con quelli delle cattedrali, ove in genere non si sono conservati affreschi coevi alla fondazione. Certo è, peraltro, che la scelta dei santi per il programma di S. Maria di Cerrate, sia pur conservato solo parzialmente, tradisce la funzione monastica della chiesa dato che si tratta, per la maggior parte di essi, delle figure più importanti del monachesimo orientale: l'eremita s. Onofrio, s. Paolo di Tebe, s. Teoctisto, il santo monaco palestinese, Antonio il Grande, s. Giovanni Damasceno, che rappresenta la categoria degli innografi, e s. Benedetto, rappresentante del monachesimo occidentale. Nel S. Mauro presso Gallipoli, un monastero italo-greco attestato fin dal sec. 12°, il programma iconografico, in gran parte ricostruibile, comprendeva un ciclo del Nuovo Testamento e iniziava e si concludeva nell'abside, dove era probabilmente in origine campita una Déesis, come nella vicina e analoga chiesa del SS. Salvatore (Falla Castelfranchi, 1985). La presenza nell'abside di santi vescovi, dispieganti cartigli, con o senza iscrizioni liturgiche, è attestata anche nelle chiese monastiche: in Puglia, a S. Maria di Cerrate, S. Mauro e SS. Salvatore presso Gallipoli e in altri edifici di culto di cui non è chiara la funzione, come l'Assunta di Botrugno e più tardi S. Stefano a Soleto, della fine del sec. 14°; in Calabria (Falla Castelfranchi, 1985) e in Basilicata, nella chiesa monastica di S. Angelo al monte Raparo. Nell'abside di questo edificio era inoltre campita, stando alla testimonianza di Bertaux (1903, I, p. 123), la scena della Comunione degli apostoli, oggi scomparsa, rarissima in Italia meridionale, ma ampiamente attestata nella pittura bizantina.La decorazione pittorica dei monasteri greci di Sicilia è in gran parte scomparsa. Un brano con la Kóimesis nella chiesa di S. Maria del Rogato presso Alcara (Monasteri basiliani, 1979, fig. 24 N2, p. 63), svolto secondo i canoni bizantini e da aggiungersi agli affreschi di Mazara e dintorni segnalati da Patera (1975), suggerirebbe che anche i monasteri italo-greci di Sicilia accogliessero pitture di orientamento bizantino come quelle delle altre regioni dell'Italia meridionale greca.In Calabria, stando alla santa visita del 1587, la chiesa del Patírion era tutta affrescata, ma non se ne conoscono i soggetti (Adorisio, 1980), mentre il frammentario programma iconografico del monastero greco di S. Adriano a San Demetrio Corone non mostra indizi utili, poiché i santi campiti nei sottarchi rappresentano varie categorie, fra cui i vescovi. Teorie di santi sulla parete della navatella sinistra e di sante in quella destra (quest'ultima si concludeva con la scena della Presentazione della Vergine al Tempio, svolta secondo i consueti canoni bizantini, com'è anche indicato dall'iscrizione in greco che la accompagna) evocano peraltro la decorazione delle navatelle di S. Angelo in Formis, cui rinvia anche il pavimento in opus sectile con riquadri decorati da animali (Di Dario Guida, 1984). La presenza nel pavimento della chiesa di S. Adriano soprattutto di serpenti (in particolare il serpente posto all'inizio della navata) potrebbe collegarsi all'episodio - trasmesso dalla vita di s. Vitale da Castronuovo (AASS, Martii II, 1668, pp. 26-34: 30), che nel sec. 10° ricostruì la piccola chiesa - relativo alla donna che, per aver mentito, si ritrovò un serpente intorno al collo: entrata nella chiesa, il santo operò il miracolo e il serpente cadde a terra. In un passo successivo dello stesso testo si parla inoltre dei fedeli che, nell'attesa del miracolo, si erano stabiliti entro e fuori l'atrio della chiesa e vi avevano dormito: vi si può trovare riverberata l'eco dei riti di incubazione che si verificavano nei grandi santuari orientali (per es. nel Cosmidion di Costantinopoli, nel santuario di S. Tecla in Cilicia o in quello dei Ss. Ciro e Giovanni presso Alessandria). Non sembra dunque casuale la scelta dei motivi decorativi del pavimento del monastero calabrese evidenzianti le nobili origini greche del monastero, legate a s. Nilo e a s. Vitale.Nei monasteri italo-greci in Calabria si conservano alcuni interessanti pavimenti. All'opus sectile attestato a S. Adriano ma anche in altre chiese calabresi non monastiche, come quella degli Ottimati a Reggio e la chiesa distrutta in contrada San Luca, si contrappone il pavimento di S. Maria del Patir, a mosaico decorato con rotae entro cui si dispongono animali (ove un'iscrizione in latino ricorda l'egumeno Biagio, attestato alla metà del sec. 12°, e rinvia agli analoghi pavimenti delle cattedrali e dei monasteri benedettini di Puglia), anch'esso integrato comunque da una pavimentazione in opus sectile (Adorisio, 1980). Anche in questo settore dunque non si colgono, da parte dei committenti, scelte precise di un prodotto specificamente destinato all'ambiente monastico.Anche il mondo del libro non offre in tal senso scelte vincolanti: produttori di libri greci furono soprattutto monaci, ma anche appartenenti al clero secolare, e varia è la cerchia dei fruitori, che comprendeva anche laici colti. Fra gli scriptoria monastici più attivi si segnalano, in Calabria, oltre a quelli di Reggio e Rossano, S. Filippo Argirio, S. Filippo di Seminara, S. Giorgio di Bovalino, S. Giovanni Theriste, S. Maria del Patir; in Lucania, i Ss. Elia e Anastasio di Carbone; in Sicilia, S. Filippo di Fragalà, S. Maria di Mili, Ss. Pietro e Paolo di Agrò, il SS. Salvatore di Bordonaro e soprattutto il SS. Salvatore di Messina; in Terra d'Otranto, S. Maria di Cerrate e S. Nicola di Casole (Cavallo, 1982). Non si può però non ricordare, al di fuori dei confini dell'Italia meridionale, lo scriptorium del monastero di Grottaferrata, fondato da s. Nilo.L'età normanna segna il rinnovamento del manoscritto italo-greco per ciò che riguarda sia le forme grafiche sia l'ornamentazione, decisamente volte verso Bisanzio, anche se continuarono a essere prodotti libri di tipo tradizionale sia in Italia meridionale sia in Sicilia (Cavallo, 1982). L'uso della Perlschrift costantinopolitana portò alla definizione di un tipo di scrittura detta di Reggio, la più diffusa per i manoscritti calabro-siculi, mentre poco prima, nella fondazione del Patírion (1105) appare, nella regione di Rossano, uno stile di scrittura noto come rossanese, attestato nell'arco di un trentennio (Lucà, 1985-1986; 1989), la cui ornamentazione è anch'essa di origine costantinopolitana - ne riprende lo stile c.d. fiorito - con i fregi eseguiti quasi esclusivamente a carminio, in negativo (Cavallo, 1982; Canart, 1983).Alla mano del monaco Bartolomeo - da non confondersi con l'omonimo fondatore del Patírion - si devono alcuni codici, conservati alla Biblioteca Apostolica Vaticana di Roma, contenenti opere di Gregorio Nazianzieno (gr. 1992) e di Basilio (gr. 2050), eseguiti rispettivamente nel 1104 e nel 1105, anno in cui finì di vergare un codice di medio formato contenente scritti Simeone Stilita (gr. 1982), e altri ancora. Pure Filagato da Cerami fu probabilmente monaco al Patírion al tempo dell'egumeno Luca: grammatico, egli è noto per la sua produzione omiletica - alcune sue prediche furono lette nelle cattedrali di Rossano e Palermo come in altre chiese e conventi greci - e a lui si deve l'elogio di Ruggero II pronunciato per la festa dei ss. Pietro e Paolo (Cavallo, 1982).Diversa è la situazione in Terra d'Otranto, culturalmente arretrata in questo periodo (Cavallo, 1982), almeno per quanto riguarda la produzione libraria; ma ciò si osserva anche nel campo della pittura monumentale, fatto da imputarsi in gran parte allo slittamento dell'asse normanno verso Calabria e Sicilia. In linea generale, l'esecuzione di un codice nell'ambito di uno scriptorium monastico non comporta peculiarità di scrittura né di ornamentazione; per quanto riguarda i contenuti, accanto a opere ascetiche, vengono copiati trattati liturgici, opere di grammatica e testi per dotti laici.L'età sveva e quella angioina segnano la decadenza della cultura greca in Calabria e Sicilia, e ciò si riflette anche nel campo della produzione libraria, in sincronia con lo spostamento del centro di gravitazione culturale in Puglia, precisamente nella Terra d'Otranto. Qui fu il monastero di S. Nicola di Casole a svolgere un ruolo significativo, in particolare nella prima metà del sec. 13°, quando fu egumeno Nicola-Nettario (m. nel 1235). Figura di spicco in campo culturale, esperto in teologia, raccoglitore, lettore e annotatore di libri, egli costituì intorno a sé un circolo poetico di cui facevano parte alcuni intellettuali sia salentini, laici e non, sia greci, come per es. il metropolita di Corfù, Bardanés, lo stesso che, dietro richiesta di Nettario, inviò in Puglia un abile pittore. In particolare si segnalano alcune poesie di Giorgio Cartofilace, di Gallipoli, che faceva parte del circolo di Nicola-Nettario, che contengono citazioni di affreschi e icone oggi perduti.Anche in questo caso, in linea generale, non emergono un ruolo e una committenza monastica determinanti; a Casole per es. si copiarono classici greci, testi liturgici e di contenuto edificatorio; alla sua cospicua biblioteca attingevano molti lettori laici ed ecclesiastici (Cavallo, 1982).In seguito è la liturgia il settore che "resiste meglio alle infiltrazioni occidentali" (Jacob, 1974); legata all'identità culturale delle genti salentine, essa sopravvisse fino al 18° secolo. Fu il testo liturgico più diffuso in quest'area, l'Historia mystagogica, che costituì la fonte per l'elaborazione del programma absidale della piccola chiesa di S. Stefano a Soleto, della fine del sec. 14°, già intrisa di modi e stilemi vicini al cantiere operante in S. Caterina a Galatina. È questo l'unico caso, in Terra d'Otranto, di sicuro rapporto fra liturgia e iconografia, in un momento che segna definitivamente il tramonto della pittura di segno bizantino.Un altro aspetto interessante è costituito dai tesori dei monasteri italo-greci. Se le fonti contengono rare informazioni per l'età normanna e i secoli seguenti, il citato elenco del monastero di S. Nicola in Gallocanta offre un'immagine della ricchezza dei tesori monastici già prima dell'avvento dei Normanni. Fonti tarde, nella fattispecie sante visite, attestano ancora alla fine del Cinquecento nel monastero del Patírion - già dotato alla sua fondazione da s. Bartolomeo di libri, reliquie e icone portate da Costantinopoli - la presenza di oggetti preziosi, fra cui alcune teche (quattro d'avorio, cinque di cristallo e una di legno di cipresso), croci d'argento, quattro anelli, ecc. (Adorisio, 1980); un calice di vetro era ancora visibile nel sec. 18° e di esso si conserva un antico disegno (Lipinski, 1971). Il censimento dei settantotto monasteri greci superstiti di Calabria, promosso nel 1457-1458 dal cardinale Bessarione e affidato ad Atanasio Calceopilo e a Macario, egumeno di S. Bartolomeo di Trigona, contiene significativi dati in merito. Solo pochi monaci custodivano questi monasteri e i loro tesori, a giudicare dagli elenchi compilati, erano ben ridotti: compaiono spesso, infatti, calici, patene e candelieri di peltro, una sola ymago cum auro, croci di legno, più raramente d'argento, e rari scrigni con reliquie (Laurent, Guillou, 1960).
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I monaci calabro-bizantini e benedettini, giunti in Sicilia al seguito dei Normanni per collaborare all'opera di propaganda in loro favore e per organizzare la Chiesa locale con i monaci siculo-bizantini rimasti in Sicilia durante la dominazione islamica (827-1061), ebbero in larga misura, alla fine del sec. 11°, il merito di contribuire alla ripresa dell'attività architettonica in Val Demone e nel resto dell'isola. Essi introdussero schemi planimetrici e moduli architettonici che in Calabria le maestranze locali avevano potuto elaborare grazie all'esistenza, sino a tutto il sec. 10°, di condizioni culturali e politiche atte a rendere possibile la formazione di un'architettura varia e complessa, nella quale temi icnografici bizantini appaiono commisti con altri derivanti dallo sperimentalismo paleocristiano nonché con accenti musulmani e nordici.In Val Demone, ove nei secoli immediatamente precedenti la conquista normanna la dominazione islamica aveva interrotto la continuità dell'attività costruttiva per edifici cultuali, le maestranze non accolsero passivamente gli apporti calabresi, ma li rielaborarono, creando un'architettura propria, la cui varietà si giustifica con le stratificazioni storiche sovrappostesi in Sicilia sino al sec. 11° (il cui valore e durata non furono uguali ovunque).Ancora prima che venisse fondato l'archimandriato di Messina, nel febbraio del 1133, per espressa volontà di Ruggero II, in Val Demone il numero dei cenobi, costruiti durante il periodo della contea, era di gran lunga superiore a quello delle abbazie benedettine. Sfortunatamente, per la maggior parte essi sono andati perduti con le chiese annesse. Fonti diplomatiche e rendiconti di visite ufficiali eseguite dall'archimandrita Nifone dal 1328 al 1336 e, successivamente, da altri prelati della Chiesa siciliana, pur consentendo di ricostruirne la storia, non permettono, per gran parte di essi, di individuare né l'esatta ubicazione né l'aspetto architettonico. Le chiese di S. Filippo di Demenna (oggi di Fragalà presso Frazzanò), del SS. Salvatore di San Marco d'Alunzio, dei Ss. Alfio, Filadelfio e Cirillo di San Fratello (fondate nell'immediato entroterra di Sant'Agata di Militello), e quelle di S. Maria di Mili San Pietro, dei Ss. Pietro e Paolo d'Itàla e dei Ss. Pietro e Paolo presso Casalvecchio Siculo (fondate nell'estrema parte nordorientale del Val Demone), sono le uniche di cui è ancora possibile la ricostruzione degli impianti originari, sebbene anch'esse abbiano subìto trasformazioni nel tempo.La chiesa di S. Filippo di Demenna, ricostruita nel 1090 da Ruggero I, presenta un impianto planimetrico costituito da un' unica navata che s'innesta sul transetto assai sporgente sui lati e suddiviso in tre vani conclusi da absidi profilate all'esterno. Tale impianto a T, caratterizzato dal forte risalto attribuito al transetto e dallo sviluppo in un certo senso autonomo della zona presbiteriale in confronto alle navate, non costituisce un esempio isolato nell'architettura normanna siciliana alla fine del sec. 11°: esso si ritrova, senza notevoli variazioni, nelle chiese di S. Giovanni dei Lebbrosi a Palermo (1071), di S. Michele presso Altavilla Milicia (1077) e di S. Nicolò la Latina a Sciacca. In Calabria, invece, tale impianto si riscontra, con un ordinamento più complesso, nella chiesa di S. Giovanni Vecchio di Stilo. Nel S. Filippo di Demenna il bema è separato dalla navata (la cui copertura, rispetto alla originaria, nasconde all'esterno la volta a botte) mediante un arco trionfale a tutto sesto, e dai due vani laterali (coperti da volte a botte originarie) per mezzo di due arconi anch'essi a tutto sesto. Due archi ad aggetto crescente (ancora visibili nel tiburio del sec. 15°) trasformano in quadrata la pianta rettangolare del bema, lasciando presupporre l'esistenza di una cupola. Lesene in mattoni, collegate in origine da archetti e includenti tre strette finestre a tutto sesto, decorano l'abside centrale del transetto. Le absidi laterali sono traforate da un'unica finestra, analoga a quelle dell'abside centrale. Nei lati maggiori della navata sono ancora visibili resti della decorazione architettonica costituita da archi a tutto sesto, realizzati con mattoni intervallati da ampi strati di malta. Il forte spessore dei letti di malta nel portale meridionale crea inoltre un evidente gioco policromo.Dal monastero di S. Filippo di Demenna dipendevano i due cenobi del SS. Salvatore di San Marco d'Alunzio e dei Ss. Alfio, Filadelfio e Cirillo di San Fratello: del primo restano i ruderi, che consentono di ricostruirne la planimetria; del secondo, dopo i recenti restauri, è possibile definire concretamente le caratteristiche spaziali e costruttive.Sebbene non sia ancora possibile precisarne con esattezza l'anno di fondazione, la chiesa del SS. Salvatore di San Marco d'Alunzio deve essere stata costruita nel periodo della contea (1091-1130), quando il paese costituì una fra le più importanti basi per le truppe normanne. L'impianto basilicale, a tre navate e con transetto aggettante, non è articolato, come di consueto, in colonne o in pilastri. La navata centrale, conclusa da un'abside semicircolare, è collegata infatti alle laterali, anch'esse concluse da absidi, mediante coppie di archi aperti in muri continui: i due archi più vicini all'abside centrale collegano il transetto con le navate minori laterali. Una semplice iconostasi, e non già un arco trionfale, divideva probabilmente il transetto dalla navata riservata ai fedeli. La disposizione delle strutture portanti e la presenza di resti di capriate nella parte alta dei muri della navata centrale confermano che, in origine, la chiesa era coperta a tetto. La costruzione è in mattoni, impreziosita dall'inserimento di elementi policromi.Anche l'esatta data di fondazione della chiesa dei Ss. Alfio, Filadelfio e Cirillo di San Fratello risulta difficile da stabilire per mancanza di documenti. Riferimenti storici sembrano però suffragare l'ipotesi che la chiesa sia stata edificata nell'intervallo di tempo compreso tra il 1090 e il 1105, quando una colonia 'lombarda' si stanziò nel sito per fondare il paese con il favore di Adelaide di Monferrato, moglie di Ruggero I. La chiesa è inoltre menzionata come dipendente dal cenobio di S. Filippo di Demenna dall'abate Gregorio nel codicillo del suo testamento, scritto nel 1105. L'articolazione planimetrica dell'edificio è costituita dall'unione di un'aula unica con un transetto suddiviso in tre parti. L'aula è coperta con una volta archiacuta rinforzata da un arcone trasversale poggiante su due colonne addossate ai muri laterali. L'abside del bema aggetta, con profilo curvilineo, sul lato orientale; quelle dei vani laterali, molto più strette rispetto a quella centrale, sono concluse da absidiole ricavate in spessore di muro. I tre vani del transetto comunicano con la navata mediante un arco trionfale e due piattabande (che hanno sostituito gli originari archetti a sesto acuto), poggiati su due colonne sulle quali gravano anche, per un lato, gli arconi del transetto. I muri che s'innalzano rispettivamente al di sopra dell'arco trionfale, degli arconi del transetto e dell'arco dell'abside sostengono la cupola con l'interposizione di trombe angolari, costituite da nicchie di forma cilindrica con peducci pensili che costituiscono un'elaborazione originale, da parte delle maestranze siciliane, di soluzioni create dall'architettura islamica.Affinità icnografiche e costruttive con la chiesa di S. Maria di Mili San Pietro, di cui è certa la data di fondazione (1092), confermano l'appartenenza della chiesa di San Fratello al periodo della contea. L'aula unica della chiesa di S. Maria di Mili, coperta a tetto su incavallature lignee, è separata dal transetto mediante tre arcate, di cui le laterali, per un lato, s'impostano sullo stesso pilastro dell'arcata centrale, per un altro, sui muri perimetrali. Sui piedritti dell'arcata centrale s'impostano anche le due arcate del transetto, suddividendolo in tre vani, ognuno dei quali è coperto da una cupola emisferica. Nel vano centrale del santuario, il passaggio dalla pianta rettangolare a quella circolare della cupola è ottenuto, in un primo momento, con due archetti ad aggetto crescente che riducono in quadrato il rettangolo di base; successivamente, il passaggio dal quadrato al cerchio avviene per mezzo di trombe angolari a tronco di cono formate da tre archetti ad aggetto crescente, singolare interpretazione di temi desunti dall'architettura islamica aglabita. Nei vani laterali, raccordi a unico archetto a nicchie consentono invece il passaggio dal rettangolo di base allungato alla forma circolare delle cupolette. Il transetto si configura in alzato come un blocco prismatico, dal quale da una parte emergono le tre cupole emisferiche perfettamente lisce, presentate parallelamente al lato orientale e poggianti su tamburi, dall'altra aggetta con profilo curvilineo l'abside centrale, decorata con lesene che includono coppie di archetti. L'ordinamento del transetto da una parte denota la profonda trasformazione subìta dal modello dei semplici oratori calabresi (per es. S. Filomena a Santa Severina), con i quali la chiesa messinese presenta affinità planimetriche notevoli; d'altra parte arieggia soluzioni formali analoghe a quelle adoperate dai costruttori musulmani nella definizione architettonica della parete del muro (qibli) di alcune moschee fatimidi dell'11° secolo. Il colore delle murature esterne della chiesa di Mili si mantiene su toni pacati, sebbene un particolare accento coloristico venga attribuito, mediante l'impiego di mattoni, agli elementi di passaggio e alla superficie curva dell'abside. Nei lati maggiori, una serie di finestre, alternatamente cieche e aperte a rincassi, si giustappone a una fascia di archetti intrecciati in laterizio su lesene.Nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo di Itàla, fondata nel 1092, il transetto diviso in tre vani (quello centrale coperto con cupola emisferica e quelli laterali con volte a crociera) e il corpo longitudinale a tre navate sono racchiusi entro il perimetro rettangolare dell'involucro murario, dal quale aggettano con profilo semicircolare le tre absidi del transetto. Le navate sono scandite da colonne che sorreggono arcate a sesto acuto su capitelli a forma di campana e decorati con figure geometriche e vegetali stilizzate, simili a quelli utilizzati in edifici coevi dai costruttori fatimidi. Al di sopra delle arcate, che presentano un'alternanza coloristica di mattoni, blocchi di calcare e pietra lavica, si aprono finestre che, insieme con quelle delle altre navate minori, distribuiscono la luce all'interno senza forti contrasti chiaroscurali. Nel santuario, il vano centrale è diviso dallo spazio riservato ai fedeli (che sta a un livello più basso) mediante un arco trionfale a sesto acuto, sottolineato da rincassi e impostato su due pilastri a T, che accolgono, oltre alle cadute delle arcate laterali fiancheggianti l'arco trionfale, anche quelle della campata più vicina al santuario. La soluzione delle due colonnine angolari incassate negli spigoli dell'abside centrale risponde al desiderio di smussare i limiti degli spazi e sottolinea, come nei miḥrab islamici, il carattere sacro del santuario; gli angoli dell'abside, marcati da elementi plastici, sono percepibili direttamente e materialmente dal fedele, quasi a indicargli il luogo più importante dell'edificio. Il passaggio dalla forma rettangolare di base a quella circolare del secondo tamburo, su cui poggia la cupola, è ottenuto riducendo, per mezzo di arconi aggettanti, il rettangolo di base in un quadrato su cui s'innalzano i muri del primo tamburo, alla cui sommità nicchie angolari di forma cilindrica, a duplice risalto e con peducci pensili, trasformano il quadrato nel cerchio del secondo tamburo e della cupola. La decorazione ad archi intrecciati si estende sull'intera superficie esterna dei lati maggiori. Gli archi - che s'inflettono leggermente in prossimità dell'imposta delle lesene e che intrecciandosi formano trilobi che scavalcano arcate a doppio rincasso, ritmicamente e uniformemente disposte, includenti alla sommità finestre alternatamente cieche e aperte - sembrano un'aggiunta successiva, avvenuta in data ignota ma bene ipotizzabile verso la fine del sec. 12°, durante i restauri resi necessari dal terremoto del 1169. La parte mediana del transetto assume un notevole sviluppo verticale, essendo la cupola impostata su due solidi geometrici entrambi in origine privi di ogni vibrazione policroma: il primo è rettangolare; il secondo, quadrato, di proporzioni ridotte e pertanto rientrato, rispetto a quello inferiore, è aperto da finestre al centro di ogni lato.La chiesa dei Ss. Pietro e Paolo presso Casalvecchio Siculo fu la prima costruzione edificata da Ruggero II per i monaci siculo-bizantini del Val Demone. La discrepanza tra la data riportata dal diploma di fondazione (1117) e quella (1172) dell'iscrizione greca incisa sui conci dello pseudo-architrave della porta d'ingresso principale ha fatto sorgere numerose discussioni. Una precisa lettura dei dati epigrafici e un'attenta analisi delle strutture murarie inducono tuttavia a identificare la data di fondazione con quella del diploma, limitando così l'intervento del protomastro Girardo il Franco nel 1172 (resosi necessario in seguito ai danni del terremoto del 1169) al restauro del portale d'ingresso principale, di quello aperto sul lato meridionale e dell'intera muratura del lato settentrionale e inoltre all'aggiunta degli archi intrecciati, questi ultimi realizzati con tracciati ricchi di colore e disposti in modo da creare movimenti di piani, secondo modi compositivi già realizzati in altre fabbriche dell'Italia meridionale. Un breve esonartece, coperto a crociera e fiancheggiato da due torri scalari, prepara l'ingresso all'interno dell'edificio, diviso in tre navate e concluso da un transetto triabsidato. Un particolare sistema di percorsi collegava in origine le varie parti della chiesa consentendo diretto accesso alle terrazze, praticabili e protette da parapetti con merlature ricurve.La navata principale è coperta con capriate e con una cupola sulla campata centrale; una cupola sormonta anche il vano centrale del santuario, mentre volte a crociera coprono le navate laterali. All'esterno l'abside centrale, affiancata da absidi laterali semicircolari, si presenta come uno slanciato corpo rettangolare con coronamento merlato alto fino al livello della terrazza sormontante la navata centrale della chiesa. All'interno, la navata centrale è scandita da una serie di arcate a sesto acuto rette da colonne di granito, da cui si dipartono lesene che, mediante capitelli e pulvini di pietra lavica, reggono le arcate trasversali. Larghe lesene si ripetono ritmicamente anche sui lati dell'edificio facendo riscontro agli arconi trasversali della navata principale; il loro scarso aggetto le riduce peraltro a semplice funzione decorativa, in vista di effetti cromatici.La cupola si raccorda con il vano quadrangolare della navata mediante trombe di forma conica, composte da tre archetti aggettanti, simili a quelle realizzate sul bema della chiesa di S. Maria a Mili e collegate a due a due con archetti doppi, che trasformano il quadrato in ottagono, e, quindi, mediante piccoli triangoli sferici, posti alla sommità dei quattro angoli formati dall'intersezione dei tratti di muri che s'innalzano al di sopra delle trombe e degli archetti, per il passaggio alla forma circolare del tamburo finestrato. La cupola, costruita a filari di mattoni concentrici legati da malta, ha forma a ombrello, manifestata all'esterno da una superficie ondulata a otto spicchi e, all'interno, realizzata mediante spigoli salienti che partono dal vertice e scendono sino ai lati delle finestre oblunghe del tamburo. La cupola più piccola, posta sul bema, sostenuta da strutture molto robuste, è costruita con un procedimento analogo, ma si configura all'esterno come calotta a padiglione ottagonale e all'interno a ombrello. Il collegamento al tamburo del rettangolo allungato di base è ottenuto con una serie di alveoli pensili costruiti in mattoni e spessi letti di malta, disposti in giri sfalsati sempre più aggettanti in avanti. La soluzione dei raccordi riflette il particolare gusto islamico, che ama la ripetizione ritmica di uno stesso elemento a scopo puramente decorativo.Archi intrecciati si svolgono su tutte le superfici dell'involucro murario, eccetto che sul prospetto, divenendo così motivo dominante di tutta la costruzione. Sui muri delle navatelle, conclusi da un semplice parapetto merlato, gli archi sono leggermente acuti. Sui muri della navata centrale un arco semicircolare è invece inserito tra due leggermente acuti perché devono scavalcare lesene più larghe poste in corrispondenza delle arcate trasversali interne. Tra le sottili lesene si aprono quattro finestre, poste in asse sulle chiavi degli archi che compongono la navata centrale e il bema. La disponibilità di pietra lavica e di marmo delle vicine cave di Taormina, oltre che del calcare e dei mattoni, consentì ai costruttori della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo di apparecchiare i paramenti murari con straordinaria ricchezza inventiva e con raffinata sensibilità. La mancanza di elementi policromi sul lato settentrionale induce ad attribuire questa parte dell'edificio al restauro operato nel 1172 da Girardo il Franco.L'unione di corpo basilicale e transetto, che caratterizza le articolazioni planimetriche delle chiese annesse ai complessi monastici basiliani del Val Demone, appare concepita soprattutto per esprimere, attraverso la vigorosa definizione architettonica, la tendenza a compenetrare il principio del movimento ritmico verso la profondità della basilica e l'accentrata spazialità dei vani cupolati. Nella concezione del programma, il transetto, sia in pianta sia in alzato, costituisce la parte vitale della chiesa, suddivisa, per le necessità di culto, in tre vani absidati orientati, che definiscono in pianta uno o tre aggetti, disposti secondo una progressione decrescente. Nei vani cupolati del transetto, mediante la disposizione lungo la traiettoria delle sollecitazioni di strutture resistenti congegnate in un susseguirsi di passaggi graduali razionalmente differenziati secondo le loro funzioni, si attua la trasformazione sia della pianta rettangolare in quella circolare della cupola sia delle sollecitazioni della cupola stessa in semplici sforzi di compressione. L'insieme delle masse ordinate e costruite della parte presbiteriale, ripartendosi per progressione decrescente e per aggetti più o meno pronunciati, concorre all'equilibrio della parte centrale, che si erge torreggiante, e determina nello stesso tempo un ordine monumentale.Ma è soprattutto nel trattamento delle superfici murarie che i costruttori del Val Demone imprimono un segno distintivo ai loro edifici, mediante l'uso consapevole delle diverse specie di materiali e la conoscenza delle leggi statiche a essi implicite, l'interpretazione e la combinazione degli effetti di luce e di quelli generati dai rapporti di vuoti e pieni, ombre e luci.Un tale orientamento di gusto, presente anche in edifici calabresi, ha indotto taluni studiosi a individuare una corrente sorta a opera dei monaci basiliani in Calabria e in Sicilia, autonoma da coevi edifici normanni della Sicilia occidentale. Ma l'attenta analisi condotta sui monumenti normanni del periodo della contea in Sicilia consente di negare tale assunto: identiche norme generali, concretizzate - a parte la varietà delle specifiche realizzazioni - in un linguaggio architettonico peculiare, rimasto sostanzialmente coerente, guidarono le esigenze dei costruttori sia nella parte occidentale sia in quella orientale dell'isola. La tendenza a unire tra loro nuclei spaziali definiti dal sistema costruttivo delle cupole e vani coperti a tetto, l'accentuazione del telaio strutturale del transetto, al fine di controbilanciare e assorbire le sollecitazioni a esso trasmesse dalla cupola sull'incrocio, contraddistinto da uno sviluppo verticale maggiore rispetto alle parti laterali, nonché la generale preferenza accordata alla giustapposizione di semplici volumi, costituirono elementi comuni alla maggior parte degli edifici siciliani del periodo. Inoltre nelle architetture del Val Demone le maestranze, pur accogliendo forme planimetriche, costruttive e decorative presenti in Calabria, ne modificarono in parte i caratteri, sotto la spinta di tradizioni culturali diverse e, soprattutto, della cultura islamica, più forte in Sicilia che in Calabria, ove gli stanziamenti musulmani furono sempre instabili.
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