LAPI, Basilio
Molto scarse le notizie sul L., di cui è noto il luogo di nascita, Firenze, ma non l'anno, da porre verosimilmente non oltre i primi anni Ottanta del XV secolo. Già nel 1500 egli figura tra i monaci della badia dei padri cisterciensi presso Settimo Fiorentino. Secondo l'uso del suo Ordine, il L. si spostò con frequenza da un monastero all'altro. Negli anni 1504-07, infatti, lo troviamo camerlengo del monastero della Misericordia di Modena e nel 1507-09 con la stessa carica nel monastero di Morimondo a Milano. Il Marzi ha ipotizzato che dopo il 1510 egli sia rimasto in Lombardia, per fare poi ritorno a Settimo, dove la sua presenza è però documentata solo per il 1530. Il Negri lo dice in effetti presente a Firenze "sul terminare della Repubblica Fiorentina".
Malgrado l'oscurità che circonda la sua vita e nonostante il fatto che nessuna delle sue opere fu data alle stampe, il L. dovette godere di una certo credito presso i contemporanei e presso i confratelli come letterato, teologo e matematico, definizione quest'ultima che indicava allora studi di astronomia e astrologia. La più antica delle sue opere che ci sono pervenute è infatti un opuscolo De aetatum computatione etde dierum anticipatione conservato nella Biblioteca nazionale Marciana di Venezia (Mss. lat., cl. IX, 36).
L'opuscolo, in forma di epistola indirizzata al pontefice Leone X, è uno dei pareri che, nel luglio 1514, il papa aveva sollecitato dai lettori delle principali università europee e dagli studiosi che attorniavano principi e vescovi, in vista della formulazione di proposte da sottoporre alla decima seduta del V concilio Lateranense per risolvere la questione del calendario. Malgrado l'impegno del pontefice, la grande discrepanza tra questi pareri - molti provenienti dalle Università di Vienna, Tubinga, Lovanio, Ingolstadt, e molti anche da Firenze, patria del papa - rese impossibile la realizzazione del progetto, peraltro mai abbandonato durante tutto il pontificato.
L'epistola del L. consta di due parti, che si rispecchiano nel titolo doppio, precedute da una lettera indirizzata al pontefice nella quale l'autore, che sperava attraverso questo scritto di acquistare un posto nella Curia romana, passa in rivista i calcoli dei cronologi, esamina le diverse opinioni sull'epoca della creazione e discute la riforma del calendario operata da Giulio Cesare. Nella prima parte, il L. esamina i moltissimi errori del calendario e le cause che li hanno ingenerati. In particolare, egli calcola in più di 11 giorni la sfasatura tra l'anno solare e quello liturgico, che ritiene prodotta nei secoli dall'eccedenza dell'anno introdotto da Giulio Cesare rispetto a quello solare. Egli misura questa sfasatura sulla base delle Tavole alfonsine, che ritiene esatte, e la inferisce da alcune esperienze sulla vera durata dell'anno, che dice di avere compiuto insieme con altri astronomi fiorentini nel duomo e nella chiesa di S. Marco. Ancora, nella prima parte della lettera egli tratta degli errori del ciclo e di conseguenza del calendario lunare (che calcola di 5 giorni e qualche frazione). Essi provengono dal fatto che i computisti non tennero conto della vera durata della lunazione sinodica (ossia del tempo impiegato dalla luna a tornare alla stessa fase), né della vera differenza tra 12 mesi lunari e l'anno solare, ma fissarono i mesi alternativamente di 29 e 30 giorni, calcolando la differenza in 11 giorni.
La riforma del calendario, secondo il L. una necessaria prerogativa del pontefice, sarebbe dovuta avvenire anticipando i giorni in disavanzo, in modo da ripristinare l'ordine legittimo delle feste stabilito dai Padri della Chiesa su ispirazione dello Spirito Santo. Per farlo, come si afferma nella seconda parte del trattato, occorre lasciare 11 giorni dopo il 24 febbraio, o, in alternativa, intercalarli nel calendario, trascurando per 44 anni i bisesti. Quanto alla correzione del ciclo lunare, per rimediare all'errore del calendario il L. propone un metodo nuovo, radicale e perfettamente razionale, che consiste nel cercare il tempo e il luogo preciso di una congiunzione qualunque del Sole con la Luna e riportarla tante volte quante occorra, senza curarsi di cicli ed epatte.
Dal punto di vista scientifico, il parere del L. è considerato uno dei più rigorosi. Accetta infatti la valutazione migliore, quella alfonsina, espone calcoli esatti e scrupolosi, propone un metodo di correzione razionale e sicuro. Proprio per la sua sottigliezza, però, secondo il Marzi essa non ebbe successo in concilio, dove si aspettavano soluzioni che servissero per gente semplice e ignorante, non per dotti. Di notevole rilievo la conferma che l'opuscolo offre dell'esistenza di una commissione deputata da Leone X a vagliare i pareri così raccolti (della quale avrebbero fatto parte almeno Paolo di Middelburg e Luca Gaurico) e la notizia che esso ci fornisce dell'attività di sperimentazione collettiva svolta dagli astronomi fiorentini, tra i quali sicuramente Paolo Dal Pozzo Toscanelli e i suoi allievi, per determinare la vera posizione del solstizio d'estate e d'inverno.
Delle sue competenze in materia di astrologia il L. ebbe occasione di dare più volte prova alla corte di Cosimo I de' Medici, di cui egli dovette essere assiduo già prima dell'ascesa di questo al potere. Il L. ebbe occasione di calcolare la natività del duca, in base alla quale trovò che aveva il medesimo ascendente di Carlo V, e di predirgli l'arrivo di una grande eredità, ben prima che Alessandro de' Medici venisse assassinato.
Della conoscenza profonda che il L. ebbe della materia offre più salda testimonianza il suo Libro de' minerali et distillatione dedicato a Cosimo, databile tra il 1537 e il 1557 e conservato manoscritto nella Biblioteca nazionale di Firenze (Magl., XVI.36). Il Libro, già noto agli studiosi, è stato recentemente riletto come testimonianza del fatto che, nell'ambito del più generale riorientamento delle strategie culturali di casa Medici in favore delle scienze e delle arti che caratterizza i decenni cruciali per l'affermazione del potere ducale, anche l'arte di trasmutare i metalli vili in oro diventò, da attività privata e segreta, una pratica funzionale all'esaltazione del potere mediceo. Originariamente, o per lo meno nelle intenzioni dell'autore, il Libro doveva costituire solo un capitolo di un'opera più complessiva sulla natura e sulle sue leggi, di cui il L. aveva allora già composto un dialogo di astrologia medica, perduto. Ne avrebbe fatto parte anche un trattato De terreno et aeris impressionibus, offerto anch'esso a Cosimo e anch'esso perduto.
Organizzato in forma di dialogo tra due interlocutori, i filosofi Simonide e Nicocle, il Libro si divide in cinque capitoli. È da notare, nella dedica a Cosimo, la decisa presa di posizione del L. contro l'autosufficienza della filosofia come scienza dei principî e a favore delle arti cosiddette meccaniche viste come strumento decisivo per conoscere l'ordine intrinseco della natura; una posizione che fa pendant con quella già espressa nel De aetatum computatione, sul carattere osservativo della scienza astronomica ("si ha dagli effetti la scienza dei corpi celesti"). La concezione dell'alchimia che traspare nella dedica, non solo arte della trasmutazione ma anche pratica medica basata sulla corrispondenza macrocosmo-microcosmo, iscrive l'opera nel quadro concettuale legato al neoplatonismo ermetizzante di Marsilio Ficino che permeava ancora i circoli colti fiorentini.
Nel primo capitolo, il "Dialogo de' minerali et sua accessorii", il L. affronta la questione dell'origine dei metalli. Egli mette in evidenza, neoplatonicamente, la relazione che interviene in questo processo tra le influenze degli astri e la qualità della Terra. Ricorre, tuttavia, anche alle teorie alchemiche correnti sulla metallogenesi (fondate sullo zolfo e sul mercurio), assimilate alla teoria aristotelica della doppia esalazione calda e umida.
Nel secondo capitolo, "della generatione et natura et complexione di tutti i metalli", entra nel vivo della materia e mostra in che maniera la natura operi nei processi di congelamento e di generazione dei metalli e in che modo l'alchimia la possa imitare. L'esame del problema della causa dei metalli introduce l'autore a una analisi dettagliata di tutte le questioni che riguardano l'elemento zolfo, considerato il seme dei metalli, e l'argento vivo, considerato la loro matrice. La trattazione dell'argento vivo riguarda soprattutto la descrizione delle questioni alchemiche legate alla sublimazione e alla manipolazione dell'elemento. Parte dell'opera è dedicata alla descrizione delle tecniche di manipolazione di altri metalli e ad alcune considerazioni sulla natura dell'oro e sul modo di lavorarlo.
Il terzo capitolo, "de' metalli intermedi", descrive la natura di questi e i processi di manipolazione possibili su marcassite, sali e allumi, vitriolo, orpimento, arsenico, cadmio, pirite.
Il quarto, "della alchimia", ne analizza le teorie e le pratiche dall'antichità ai suoi giorni. La trattazione del problema della trasmutazione è preceduta da una lunga digressione sulla teoria della materia soggiacente a ogni possibilità di trasformazione dei metalli, in cui si espongono e si esaminano le opposte posizioni di origine medievale (quella illustrata da Alberto Magno e quella rappresentata dall'autore anonimo del Liber Hermetis de alchimia) che animavano ancora il dibattito contemporaneo.
Il quinto capitolo tratta della quintessenza di tutte le cose, elemento incorruttibile e curativo, e delle operazioni per distillarlo ed estrarlo da ciascuna sostanza.
Nella logica cortigiana e celebrativa che non è estranea al De terreno et aeris impressionibus, è da leggere anche la Genealogia dell'ill.mo et ex.mo s. ducha di Firenze, (Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VII.1353 [già 1217]), a cui l'autore stesso rivendica la sola originalità della scelta del "vernaculo et materno verso".
Già nell'epistola di argomento astronomico a Leone X era chiaro il punto di vista per cui la verità di fede domina sulle verità di ragione; il L., infatti, fu anche un teologo. Quando scriveva quella lettera, egli aveva già composto un trattato De concilio (menzionato nell'opuscolo di cronotassi), in cui sembrerebbe che avesse difeso la potestà assoluta che derivava alla S. Sede dall'investitura data da Gesù a Pietro. Anche il De concilio doveva far parte di un corpus di scritti teologici dei quali conosciamo solo i titoli, citati dal L. nelle altre sue opere. Ne fecero parte almeno un libro De adversitatibus, nel quale si dissertava di libero arbitrio e purgatorio, e un trattato De pulchritudine, nel quale si esaminava il ruolo del sacrificio di Cristo nel rimettere i peccati del mondo.
Nell'Epistola responsiva ad Epistolium fratris Bernardini Ochini de Senis apostatae, il L. riutilizza tutte le argomentazioni elaborate in quegli opuscoli teologici per confutare la summa delle opinioni eterodosse formulate dall'Ochino nella sua opera e, in generale, le opinioni dei luterani. L'Epistola, anch'essa manoscritta tra i codici Magliabechiani (XXXIV.6), è indirizzata dal L. a Pierfrancesco Ricci, segretario di Cosimo I e responsabile per lui degli affari concernenti letterati e artisti, personaggio che fu a sua volta vicino all'evangelismo italiano. In nome dell'autorità delle Sacre Scritture e dei Padri della Chiesa, il L. confuta in queste pagine la teoria del sacerdozio universale, la possibilità del matrimonio per il clero regolare e secolare, il ruolo del sacrificio di Cristo e del libero arbitrio nel rimettere i peccati. Interessante il tono dello scritto, che non vuole essere una dura offensiva ma, sul modello della predicazione evangelica, una persuasiva esposizione delle ragioni della Chiesa per indurre l'Ochino (che il L. sembrerebbe aver ascoltato predicare) a tornare nel suo seno.
Del L. sono ignoti data e luogo di morte. Elementi intrinseci ed estrinseci alle sue opere lascerebbero pensare che egli fosse ancora vivo nei primi anni Sessanta del Cinquecento. Come termine ad quem può valere il 1564, data del ritiro di Cosimo I dal governo e della morte dell'Ochino, al quale l'Epistola si rivolge come a persona in vita.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Patrimonio ecclesiastico di Firenze, C.XVIII, nn. 3, pp. 18 s., 21-23, 143 (segnatura coeva); 345, c. 3 (diario del convento); P. Giovio, Historiarum sui temporis tomi secundi pars altera, Venetiis 1563, p. 142; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 87; N. Baccetti, Septimianae historiae libri VII, Romae 1724, p. 247; A. Fabroni, Vitae Italorum doctrina excellentium qui saeculis XVII et XVIII floruerunt, Pisis 1780, ad nomen; P. Bailly, Histoire de l'astronomie moderne, I, Paris 1805, p. 693; W. Roscoe, Vita e pontificato di Leone X, IX, Milano 1816, pp. 125, 252; G. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Venetiarum… Codices mss. Latini, V, Venetiis 1872, p. 279; D. Marzi, La questione della riforma del calendario nel V concilio Lateranense, in Arch. stor. italiano, s. 5, 1893, t. 11, p. 343; Id., La questione della riforma del calendario, Firenze 1896, pp. 149-167; L. von Pastor, Storia dei papi, IV, Roma 1927, pp. 538 s.; A. Perifano, L'alchimie à la cour de Côme Ier de Médicis: savoirs, culture et politique, Paris 1997, pp. 100-119 e passim.