FORESI, Bastiano
Nato a Firenze nel 1424 da Antonio, dal 1456 esercitò la professione notarile. Tra il 1477 e il 1485 rogò per Marsilio Ficino e i suoi familiari tutta una serie di atti relativi al patrimonio ereditato dal padre del filosofo, Diotifeci. Al Ficino il F. era legato da precedenti rapporti amichevoli, ed è ovvio pensare che Marsilio si servisse di lui come notaio per delicate questioni familiari proprio in ragione di questa confidenza.
L'epistolario del filosofo contiene tre lettere dirette al F. (due sole datate: 10 ag. 1476 e 8 sett. 1479), dalle quali risulta che tra i due esisteva una stretta intimità. Il Ficino apprezzava il F. come suonatore di liuto e aveva concluso con lui un patto per cui entrambi non avrebbero suonato se non in compagnia dell'altro: quando il F. si era fabbricato una lira con le sue mani gli ricordò che altro è il lavoro manuale della costruzione di uno strumento, altro ricavarne armonia. Infine, nella lettera del 1479, partendo da una citazione del De musica di s. Agostino, il filosofo richiama il significato trascendentale della melodia, che riflette il moto armonioso delle sfere celesti ed è legata a proporzioni matematiche.
Accanto all'amicizia col Ficino, si intravede la frequentazione non occasionale di altri intellettuali della Firenze medicea (nelle lettere del filosofo ricorrono i nomi di P. Del Nero, G. Cavalcanti, C. Landino); da una lettera di M.A. Sabellico (senza data) si ricava che il F. aveva intrapreso la composizione di un'opera biografico-enciclopedica "in tuis epitomis", scrive genericamente il Sabellico), in cui avrebbe dovuto trovare posto un profilo dell'umanista: la lettera contiene appunto le notizie richieste dal F. a tale scopo. Di quest'opera non resta traccia e, data l'assenza di altri riscontri più probanti, non è da escludere che sia rimasta allo stato di progetto.
Del F. ci sono invece giunti due poemetti in volgare: il Trionfo delle virtù e l'Ambitione. Il Trionfo, composto dopo la morte di Cosimo de' Medici (1464), fu presentato in dono a Lorenzo de' Medici (l'esemplare di dedica è conservato alla Houghton Library della Harvard University di Cambridge, Mass., ms. Richardson 46*), accompagnato da un biglietto di presentazione del Ficino e da un distico di F. Castellani (eraso nel codice di Harvard, è conservato da una copia calligrafica ottocentesca: Firenze, Bibl. naz., ms. Landau Finaly 263).
Motivo di interesse del distico ("Alit Aligherii Lethea relictus / Pectora Foresii: dirige, Musa, vatem") è l'esplicita dichiarazione del dantismo del F., constatabile a una ricognizione anche superficiale del testo. Il poemetto in lode di Cosimo, piuttosto che ai coevi prodotti della panegiristica umanistica, si riallaccia alla folta produzione didascalico-narrativa in volgare che a partire dal magnum opus dantesco si era sviluppata nel corso dei secoli XIV e XV, conservando saldamente alcuni elementi strutturali quali il distintivo metrico della terza rima e il ricorso all'allegoria. Persistenza, quest'ultima, di un gusto trecentesco destinato a sopravvivere a lungo non solo a livello demotico, ma anche a quello culto, favorito dall'ambiente culturale della Firenze medicea in cui nuove istanze filologiche (rappresentate in primo luogo dal Poliziano), rinascita di Platone e sopravvivenze medievali poterono, almeno fino a un certo momento, convivere in un clima di fervido dialogo.
In questo contesto si inserisce il dantismo del Foresi. La struttura del poemetto rinvia in maniera diretta allo schema del trionfo, di cui potevano essere modello insigne i Trionfi petrarcheschi, nonché, in forma ancor più congeniale, i canti XXIX-XXXII del Purgatorio, dedicati alla descrizione delle processioni allegoriche del paradiso terrestre.
Il Trionfio delle virtù si apre con la descrizione del bosco in cui il poeta, che impersona il Senso, si è addentrato sulla strada della perdizione. Egli viene soccorso da Intelletto che gli illustra la storia dell'umanità dal principio del mondo sino alla fondazione di Firenze. Quindi il poeta chiede le ragioni del conflitto tra Chiesa e Impero, e Intelletto spiega che esso dipende dall'opera della Fortuna, soffermandosi a elencare le vittime illustri di questa così antiche come moderne. Segue l'esposizione dei rimedi che si possono opporre ai colpi della Fortuna: il più valido è la virtù, di cui furono fulgidi esempi nell'antichità Scipione e Catone e nei tempi moderni Cosimo de' Medici. A partire da questo punto (inizio del capitolo IX) il poeta assiste al trionfo di Cosimo. Dinanzi al carro su cui egli procede è legata la schiera dei vizi; in una seconda schiera sono riuniti i chierici, i cui peccati contro la religione sono oggetto di una lunga invettiva mista al terrore della punizione divina che colpirà l'Italia per avere tollerato l'iniquità di costoro. Segue l'invocazione del F. ad Apollo perché lo aiuti a descrivere la folla di virtuosi che si accalca intorno al carro di Cosimo, ma essendo tali lodi superiori alle sue capacità il poeta passa la parola a Romolo, in aspetto di vecchio dal volto rattristato, il quale si duole della rovina in cui è caduta la città da lui fondata e addita alcuni condottieri moderni, tra i quali sono F. Sforza e Braccio da Montone. Seguono, accanto ai poeti e ai filosofi dell'antichità, Dante e Petrarca, quindi P. Bracciolini, L. Bruni, C. Marsuppini, B. Accolti, B. Scala, sulle lodi dei quali si chiude l'opera.
All'ultimo periodo di vita del F. va attribuito il poemetto in terzine Ambitione, tramandato da una stampa fiorentina priva di indicazioni tipografiche (Libro chiamato ambitione..., attribuita al tipografo A. Miscomini, 1485; sul frontespizio dedica generica a Lorenzo de' Medici): l'opera consiste in realtà in una versione in terza rima delle Georgiche, cui fa da ampia e di fatto autonoma cornice il poemetto intitolato appunto Ambitione, sull'origine favolosa di Firenze.
Questa la trama del poema: il F., diretto in contado dopo aver preso la decisione di abbandonare Firenze, si imbatte in una donna, l'allegoria dell'Ambizione, che gli ispira terrore e reverenza e lo sconsiglia di lasciare la città. Il F., soggiogato, chiede notizie delle origini di Firenze e Ambizione espone una lunga eziologia fondata su un farraginoso sincretismo di materia mitologica virgiliana e di una concezione storico-provvidenzialistica di ascendenza dantesca. Giunone per odio verso i Romani, distruttori di Cartagine, tenta di impedire la fondazione di Firenze che dovrebbe avvenire a opera di Silla. La dea fa in modo che questi sia trattenuto in Oriente nella campagna contro Mitridate e nel frattempo, tramite le Furie infernali, fomenta l'odio intestino tra i partigiani di Silla e di Mario. Interviene Venere, che implora il soccorso di Marte e di Giove. Al re degli dei in particolare dimostra la necessità del diffondersi di una nuova religione che salvi gli uomini dalla dannazione: perché essa si affermi e la divinità possa discendere in terra bisogna che sorga l'impero romano e in tale disegno provvidenziale rientra la vittoria di Silla su Mitridate e la fondazione di Firenze. Giove acconsente e il fato si compie. Il discorso di Ambizione persuade il F. che si accinge a tornare sui suoi passi, ma a questo punto appare Virgilio che lo esorta a realizzare il proposito originario di ritirarsi nella quiete agreste citando l'exemplum di Scipione, il quale visse gli ultimi anni in volontario isolamento. Per confermarlo in questa scelta Virgilio promette di insegnargli l'arte dell'agricoltura e così ha inizio la "slavata e scabra" (Rossi, p. 260) volgarizzazione delle Georgiche, priva affatto di motivi di interesse.
La chiara opzione anticivile che emerge da questa seconda opera del F., culminante nella denuncia della fallacia del mito apologetico di una Firenze nuova Roma, pone un problema non indifferente di interpretazione, destinato, in mancanza di riscontri documentari, a rimanere insoluto. Sia che si voglia vedere nelle dichiarazioni pessimistiche del F. una finzione letteraria magari acuita da una senescenza irrequieta e riottosa, o che si preferisca pensare a una sua effettiva emarginazione dalla vita culturale e civile della Firenze laurenziana, l'opzione individualistica e privata espressa dall'Ambitione rappresenta, specie se confrontata con la convenzionale celebrazione del Trionfo, un indubbio ripiegamento polemico che non può non essere interpretato in chiave autobiografica e non gettare una luce inquietante sugli ultimi anni del Foresi.
Poco dopo la pubblicazione dell'opera, nel corso del 1488, il F. venne a morte.
Un estratto del poemetto in lode di Cosimo de' Medici è edito a tre mani in un opuscolo per nozze da P. Giorgi, F. Novati e P.A. Venturi: Il Trionfo di Cosimo de' Medici frammento d'un poema inedito del secolo XV, Ancona 1883.
Fonti e Bibl.: M.A. Sabellico, Opera omnia, IV, Basileae 1560, coll. 356 s.; M. Ficino, Opera omnia, I, Basileae 1576, pp. 643, 725 s., 788; Id., Lettere, I, Epistolarum familiarium liber I, a cura di S. Gentile, Firenze 1990, pp. LXX, CX, CXV s., CLXXXVIII, CCLIII s., 136; F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, IV, Bologna 1739, pp. 70 s., 263; F. Palermo, I manoscritti Palatini di Firenze, I, Firenze 1853, pp. 606-611; A. Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Firenze 1902, pp. 792 s.; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1956, p. 260; P.O. Kristeller, Ficino and his work, in M. Ficino e il ritorno di Platone, a cura di C.G. Garfagnini, Firenze 1986, pp. 82, 94 s., 138; P. Viti, Documenti ignoti per la biografia di M. Ficino, ibid., pp. 253, 269 s., 272 ss.; Indice generale degli incunaboli, II, p. 233; VI, p. 170; P.O. Kristeller, Iter Italicum, I, p. 172; V, p. 231.