MONTEFELTRO, Battista di
MONTEFELTRO, Battista di. – nacque a Urbino nel 1384 da Antonio, settimo conte di Urbino, e dalla contessa Agnesina di Giovanni della nobile famiglia dei Prefetti di Vico. Fu chiamata Battista (in realtà «Iohanna Baptista», per eliminare l’ambiguità del nome, usato nel XV secolo indifferentemente per uomini e donne) in omaggio allo zio materno Battista di Vico, morto negli stessi giorni.
Ricevette, insieme con il fratello Guidantonio e con la sorella minore Anna, un’educazione raffinata che la rese capace di poetare in volgare, alla maniera dei petrarchisti, e di comporre discorsi in latino. È costituito da lettere in latino e in volgare dirette ai familiari anche il suo epistolario (1427-45), che è pervenuto frammentario ma dal quale si arguisce l’esistenza di un più vasto carteggio, improntato alla quotidianità domestica, con i congiunti conti Montefeltro di Urbino, i parenti acquisiti Malatesta e quelli romani dei Prefetti di Vico.
Ventunenne, andò in sposa a Galeazzo Malatesta, primogenito del signore di Pesaro Malatesta di Pandolfo: le reciproche promesse nuziali, suggerite da ragioni politiche – grazie alla parentela acquisita con i Montefeltro di Urbino, infatti, si sperava di sottrarre Pesaro alle pressioni del potente ramo malatestiano di Rimini e di Fano –, erano già state scambiate nel 1404, ma la morte del padre di Battista causò un ritardo nella celebrazione del matrimonio, che di fatto avvenne il 14 giugno 1405.
Galeazzo aveva un anno in meno di Battista: privo di coraggio e di accortezza, tanto da meritarsi l’appellativo di «inetto», già nel portamento denotava un’indolenza e una debolezza di spirito che lo portarono, di volta in volta, ad appoggiarsi al padre, ai fratelli e, dopo le nozze, alla moglie, superiore a lui per animo e intelletto.
Dal matrimonio nacque, nella primavera del 1407, una bambina, cui fu dato nome Elisabetta, in omaggio alla nonna paterna Elisabetta da Varano. In quegli anni Battista si dedicò alla maternità, a intense letture, alla corrispondenza con l’amata sorella Anna e con le cognate Rengarda e Paola Malatesta, a qualche viaggio alla stazione termale di Petriolo nel Senese, e a pii pellegrinaggi a Loreto, a Roma e ad Assisi. Fu, inoltre, presente a Mantova per il matrimonio della cognata Paola con Gianfrancesco Gonzaga (1410) e nel febbraio 1418, insieme con la figlia e il marito, si recò a Fermo per le nozze di un’altra cognata, Taddea, con Ludovico Migliorati.
Nel 1417 ritornò a Mantova, dove pronunciò alla presenza del papa Martino V, appena eletto, e di un pubblico numeroso, un’eloquente orazione gratulatoria all’indirizzo del pontefice, a difesa del quale i Malatesta si erano schierati durante il concilio di Costanza, appoggiandone l’elezione. È probabile che nel marzo dello stesso anno Battista si trovasse con il suocero a Jesi per contrattare la liberazione di Galeazzo e del parente Carlo Malatesta di Rimini che, catturati in battaglia l’anno precedente da Andrea Fortebracci (Braccio da Montone), erano ancora tenuti prigionieri. Le trattative della primavera 1417 portarono al loro riscatto, pari a 30.000 scudi corrisposti da Malatesta, oltre alla cessione di Jesi a Fortebracci.
Il 24 agosto 1424 Battista e Galeazzo furono entrambi fatti prigionieri dal condottiero di ventura Angelo Della Pergola che, al comando delle milizie del duca di Milano Filippo Maria Visconti, prese d’assalto e saccheggiò il castello di Gradara. I coniugi furono liberati poco dopo, ma l’episodio condusse i Malatesta nell’orbita di influenza viscontea.
A Pesaro Battista aveva trovato una corte legata all’ambiente umanistico fiorentino, sensibile alle lettere e alle arti. L’incontro con tale ambito e con il suocero, che era noto come Malatesta dei Sonetti in virtù della sua passione e abilità poetica e con il quale Battista ebbe anche uno scambio di sonetti, sortì su di lei, che già presso la corte feltresca aveva acquisito quotidiana consuetudine con i classici, un’influenza decisiva. Fu quindi tra le prime donne a godere di fama nel mondo letterario e con lei si inaugurò alla corte di Pesaro la presenza colta femminile, la cui tradizione fu poi intensificata dagli Sforza.
Gran parte della vita di Battista fu dedicata all’educazione della figlia Elisabetta, con l’aiuto dell’umanista aretino Leonardo Bruni che, improntato agli ideali di Coluccio Salutati, scrisse il De studiis et litteris liber ad dominam Baptistam de Malatestis, contenente nella lettera di dedica espressioni di sincera ammirazione per Battista.
Tra le lettere autografe di Battista in latino si distingue quella indirizzata, intorno al 1425, a papa Martino V di cui implorava il paterno e autorevole intervento a favore della cognata Cleofe, che il marito Teodoro Paleologo, despota della Morea, minacciava di ripudiare se non avesse abiurato la fede cattolica. La missiva fu poi affidata al cognato Pandolfo Malatesta, arcivescovo di Patrasso, perché l’avvalorasse con più ferventi parole. Particolari sull’infelice condizione di Cleofe si ricavano anche dall’epistola (12 febbraio 1427) inviata alla cognata Paola Malatesta, cui Battista era legata dalla comune inclinazione agli studi e alle opere pie.
All’indomani della scomparsa del suocero (19 dicembre 1429), Battista ebbe chiara la delicata situazione della signoria pesarese, che vedeva nelle discordie degli eredi Carlo e Pandolfo Malatesta e nell’inettitudine di Galeazzo i maggiori punti di criticità. Il 20 febbraio 1431 morì anche Martino V, da sempre favorevole alla casata malatestiana che aveva legato attraverso unioni matrimoniali alla propria; la disposizione del suo successore, Eugenio IV, non altrettanto favorevole ai signori di Pesaro, alimentò una rivolta popolare contro i Malatesta, sostenuta anche dalle armi del vescovo di Recanati Giovanni Vitelleschi. I Malatesta furono cacciati dalla città nel giugno 1431: Carlo tentò la difesa di Fossombrone, Galeazzo si rinchiuse nel castello di Gradara, mentre Battista si rifugiò a Urbino. Qui, nel 1433, indirizzò all’imperatore Sigismondo, di passaggio per la città feltresca dopo aver ricevuto la corona dalle mani del papa, un’orazione latina per convincerlo ad appoggiare il rientro a Pesaro del marito e dei cognati – fatto che si verificò in quello stesso anno (1433) – e gli presentò anche l’infelice caso del genero Piergentile da Varano che, complici i suoi stessi fratelli, era stato accusato di tradimento ed era tenuto prigioniero a Recanati.
Nel 1434, quando Piergentile fu decapitato per ordine del Vitelleschi, Elisabetta si rifugiò con i figli presso i genitori a Pesaro, dove rimase fino al 1443, allorché recuperò la signoria di Camerino, acquisendone la reggenza in nome dell’erede Rodolfo da Varano. Coadiuvata dalla madre, dalla quale ricevette fecondo impulso intellettuale la nipote Costanza da Varano, Elisabetta fu al centro della vita culturale della città dedicandosi altresì all’educazione dei figli e a opere pie. Battista, fervente devota di S. Chiara, volle che la casa delle terziarie, fondata a Pesaro dalla suocera Elisabetta Varano Malatesta, fosse convertita in monastero di clausura, detto del Corpo di Cristo; ottenuta l’autorizzazione dal pontefice Eugenio IV con bolla del 10 dicembre 1438 da Ferrara, dedicò grande cura a questo monastero, di cui la figlia fu patrona e amministratrice.
Intanto moriva senza eredi Carlo Malatesta (14 novembre 1438) e a Battista spettò insieme con il cognato, l’arcivescovo Pandolfo, la conduzione della signoria di Pesaro. La già precaria posizione dei Malatesta si aggravò ulteriormente con la morte di Pandolfo (21 aprile 1441), che lasciò Battista priva del sostegno necessario per arginare le negligenze del marito. In suo aiuto accorse il nipote Federico da Montefeltro: dal presidio armato del signore di Urbino, infatti, dipendeva ormai interamente la salvezza del piccolo Stato pesarese. Battista sperò invano che l’arrivo nella Marca di Francesco Sforza e della giovane seconda moglie Bianca Maria Visconti, ospiti a Gradara e a Pesaro di Battista e di Galeazzo, potesse risollevare le sorti della signoria, che invece fu messa poi a dura prova da un’insurrezione scoppiata in città (8 aprile 1443) e dalla vittoria di Sigismondo Pandolfo, genero e capitano generale di Francesco Sforza, a Monteluro, l’8 novembre 1443.
Battista fu costretta a cedere anche sue personali proprietà che furono permutate o alienate. Tale situazione di incertezza la spinse a rinunciare alla custodia, fino all’età delle nozze, della nipote Violante da Montefeltro, figlia del fratello Guidantonio, come richiedeva invece il futuro marito Malatesta novello, il quale, temendo che con l’avvento di Federico lo Stato di Urbino si sarebbe schierato a fianco dello Sforza e contro il pontefice eugenio IV e i suoi alleati, tra cui egli stesso, voleva sottrarre la sua promessa sposa a qualsiasi ingerenza da parte del fratellastro. Battista non volle porsi contro il nipote Federico, al quale espresse l’intenzione di assecondarne il volere, e Violante rimase a Urbino insieme con le sorelle Agnesina e Sveva.
Più volte Battista aveva sospettato che il marito Galeazzo intendesse rinunciare alla signoria per ritirarsi a vita privata. A tal proposito aveva scritto, invano, alla cognata Paola perché intervenisse nei confronti del fratello per richiamarlo agli obblighi di governo. I suoi timori si avverarono: insensibile alle suppliche della moglie, il 18 gennaio 1445 Galeazzo lasciò la signoria su Fossombrone a Federico da Montefeltro e quella su Pesaro ad Alessandro Sforza, fratello di Francesco. Il contratto prevedeva inoltre che Alessandro Sforza prendesse in moglie Costanza, nipote di Battista e di Galeazzo, alla quale era assegnata in dote Pesaro.
Il passaggio formale della città avvenne il 16 marzo dello stesso anno con l’entrata in Pesaro di Alessandro. A differenza del marito, che si era trasferito a Montemarciano con il figlio naturale Maltosello, Battista rimase orgogliosamente ad accogliere il nuovo signore, dal quale ricevette parole di stima. Dopo di che fece ritorno alla città natale di Urbino, mentre Galeazzo si stabilì a Firenze. I due coniugi non si videro mai più.
Battista, ormai sola e con l’unica figlia reggente a Camerino, da Urbino sperò di ottenere l’autorizzazione pontificia a prendere il velo delle clarisse, pur essendo ancora vivo il marito. Nell’attesa entrò nel convento di S. Lucia a Foligno come conversa, da dove si recò, inutilmente, a Roma per ottenere la dispensa da Eugenio IV. In tale frangente abbandonò gli studi laici per quelli spirituali: ancor prima di lasciare Pesaro aveva donato ai suoi familiari i libri appartenenti alla prima fase della sua vita.
Si ascrive a questi ultimi lustri della sua vita gran parte delle sue rime spirituali, ispirate a una totale rinuncia alle cose mondane in favore delle gioie segrete del chiostro, con uno stile improntato ai modi popolareschi della poesia devota dei laudesi e in contrapposizione alle forme auliche del petrarchismo cui Battista si era ispirata nella giovinezza. Il ritiro claustrale, quindi, rappresentò lo sbocco ideale di una vita la cui ispirazione e proposito costante erano stati, da sempre, il disprezzo per le grandezze mondane e il distacco dal mondo profano, qualità che ammirava in s. Girolamo, in omaggio al quale volle chiamarsi suor Girolama. Appartengono probabilmente agli anni di ansiosa attesa del chiostro i trattati De vera religione e De humanae conditionis fragilitate che, oggi perduti, gli eruditi le riconoscono.
Alla morte di Eugenio IV, con l’avvento al soglio pontificio di Niccolò V, fu più facile per Battista prendere il velo delle clarisse: ottenuta la dispensa, il 2 giugno 1447, a 63 anni, con il nome di suor Girolama dettò, nell’atto della professione, anche il suo testamento, lasciando eredi universali, in parti uguali, S. Lucia di Foligno – dove visse tre anni – e la figlia Elisabetta che, nominata esecutrice testamentaria, avrebbe dovuto provvedere a saldare tutti i suoi creditori. Oltre a donare i suoi libri al cenobio di Foligno, destinò al guardiano e ai frati di S. Francesco di Pesaro un volume di epistole di s. Girolamo, che si trovava presso la nipote Costanza, e un libretto di sermoni di Iacopo da Varazze al convento di S. Domenico di Foligno. Nessuna menzione si ha del marito Galeazzo che, il 20 luglio 1449, si sposò con Maria Maddalena de’ Medici.
Battista morì il 3 luglio 1448 nel monastero di S. Lucia a Foligno.
A suffragare tale data Annibale degli Abati Olivieri Giordani (1782, pp. XXVII-XXX) documenta un mandato di procura postumo (29 aprile 1449) fatto redigere dalle monache dello stesso cenobio, da cui risulta che Battista era già morta.
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