Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nasce e muore con la Repubblica di Weimar la scuola della Bauhaus, un riferimento per le arti a venire e un laboratorio teorico e pratico nel quale si misura la possibilità dell’arte – delle arti tutte sotto l’egida dell’architettura – di porsi come fattore universale di sintesi. Da lì passano e si confrontano personalità e poetiche di straordinaria importanza: Gropius, Klee, Moholy-Nagy, Kandinskij, e poi scultori, costumisti, grafici e artigiani.
La scuola dell’utopia e della realtà
Nell’aprile del 1919 a Weimar, dove è riunita l’Assemblea nazionale tedesca per promulgare la Costituzione, viene presentato il programma di una nuova scuola. Si chiama Bauhaus (letteralmente “casa del costruire”), e il suo direttore è Walter Gropius, in quel momento alla guida dell’Arbeitsrat für Kunst.
Del frenetico slancio utopico dell’Arbeitsrat la Bauhaus è il frutto. In occasione della sua nomina a direttore, proclamando che intento della scuola è di “contribuire a portare alla vittoria un radicale credo artistico attraverso l’unione di una piccola minoranza”, senza “tollerare alcun compromesso”, Gropius sembra rinnegare le istanze del Deutscher Werkbund e il proprio passato di protagonista dell’associazione. Già nel 1910, egli si era fatto portavoce della necessità di entrare a patti con l’industria, assumendo il principio della standardizzazione all’interno della pratica architettonica: “si arriverà così a una felice unione di arte e tecnica” e alla definizione dello “stile dell’epoca”, basato sull’“unitarietà di forme che, una volta riconosciute buone, si ripetono continuamente”. Nel 1912 realizza un manifesto dell’architettura industriale come il Faguswerk ad Alfeld, in Bassa Sassonia. Solo tenendo conto del fatto che la sua preoccupazione precipua non consiste nella tipizzazione quanto nella definizione di uno stile architettonico adeguato alla modernità si può comprendere come mai, nella riunione del Werkbund del 1914, Gropius si schieri a difesa dell’autonomia del lavoro intellettuale, e come mai nel dopoguerra sia disposto a far proprie idee antitetiche a quelle del Werkbund.
Nel corso del conflitto Gropius si propone come direttore della Scuola d’arti applicate di Weimar, fondata e già diretta da Henri van de Velde . Nel frattempo, ricevuta la proposta di organizzare una sezione d’architettura per l’Accademia, ribadisce le proprie convinzioni secondo cui solo l’artista “possiede la capacità di insufflare l’anima nel prodotto inerte della macchina”, e quindi la sua collaborazione è indispensabile per “garantire al prodotto delle macchine la qualità artistica”; a emergere dev’essere “una stretta comunità di lavoro tra il commerciante e il tecnico da un lato e l’artista dall’altro”. A fine guerra, Gropius ottiene l’incarico di direttore dei due istituti, accorpati. La situazione è irripetibile. Sono vacanti tutti i posti alla scuola e quattro cattedre all’Accademia. Vi è l’opportunità di cooptare il corpo docenti in funzione del programma.
Il manifesto e il programma con cui viene presentata la Bauhaus condividono molte istanze dell’Arbeitsrat. Proclamano la necessità di riunire le arti sotto l’egida dell’architettura, “il fine ultimo di ogni attività figurativa”. Dichiarano l’impossibilità di insegnare l’arte – “è qualcosa che non può essere insegnato; suscettibile di insegnamento è invece l’artigianato” –, per quanto non vi sia “alcuna differenza sostanziale tra l’artista e l’artigiano. L’artista è un artigiano a un livello superiore. La grazia del cielo, in rari momenti di illuminazione che trascendono il suo volere, fa fiorire l’arte, senza che lui ne abbia coscienza, nell’opera della sua mano; quel che in ogni artista è però essenziale è la base artigianale!”. Traspongono così la costruzione comunitaria e “sacra, rara e senza scopo” per eccellenza – la cattedrale – in un futuro in cui “da milioni di mani di artigiani si innalzerà verso il cielo come un simbolo cristallino di una nuova fede che sta sorgendo”.
Su questa base vengono tracciati i principi ordinatori dell’insegnamento. Al centro sta il laboratorio artigianale: “la scuola è al servizio dell’officina e un giorno dovrà risolversi in essa. Perciò alla Bauhaus non ci saranno insegnanti e studenti, ma maestri, lavoranti e apprendisti”. Intorno, si dispone l’insegnamento delle “discipline pratiche e scientifiche della creazione artistica”. Rimarrà disattesa l’annunciata “progettazione in comune di lavori utopistici di grande respiro”: l’architettura, fine ultimo della Bauhaus, per coerenza non viene insegnata. Per non precluderne il futuro avvento, va per il momento lasciata nell’indeterminato: alla produzione di “cose di uso quotidiano, che devono essere semplici, funzionali e ben fatte”, deve corrispondere la preservazione del futuro, in tutta la sua grandezza, intatto, sino a quando non emergerà “un’idea di tipo religioso-spirituale, un’idea universale, grande, vitale che dovrà trovare la sua espressione cristallina in un grande Gesamtkunstwerk [opera d’arte totale]. E questo grande Gesamtkunstwerk, questa cattedrale del futuro, irraggerà la sua pienezza di luce sin nelle cose più piccole della vita quotidiana […]. Noi non faremo in tempo a vedere tutto ciò, ma siamo i precursori e i primi strumenti di una tale nuova idea universale”.
In tali proclami sfociano inoltre numerose istanze della riforma dell’insegnamento artistico, tema topico della coeva cultura tedesca. Vi aveva riflettuto il Werkbund; nel 1918, l’Arbeitsrat aveva incaricato Oskar Bartning di preparare un piano per la riforma generale dell’istruzione artigianale e artistica. Le affinità tra tale piano e il programma della Bauhaus sono notevoli; la specificità di quest’ultimo consiste sostanzialmente nella levatura dei ‘maestri’ e nella personalità di Gropius. Oskar Schlemmer affermerà: “La struttura autentica della Bauhaus si esprime nella persona del suo direttore: versatile, non legato ad alcun dogma, con il fiuto per ogni cosa nuova, per ogni cosa attuale che si dia al mondo, e con la precisa volontà di assimilarla, nonché di stabilizzare questo grande processo di cose, di portarle a un denominatore comune, di dar vita a un codice. Donde una irrequietudine permanente”.
I primi artisti a venire chiamati sono Lyonel Feininger, autore della “cattedrale del futuro” del Manifesto, e Gerard Marcks, entrambi soci del Werkbund e membri dell’Arbeitsrat. A seguire, giungono Joseph Itten, Georg Muche (1895-1987), Paul Klee, il già citato Oskar Schlemmer, Lothar Schreyer (1886-1966) e Vassilij Kandinskij . Tra questi, a rivestire il ruolo principale nei primi anni è Itten, titolare del corso preliminare della durata di sei mesi, obbligatorio per tutti gli apprendisti e che, non previsto inizialmente, è una delle principali correzioni in itinere apportate al corso di studi. Itten, artista dalla notevole esperienza in ambito pedagogico, lo concepisce come l’occasione per riattivare le doti innate degli allievi. Prima della lezione, vengono compiuti esercizi di rilassamento e respirazione per “avviare – nell’ironico commento di Klee – il motore per il funzionamento emotivo”; durante, si compiono esercitazioni in cui si assemblano materiali diversi, si riflette sull’impiego dei colori, si acuisce la sensibilità sensoriale, si disapprendono le nozioni acquisite e si riapprende a esprimersi, empaticamente, così da liberare le facoltà creative.
Itten e Gropius
Sotto l’influsso di Itten gli allievi rispettano strane diete e indossano un particolare abito; a risultarne è il senso di una “segreta cospirazione”, di costituire l’embrione di una nuova società. Intorno al 1922, Gropius inizia a opporsi all’indirizzo che Itten sta imprimendo alla scuola, arrestandola su una posizione di irrigidita chiusura al mondo; allo stesso modo, per “lasciare le cose in sospeso, in una sorta di ordine in continuo movimento”, si oppone alla chiamata di Theo van Doesburg. I laboratori sono ormai a pieno regime. Concluso il corso preliminare, e passato un esame, gli allievi scelgono un indirizzo della durata di tre anni, nel corso dei quali lavorano in un laboratorio – presto si attivano quelli di tipografia, ceramica, scultura in pietra, scultura in legno, tessitura, legatoria, legno, metalli, pittura murale, arte vetraria – affiancati da un “maestro artigiano” e da un “maestro della forma”, ossia uno degli artisti che insegnano alla Bauhaus. L’occasione per la svolta è la mostra, di grande successo, che la Bauhaus tiene nel 1923, appena dopo le dimissioni di Itten. Vengono mostrati i prodotti e le opere di maestri e apprendisti, caratterizzati da un riduzionismo e un aspetto artigianale che ancora rifiutano l’esattezza del prodotto industriale; viene realizzata una casa sperimentale, allestita una mostra internazionale d’arte e d’architettura, organizzata una settimana di eventi e ospitata la riunione annuale del Werkbund. Ora Gropius si dichiara convinto che il grande problema è “se produrre lavori singoli, in piena contrapposizione al mondo economico esterno, oppure cercare un contatto con l’industria”, e che, per non “diventare un’isola di eccentrici”, la Bauhaus deve aspirare a “esercitare un influsso decisivo sull’attuale produzione artigianale e su quella industriale”. È il momento, riflette Schlemmer, dell’“abbandono dell’utopia. Noi possiamo e sappiamo fare cose quanto mai reali, vogliamo perseguire la realizzazione delle idee. Anziché cattedrali, la macchina per abitare”.
L’età dell’oro
Con questo ha inizio la fase più celebre della vita della scuola, sebbene nel 1924, osteggiato dalla destra di Weimar, la Bauhaus sia momentaneamente costretto a chiudere. Ormai però è celebre e ha solo l’imbarazzo della scelta tra le città in cui trasferirsi. Mentre a Weimar sopravvive sino al 1930 una scuola superiore di architettura, posta sotto la direzione di Bartning, la Bauhaus riapre l’anno successivo a Dessau, dove Gropius ha l’opportunità di costruire, oltre a quattro case per i maestri e al quartiere Törten, la sede della scuola, una delle pietre miliari dell’architettura del secolo. I contatti con l’industria si sono fatti solidi, e la Bauhaus ottiene introiti approntando prototipi per l’industria; la lampada Jucker-Wagenfeld, in particolare, e la poltrona Wassilij di Marcel Breuer riscuotono un immediato successo. Viene avviata la pubblicazione di una collana di libri – i Bauhausbücher – e di una rivista, “Bauhaus”. Il laboratorio di teatro sotto la guida di Schlemmer dà i suoi frutti più maturi. Soprattutto il corso preliminare, tenuto ora da László Moholy-Nagy, è emblema del nuovo motto della scuola, quello di “Arte e tecnica: una nuova unità”. I laboratori sono ora gestiti dagli ex apprendisti della Bauhaus – Breuer, Joseph Albers, Gunta Stölzl (1897-1983), Herbert Bayer, Hinnerk Sheper (1897-1957), Joost Schmidt –, capaci di svolgere al contempo il ruolo di maestro artigiano e della forma. Come un fulmine a ciel sereno giungono, nel 1928, le dimissioni di Gropius, motivate con l’intenzione di dedicarsi alla professione. La Bauhaus – in cui l’insegnamento dell’architettura era sino a poco prima rimasto assente, anche se Gropius aveva cercato di coinvolgere gli allievi nelle proprie opere, come la casa Sommerfeld e il teatro di Jena, e ne aveva assunti alcuni nel proprio studio – diviene ora una scuola di architettura. Direttore della scuola è Hannes Meyer, che Gropius aveva chiamato a dirigere la sezione d’architettura nel 1927.
Un progetto e il suo tempo
Per Meyer, comunista, la Bauhaus è “settaria” ed “estetizzante”; costruire è questione “sociale, tecnica, economica e psicologica” e l’insegnamento dev’essere “di tipo funzionalistico e collettivistico”. Al centro della scuola viene posta l’architettura, intesa come una tecnica volta al servizio di fini sociali, chiamata a “soddisfare i bisogni del popolo e non le esigenze del lusso”: posta al centro, ma negata come arte, risolta nelle sue implicazioni sociali e politiche. Vengono chiamati Hans Wittwer, Ludwig Karl Hilberseimer, Mart Stam, Karel Teige. Con la svolta a destra della vita politica tedesca, il comunismo di Meyer si rivela un ostacolo insormontabile. Costretto a dimettersi, viene rimpiazzato da un architetto di straordinarie doti, enorme prestigio e acclarata apoliticità come Mies van der Rohe, direttore dal 1930 sino alla chiusura. Con gli “studenti” – non più apprendisti – di sinistra viene adottato il pugno duro; il corso preliminare e i laboratori non sono più obbligatori. La riduzione della Bauhaus a scuola di architettura viene ultimata, anche se in senso antitetico a come l’intendeva Meyer. Nell’agosto 1932, in seguito alla vittoria dei nazionalsocialisti in Turingia, la Bauhaus viene chiusa; per qualche mese riapre a Berlino come scuola privata, diretta da Mies, in cui insegnano ancora Kandinskij, Scheper e Albers; infine, nell’aprile del 1933, la Gestapo occupa la nuova sede e la dichiara sotto sequestro.
Dopo le dimissioni di Gropius, della sua Bauhaus comunque poco rimane. Sotto la sua direzione, e attraverso fasi solo apparentemente contraddittorie, obiettivo della Bauhaus è quello di dotarsi degli strumenti per attuare una sorta di riconfigurazione globale del reale che passi attraverso l’arte e la sua auspicata capacità di sintesi; che la riconfigurazione debba passare attraverso il rifiuto dell’industria o la sua collaborazione, la concreta trasformazione della vita quotidiana o l’aspirazione a quanto la trascende, è – nelle intenzioni – una differenza di mezzi, non di fini. Dalla Bauhaus dei primi anni, “la prima pietra di una repubblica dello spirito” intenta a “preparare l’unità a venire di un futuro migliore”, a quello della metà degli anni Venti, volto a realizzarlo pazientemente, vi è un passaggio, decisivo, ma non una frattura; giacché, come Gropius dichiarava nel 1916, “solo la capacità di trasmutare e configurare ex novo le condizioni di vita mutate o completamente nuove del nostro tempo definisce l’opera di un artista”. L’autentica frattura avviene quando le contraddizioni si palesano impossibili da risolvere attraverso la sintesi dell’arte – quando irrompe il mondo esterno nella forma della politica. Con Meyer, questo necessario processo è perseguito intenzionalmente; con Mies non può ormai essere che subito. In entrambi i casi, poco rimane dell’“idea” della Bauhaus. Lo stesso si può dire dei diversi tentativi di trapiantarla negli Stati Uniti, dove buone parte dei maestri si trasferiscono nel corso degli anni Trenta, o di riprenderne l’esperienza: tanto il New Bauhaus di Chicago (1937-1949) – poi School e infine Institute of Design –, diretto da Moholy-Nagy, quanto la Hochschule für Gestaltung di Ulm (1953-1968), diretta da Max Bill, sostanzialmente falliscono nel tentativo di restituire vita a un prodotto culturale storicamente determinato come la Bauhaus di Gropius.