Benedetto XI, beato
Nacque nel 1240 a Treviso, da Boccassio e da Bernarda, che gli imposero il nome di Niccolò. Il padre, che esercitava il notariato, era di umilissime origini e, a quanto pare, legato da oscuri rapporti di tipo semiservile ai signori di Colle San Martino.
Di una famiglia Boccasini comunque non si ha alcuna notizia e il nome di Niccolò Boccasini attribuitogli dalla tradizione agiografica e storiografica va corretto in Niccolò di Boccassio. Boccasino si chiamava lo zio paterno, prete a S. Andrea di Treviso, dal quale sembra che egli ricevesse la sua prima istruzione dopo la morte prematura del padre.
L'infanzia e l'adolescenza di Niccolò restano un appannaggio della leggenda agiografica. La prima attestazione sicura risale al testamento di Castellano di Colle San Martino, novizio nel convento domenicano di Bologna, che il 2 ottobre 1256 destinò la somma di 25 libbre veneziane a favore di Niccolò, a patto che si decidesse ad entrare nell'Ordine. Pochi mesi dopo, la sua vocazione religiosa giunse a piena maturazione: nel 1257 fu accolto dal convento domenicano di Treviso.
Dei suoi studi e della sua carriera nell'Ordine non si hanno molte notizie: secondo una tradizione alquanto tarda, avrebbe studiato logica a Milano dal 1262 al 1268; più tardi fu lettore, probabilmente di teologia, in vari conventi, sicuramente a Venezia, dove, a quanto assicura Giovanni Villani, si occupò anche dell'educazione dei figli di Romeo Querini, un patrizio veneziano con il quale Niccolò conserverà sempre buoni rapporti. I legami con Treviso restarono ben saldi: nel 1276 e poi ancora nel 1280 due suoi concittadini gli lasciarono per testamento un legato. Nel 1282 insegnò nel convento di Genova. A questi anni di lettorato risalgono con tutta probabilità alcuni scritti teologici dei quali non si hanno notizie sicure. Un solo trattato di esegesi neotestamentaria, conservatosi fino al sec. XVI, fu pubblicato da G. Lazari nel 1603 a Venezia con il titolo B. Benedicti p. XI in evangelium D. Matthaei commentaria.
La carriera nell'Ordine si dovette svolgere secondo un iter normale: sottopriore e poi priore, non si sa bene di quali conventi, nel 1286 Niccolò fu eletto provinciale di Lombardia dal Capitolo riunito a Brescia. Tenne tale carica fino al 1289 e poi di nuovo dal 1293 al 1296. Il governo della provincia di Lombardia, una delle più importanti dell'Ordine, gli procurò una notevole esperienza di uomini e di cose, e un prestigio considerevole che il 12 maggio 1296 gli valse nel Capitolo di Strasburgo l'elezione a maestro generale. Giunto alla direzione del grande Ordine, Niccolò si trovò subito nella necessità di prendere posizione davanti al conflitto che dilaniava in quel momento la vita della Chiesa. La ribellione dei cardinali Pietro e Giacomo Colonna contro Bonifacio VIII aveva trovato infatti le vie di un minaccioso collegamento con l'agitazione dei Francescani Spirituali che contestavano al papa la legittimità della sua stessa elezione e ne insidiavano l'autorità con una vasta e pericolosa campagna diffamatoria. Nel Capitolo celebrato a Venezia nel maggio del 1297 l'Ordine domenicano si schierò compatto in difesa di Bonifacio, disponendo l'avvio di una campagna capillare di predicazione a sostegno dell'autorità pontificia. Alla determinazione di tale posizione, perfettamente in linea con la tradizionale avversione domenicana all'ecclesiologia mistica degli Spirituali, e in genere verso ogni tentativo di disgregare l'unità della Chiesa e di minare l'autorità del suo capo, contribuì decisamente l'atteggiamento assai risoluto di Niccolò, che nello stesso Capitolo invitò i suoi confratelli a scendere in campo per proclamare contro i ribelli "sanctissimum patrem et nostrum dominum Bonifacium divina providentia summum pontificem tamquam verum Christi in terris vicarium ac beati Petri [...] successorem legittimum [...]".
Il papa non mancò di apprezzare questo deciso intervento in suo favore: nello stesso 1297 affidò a Niccolò un incarico diplomatico che lo legò all'attività della Curia e gli conferì ulteriore prestigio. Si trattava di intervenire, insieme con il generale dei Francescani Giovanni de Murro, presso i re di Francia e d'Inghilterra per indurli alla pace. La missione si concluse assai presto con un pieno successo. Edoardo I e Filippo il Bello, ormai stanchi dell'estenuante conflitto, accettarono di buon grado la mediazione pontificia e il 31 gennaio 1298 i loro delegati conclusero a Tournai un armistizio di due anni.
Subito dopo giunse a Niccolò, che si tratteneva ancora in Francia per visitare i conventi del suo Ordine, la notizia della nomina a cardinale, decretata da Bonifacio il 5 dicembre 1298. Gli fu assegnato il titolo di S. Sabina commutato poi, il 2 marzo 1300, in quello più elevato di Ostia e di Velletri che comportava le funzioni di decano del Sacro Collegio.
La sua elevazione al cardinalato nelle intenzioni di Bonifacio VIII doveva legare strettamente l'Ordine domenicano all'iniziativa pontificia. Niccolò che, appena nominato cardinale, aveva rinunciato alla carica di maestro generale, continuò a partecipare alla vita interna dell'Ordine, patrocinando nel 1300 l'elezione a maestro generale di Alberto da Chiavari, un confratello della provincia lombarda di sua stretta fiducia. Questo intervento non riuscì molto gradito ai suoi confratelli, gelosissimi della loro indipendenza e insofferenti di ogni interferenza della Curia nella loro vita interna. Pochi mesi dopo, sopraggiunta improvvisamente la morte di Alberto da Chiavari, un provvedimento pontificio, diretto ad assicurare la reggenza a Niccolò contro la tradizione che la destinava al vicemaestro generale in carica, acuì ulteriormente l'irritazione dell'Ordine. Nel Capitolo generale celebrato a Colonia nella primavera del 1301 il candidato di Niccolò, Lamberto da Lodi, ancora un confratello lombardo, fu in conseguenza bocciato. Il tentativo di garantire alla Curia un diretto controllo dell'Ordine domenicano finì quindi con l'alienargli le simpatie dei confratelli e accentuò la sua dipendenza dal papa, al cui servizio doveva segnalarsi ancora, se non per straordinaria abilità, certamente per zelo.
Nel 1301 Bonifacio VIII affidò infatti a Niccolò una seconda missione diplomatica, nominandolo il 13 maggio legato in Ungheria con il compito di farvi prevalere i diritti di Caroberto d'Angiò alla successione del suo parente Ladislao IV, morto nel 1290 senza eredi. La missione non era delle più facili, perché la gran parte della nobiltà e del clero ungherese, osteggiando una soluzione angioina della crisi dinastica, offrì la Corona a Venceslao di Boemia che il 26 agosto 1301 fu incoronato re dall'arcivescovo Giovanni di Colocza. Trasferitosi in Ungheria, Niccolò tentò di ovviare al fatto compiuto, convocando a Buda un sinodo inteso a trasferire la Corona a Caroberto. L'improvvisa morte dell'arcivescovo di Colocza, uno dei principali esponenti della fazione boema, sembrò agevolargli il compito, offrendogli la possibilità di insediare nell'importante cattedra arcivescovile un ecclesiastico di sicuri sentimenti filoangioini. Nonostante questo successo iniziale, la missione si risolse tuttavia in un completo fallimento: la quasi totalità del clero e dei magnati ungheresi persistette nella fedeltà al re Venceslao; al papa non restò che invitare i due pretendenti a Roma per sottoporsi all'arbitrato pontificio. Niccolò, mancando in Ungheria di ogni serio appoggio, nella primavera del 1302 si trasferì a Vienna, dove restò fino alla fine dell'anno. Nel corso di questo soggiorno pare che intervenisse nelle trattative già in corso per garantire a Bonifacio l'appoggio di Alberto d'Asburgo nella questione ungherese e nel conflitto con la Francia che nel frattempo si era aggravato in modo preoccupante.
Quando nel maggio del 1303 Niccolò rientrò a Roma, il contrasto con Filippo il Bello aveva raggiunto già il suo punto di massima tensione. Il 13 aprile il papa aveva dichiarato che il re era incorso nella scomunica. Due mesi dopo un'assemblea di laici ed ecclesiastici francesi convocata a Parigi per iniziativa reale invocò un concilio generale per giudicare la condotta del pontefice. Nella notte fra il 6 e il 7 settembre il primo consigliere del re, Guglielmo di Nogaret, s'impadronì in Anagni della persona del papa che poté riacquistare la libertà solo dopo tre giorni, in virtù di una sommossa popolare, per morire, però, subito dopo a Roma, l'11 ottobre 1303. Niccolò, che si trovava ad Anagni, poté seguire da vicino tutta la drammatica vicenda, ma non pare che si sia compromesso in alcun modo.
Il conclave, riunito il 21 ottobre, dieci giorni dopo la morte di Bonifacio VIII, già il 22 elesse in prima votazione e all'unanimità Niccolò, che assunse il nome di Benedetto XI, a quanto pare in omaggio alla memoria di Benedetto Caetani. Cinque giorni dopo fu incoronato in S. Pietro alla presenza del re Carlo II d'Angiò.
Una così rapida unanimità sul nome di un cardinale dal rilievo tanto modesto non può non meravigliare, tanto più se si considera quanto profondamente diviso fosse il Collegio cardinalizio. Si deve tener conto tuttavia della circostanza che i cardinali Colonna, principali esponenti della fazione filofrancese, nonostante le loro veementi proteste, non furono ammessi in conclave e che Carlo II, accorso a Roma con le sue truppe in difesa di Bonifacio VIII, esercitò una notevole influenza sulla elezione del nuovo papa avendo seri motivi di riconoscenza verso B. per lo zelo filoangioino mostrato nel corso della missione in Ungheria. All'interno del conclave, poi, i cardinali della fazione del defunto papa, capeggiata dall'energico Matteo Rosso Orsini, dovettero vedere in B. il candidato di sicura fede bonifaciana meno compromesso con la politica antifrancese del Caetani e quindi nelle migliori condizioni per superare le resistenze della fazione opposta. La quale, neutralizzata nelle sue possibilità di iniziativa dall'inevitabile contraccolpo del grave episodio di Anagni, dovette accettare la candidatura di B. come una soluzione interlocutoria, in attesa di una situazione più propizia all'elezione di un papa di stretta osservanza francese. Come elemento decisivo dovette pesare nella considerazione di entrambe le fazioni la posizione personale di B., cardinale di nomina recente e dal passato curiale poco prestigioso, che garantiva una sicura subordinazione all'influenza del Sacro Collegio. La sua elezione, prima diretta conseguenza della gravissima crisi della Chiesa aperta dall'episodio di Anagni, assume così tutto il significato di una tregua tra le opposte fazioni cardinalizie sgomentate dal tragico epilogo del conflitto con la Francia.
In effetti l'inesperto domenicano non tradì le aspettative dei suoi elettori. Privo di ogni seria base di potenza personale, senza il sostegno di un forte consorzio familiare, nel corso del suo breve pontificato egli si trovò alla mercé del Sacro Collegio. Non mancò in verità il tentativo di sottrarsi a una tutela tanto pesante con l'appello alla passata esperienza, alquanto limitata per un papa, di provinciale di Lombardia e di generale domenicano. Nel dicembre del 1303 egli introdusse infatti nel Collegio dei cardinali due domenicani di sua fiducia, Niccolò da Prato e l'inglese Guglielmo di Marsfield, che morì prima di giungere a Roma e fu sostituito con il connazionale Walter di Winterburn. Le risorse dell'Ordine domenicano erano tuttavia manifestamente inadeguate a sostenere un'autorità così vigorosamente insidiata.
Un impegno più massiccio B. dedicò al settore del governo dello Stato della Chiesa, che cercò di controllare direttamente con governatori di fiducia reclutati tutti nell'Alta Italia. Il 1° dicembre 1303 il conte trevigiano Rambaldo di Collalto fu nominato rettore "in temporalibus" delle province della Marca d'Ancona e di Massa Trabaria e della città e Contea di Urbino. Il nobile veneziano Iacopo Querini divenne rettore del Patrimonio di S. Pietro, il parmigiano Tommasino de Insula rettore di Campagna e Marittima, il bolognese Deoteclerio de Logliano rettore del Ducato di Spoleto, il brissinense Teobaldo Brusati rettore di Romagna. Vari altri trevigiani furono insediati nel governo di città e terre pontificie. B. volle anche rafforzare i poteri dei suoi rettori limitando le autonomie locali. Conseguenze particolarmente negative ebbe però l'abolizione delle costituzioni emesse da Bonifacio VIII a favore delle comunità della Marca d'Ancona, proclamata il 14 gennaio 1304, che provocò dopo la sua morte una violenta rivolta.
Questo tentativo di politica personale tradiva il disagio di un papa senza salde radici negli ambienti di Curia, dominati dai tradizionali consorzi famigliari romani e da prepotenti figure di cardinali quali Matteo Rosso Orsini e Napoleone Orsini. Come avvertì acutamente l'agente aragonese a Roma, García Miguel de Ayerbe, priore di S. Cristina, B. si trovava a suo agio solo con i Domenicani e i suoi fedeli dell'Alta Italia ("vis aperit iste papa os suum, nisi ad Predicatores et ad Lombardos", cfr. Acta Aragonensia, I, p. 162), nei quali cercava un impossibile contrappeso alla potenza della Curia. Il suo rapporto di dipendenza dal Collegio cardinalizio fu inaugurato simbolicamente dal suo primo gesto di sommo pontefice: il dono ai cardinali della cospicua somma di 46.000 fiorini. La circostanza assume particolare rilievo, se si considera che B. trovò le casse pontificie completamente vuote: persino il tesoro papale era stato trafugato nel corso dell'attentato di Anagni e il tentativo di recuperarlo non ebbe alcun risultato. La situazione finanziaria era disperata e non lasciava alcuna possibilità di movimento al nuovo papa, che fu costretto a prendere in prestito grosse somme dai banchieri fiorentini con l'impegno di rimborsarli con il frutto delle collette iniziate in tutta Europa.
L'eredità bonifaciana alla quale B. cercò di restare in qualche modo fedele rappresentò per il suo pontificato una ipoteca altrettanto pesante quanto quella imposta dalla Curia. L'aspro conflitto con i cardinali Pietro e Giacomo Colonna, deposti dal cardinalato, scomunicati e privati dei loro beni da Bonifacio VIII nel 1297, restava aperto. Alla notizia della morte del papa i due Colonna si erano precipitati a Roma, senza tuttavia riuscire a mettervi piede per l'opposizione di Carlo II d'Angiò. Esclusi dal conclave e dalla città, dove i loro partigiani scatenavano tumulti, pubblicarono un violento memoriale, nel quale contestavano la legittimità dell'elezione di B., innalzato al cardinalato da un papa eretico e al pontificato da un conclave incompleto. Forti dell'appoggio della fazione filofrancese, essi rivendicarono quindi l'immediata reintegrazione nella dignità cardinalizia e nei loro beni, suscitando la pronta reazione della fazione bonifaciana che in un proprio memoriale bollò d'infamia la condotta dei Colonna verso il defunto papa e ne stigmatizzò aspramente ogni possibilità di riabilitazione. La lotta fra le due fazioni si riaccese così con l'antico furore e indusse B., preoccupato di non sconfessare la politica di Bonifacio, ma anche di non aggravare la sua già tanto debole posizione rinfocolando l'aggressività dei Colonna, a un tentativo di compromesso. Con una bolla del 23 dicembre 1303 egli liberò i due cardinali e i loro parenti e partigiani dalla scomunica, ma senza reintegrarli nel cardinalato e nei beni. Questo provvedimento, adottato a dispetto dell'oltranzismo della fazione bonifaciana, conseguì solo il modesto risultato di smussare debolmente la punta più propriamente personale dell'attacco rivoltogli dai Colonna che non desistettero dalla loro opposizione radicale. Continuarono infatti a tramare con il re di Francia contro il papa e, particolare assai più grave, lo insidiarono nella sua stessa incolumità personale, scatenandogli contro violenti tumulti popolari che costrinsero B. a trasferirsi, prima dal Palazzo del Laterano in S. Pietro, e poi addirittura a Perugia nell'aprile del 1304. Difficoltà ancora maggiori presentava la questione dei rapporti con la Francia. Virtualmente concluso con la catastrofe di Anagni, il conflitto con Filippo il Bello attendeva ancora una soluzione ufficiale. La richiesta francese di convocare un concilio generale per condannare con la massima solennità la condotta di Bonifacio VIII non era certamente rientrata, e il Nogaret non mancò di avvertirne B., subito dopo la sua elevazione al pontificato. All'ambasciatore di Filippo il Bello, che si tratteneva nei dintorni di Roma, egli mandò il vescovo Pietro di Tolosa per invitarlo a sospendere ogni iniziativa, in attesa di nuove disposizioni del re, che era sua intenzione provocare al più presto mediante contatti diretti. Rassicurato da tali dichiarazioni il Nogaret rientrò in Francia, mentre un altro inviato di Filippo il Bello, il priore Pietro di Peredo, che ancora vivente Bonifacio VIII era venuto in Italia per propagandare l'idea del concilio, presentava a B. un memoriale, indirizzato originariamente al papa defunto e a lui riadattato.
Si trattava di un nuovo invito a convocare il concilio, ma la circostanza che il Peredo era accreditato per trattare solo con il defunto papa offrì a B. il pretesto per ignorarlo. La promessa rilasciata al Nogaret di entrare al più presto in contatti diretti con Filippo il Bello per concordare una rapida composizione delle annose vertenze ancora aperte dovette servire a B. da espediente per prendere tempo e per allontanare la minaccia immediata del concilio. Non risulta che egli abbia fatto alcun tentativo di allacciare rapporti diretti con Filippo, al quale evitò persino di mandare l'annuncio ufficiale della sua elezione che spedì invece, come voleva la prassi, agli altri sovrani. Né risulta che abbia preso provvedimenti per fronteggiare in un qualsiasi modo l'inevitabile ripresa dell'offensiva diplomatica francese.
Certo B. non aveva dubbi nella valutazione della politica antipapale del re, che egli considerava scomunicato, evidentemente sulla base delle stesse motivazioni del defunto papa. Questa convinzione non mancò di trapelare e indusse qualche osservatore contemporaneo a interpretare il suo atteggiamento di ostentata passività nella questione francese come un tentativo deliberato di continuare la linea intransigente di Bonifacio. Nel febbraio del 1304 l'agente aragonese García riferì infatti a Giacomo II: "non tamen adhuc aparent aliqua signa pacis, nec scripsit ei [al re] dominus papa [...], imo eum reputat excommunicatum et creditur magis, quod non sit pax quam quod sit" (Acta Aragonensia, I, p. 162).
Le prospettive di resistenza non erano tuttavia facilmente perseguibili. La gravissima situazione della Chiesa, umiliata nel suo prestigio e piegata nella sua potenza dallo scacco di Anagni, dilaniata all'interno dalla lotta implacabile delle fazioni cardinalizie e dalla ribellione degli Spirituali, era ben lontana dal permettere il minimo richiamo ad un'impossibile politica di supremazia del potere spirituale sul temporale, che avrebbe richiesto infine ben altra tempra di pontefice. Un'accorta politica di salvataggio delle posizioni irrinunciabili della Chiesa richiedeva l'immediato abbandono dell'eredità bonifaciana e la ricerca di un compromesso con la Francia su basi nuove, magari con il compiacente intervento mediatore di altri Regni cristiani.
B. invece non seppe seguire neanche la facile indicazione contenuta nelle stesse ultime battute della politica di Bonifacio, che aveva cercato di assicurarsi l'appoggio di Alberto d'Asburgo e di Carlo II d'Angiò in funzione antifrancese. A Carlo II il pontefice prestò tutta la sua assistenza nella questione ungherese: il 4 novembre 1303 nominò arcivescovo di Esztergom Michele, vescovo di Zagabria, un fedele sostenitore della causa angioina che riuscì a far prevalere in Ungheria. Non sollecitò però una contropartita nella questione del conflitto con la Francia e lo lasciò ritornare tranquillamente nel suo Regno. Maggiore insipienza mostrò nei confronti di Alberto d'Asburgo, che l'11 marzo 1304 irritò fortemente, invitandolo assai inopportunamente a restituire al suo più acerrimo nemico, l'arcivescovo di Magonza, i beni confiscatigli nel corso dell'aspro conflitto del 1302.
Questa condizione di assoluto isolamento agì potentemente a favore dei Francesi, che seppero sfruttare con altrettanta abilità la sostanziale irresolutezza del papa, immobilizzato dalla sua incapacità di sottrarsi alla tutela soverchiante del Sacro Collegio e all'ipoteca della lotta sfrenata delle sue fazioni. Nel febbraio del 1304 il priore di S. Cristina riferì a Giacomo II: "Dominus papa quasi nichil per se facit nisi cum consilio cardinalium, qui sunt divisi et faciunt partes manifeste, et sic, quod alii approbant, adii contradicunt" (H. Finke, p. LVIII). Stretto tra l'esigenza di tener fede alla tradizione bonifaciana, l'estrema inadeguatezza dei suoi mezzi e la realtà della situazione storica, B. si trovò completamente paralizzato nelle sue possibilità di azione, affidandosi a una tattica puramente dilatoria che lasciò sempre l' alla corte francese e finì col ridurlo alla più completa capitolazione.
Il 25 febbraio 1304 Filippo IV affidò i poteri di trattare a Roma con il papa, "de quibuscumque discordiis, quaestionibus et controversiis" intercorse con Bonifacio VIII, a una missione composta, oltre che dal Nogaret, da Bernard de Mercoeur, Pierre de Belleperche e Guillaume de Plaisans. Una speciale istruzione riservava ai tre ultimi plenipotenziari, che non erano compromessi nell'attentato di Anagni come il Nogaret, la facoltà "acceptandi et recipiendi [...] a sanctissimo patre Benedicto [...] absolutionis vel relaxationis beneficium, a quibuslibet excommunicationis vel interdicti sententiis", nel caso in cui si accertasse che il re fosse veramente incorso in queste pene. La riserva era della massima importanza, perché la corte francese, se da un lato voleva liberarsi dalla scomunica nella quale era effettivamente incorsa, dall'altro non intendeva riconoscerne la validità, né tanto meno offrire a B. la possibilità di presentare il suo intervento assolutorio come un elemento importante delle trattative, meritevole di adeguata contropartita. La riserva quindi scopriva il solo punto debole della posizione francese, al quale un negoziatore di maggiore esperienza e abilità si sarebbe certamente attaccato per bilanciare in qualche modo le pretese francesi e arrivare a una soluzione concordata. B. invece si lasciò sfuggire questa occasione: subito dopo l'arrivo della delegazione francese a Roma uscì improvvisamente dalla sua passività e il 25 marzo emise la bolla Tunc navis Petri, assolvendo il re e la famiglia reale dalle sentenze di scomunica nelle quali, a giudizio del papa, sarebbero incorsi secondo l'opinione di alcuni. Il 29 dello stesso mese comunicò ufficialmente a Filippo il Bello la sua elezione e il 2 aprile gli indirizzò una lunga lettera, nella quale rivendicò alla sua iniziativa pastorale il provvedimento assolutorio, invitando il re ad accoglierlo come una prova di benevolenza, diretta a riportare la corte francese nel grembo della Chiesa e a riconciliarla con la paterna autorità del pontefice.
La formula assai ambigua dell'assoluzione, che nel tono dubitativo richiama in tutta evidenza la posizione ufficiale della corte francese sulla questione della scomunica, indusse il Funke a contestare l'autenticità della bolla e della lettera del 2 aprile e ad attribuirne la redazione alla Cancelleria di Filippo il Bello. Ma, come hanno già osservato il Wenck, il Finke e R. Holtzmann, non c'è motivo di dubitare dell'autenticità dei due documenti, che insieme con l'altro del 29 marzo segnano la ripresa dei rapporti ufficiali con la Francia, dopo l'interruzione conseguente all'attentato di Anagni. Allo stato attuale della documentazione è difficile stabilire in base a quali considerazioni B. si sia indotto a un gesto così improvviso che, se non presenta alcun accenno di critica sia pur minima verso il suo predecessore, appare tuttavia in contrasto con l'atteggiamento di latente ostilità verso Filippo, documentato per i primi mesi del suo pontificato. Particolarmente grave risulta, ai fini di una precisa valutazione della condotta del papa, la carenza di ogni documentazione capace di illuminare in qualche modo il gioco delle fazioni cardinalizie che sicuramente non mancò di pesare sulla scelta di Benedetto XI. Con tutta probabilità l'ambiguità della formula assolutoria mascherava il proposito di corrispondere all'aspettazione del re, senza sconfessare minimamente la condotta di Bonifacio. A tale conclusione induce la circostanza che B. abbia evitato nella bolla ogni riferimento alla politica antipapale di Filippo e abbia lasciato in conseguenza sostanzialmente impregiudicata la questione della validità della scomunica, nella quale, come attesta il priore di S. Cristina, egli lo riteneva effettivamente incorso. B. preferì mantenersi sul piano generico di una paterna sollecitudine pastorale, probabilmente nella speranza di bloccare l'iniziativa francese con una forte concessione, che non poteva tuttavia suonare come un'aperta capitolazione, capace di assicurare alla Chiesa il tempo necessario per riprendere un po' della sua forza e del suo prestigio. Questo calcolo, se ci fu, risultò completamente sbagliato: irretito nella sua tattica dilatoria, B. non capì che la bolla Tunc navis Petri, invece di rafforzare la sua posizione, lo privò dell'unica arma disponibile per trattare con i Francesi. Ora non gli restava che capitolare su tutta la linea.
Nel corso del mese di aprile, mentre la Curia si trasferiva lentamente a Perugia, due agenti francesi, Guillaume de Chatenay e Hugues de Celle, iniziarono una febbrile attività per rilanciare la richiesta del concilio all'interno dello stesso Collegio cardinalizio. Riuscì loro di convincere sette cardinali, non tutti della fazione filofrancese, a promettere davanti a un notaio tutto il loro appoggio per la convocazione del concilio. Un gruppo di altri cardinali, guidati da Matteo Rosso Orsini, dichiarò agli stessi agenti e sempre davanti al notaio, che non aveva alcuna ostilità preconcetta alla convocazione di un concilio, ma desiderava rimettersi all'iniziativa pontificia. La minaccia del concilio si presentò così con forza ancora maggiore e indusse B. ad accedere completamente alle richieste francesi. Il 18 aprile 1304 B. sospese il provvedimento emanato da Bonifacio per togliere ogni efficacia ai titoli accademici rilasciati dalle università francesi e rinunciò al diritto di provvisione sulle chiese di Francia, preteso dal suo predecessore. Il 13 maggio rilasciò una serie di bolle che definirono nel senso desiderato dai Francesi tutte le questioni controverse ancora pendenti tra la Francia e la Santa Sede. I processi intentati da Bonifacio contro Filippo e i suoi funzionari furono annullati. Tutti i partecipanti francesi, laici ed ecclesiastici, all'attentato di Anagni furono liberati dalla scomunica, eccettuato il Nogaret, alla cui assoluzione B. si riservò di provvedere a parte. L'interdetto pendente sulla città di Pamiers e sugli aderenti del conte di Foix fu ritirato, e quello gravante su Lione fu sospeso per tre anni; gli ecclesiastici francesi che non avevano accolto l'invito di Bonifacio a presentarsi a Roma furono perdonati; il decreto che condannava il defunto Pierre Flote, il primo campione francese della lotta contro il papato, fu revocato. La questione finanziaria che aveva provocato tutto il rovinoso conflitto fu risolta nel modo seguente: la bolla Clericis laicos del 1296, che proibiva al potere temporale di esigere contribuzioni fiscali dal clero, non fu revocata; in compenso, però, fu concessa al clero francese la facoltà di sostenere finanziariamente la monarchia. A testimonianza delle sue buone intenzioni su questo punto, il 14 maggio B. concesse a Filippo la decima sulle rendite ecclesiastiche francesi per tre anni.
Come contropartita a queste gravissime concessioni, che seppellirono il sogno bonifaciano di riaffermare la superiorità pontificia sugli Stati cristiani e prepararono, per l'immediato futuro, il periodo avignonese del papato, B. ottenne il ritiro della richiesta francese del concilio e libertà di azione nei confronti del Nogaret e degli altri partecipanti italiani all'attentato di Anagni. Un ben magro compenso, se si considera che i Francesi non avevano più motivo di invocare il concilio una volta ridotto il papa alla loro mercé, e che il Nogaret e gli esponenti della fazione colonnese incriminati da B. continuarono a godere del favore reale.
Il 7 giugno 1304 B. poté prendere finalmente, con un ritardo di ben otto mesi, quei necessari provvedimenti contro gli esecutori materiali dell'attentato di Anagni, che il prestigio della Chiesa, così gravemente compromesso, richiedeva con ben altra tempestività. Con la bolla Flagitiosum scelus egli, sotto pena di scomunica, citò a comparire davanti all'autorità pontificia entro il 29 giugno Nogaret e alcuni dei principali esponenti colonnesi presenti ad Anagni. Nessuno degli incriminati obbedì all'intimazione, ma la solenne cerimonia della promulgazione della scomunica fu impedita dalla morte del papa.
L'eredità fallimentare dei sogni di supremazia accarezzati da Bonifacio VIII non mancò di pesare anche sulla politica italiana di Benedetto XI. Particolarmente significativo in questo senso è il maldestro intervento nella politica interna fiorentina che si risolse in uno scacco cocente per il papato. Il 31 gennaio 1304 B. nominò il suo fido Niccolò da Prato legato nelle province dell'Italia centrale, con il compito specifico di riportare la pace a Firenze, tormentata dalla consueta ferocia delle sue lotte di fazione. La missione, varata negli stessi mesi che registravano un atteggiamento di rovinosa passività nei confronti del conflitto con la Francia, rispondeva all'esigenza di ridare prestigio all'influenza pontificia, ma anche all'ambizione di avviare un'iniziativa politica personale capace di rafforzare la debole posizione del papa nei confronti della Curia. Incoraggiato da un iniziale successo, ottenuto con la pacificazione delle due fazioni nelle quali si erano divisi i Neri fiorentini, il cardinale legato tentò di promuovere il richiamo dei ghibellini e dei Bianchi, scontrandosi nella più violenta opposizione dei Neri. Il disegno di spostare totalmente l'equilibrio politico fiorentino, puntando in particolare sul ritorno dei Bianchi, capeggiati dalla famiglia di potenti banchieri, i Cerchi, alla quale B. si era legato a filo doppio affidandole il controllo delle finanze pontificie, risultò decisamente temerario. Provocò solo una ripresa ancor più sanguinosa della lotta delle fazioni che il 10 giugno costrinse il cardinale legato ad abbandonare precipitosamente la città, sulla quale lanciò l'interdetto. L'insistente azione pacificatrice del legato aveva scoperto il richiamo alla direttiva bonifaciana di sfruttare le lotte interne del Comune per estendere l'influenza pontificia sulla Toscana e su Firenze in particolare. La circostanza, per B. del tutto accidentale, di puntare sui Bianchi, in quel momento più deboli, anziché sui Neri come Bonifacio, giocò tutta a sfavore del pontefice e portò al più completo fallimento l'infelice iniziativa.
Un atteggiamento di estrema intransigenza B. tenne nei confronti della questione siciliana, una delle più care all'ambizione politica di Bonifacio VIII. Nel messaggio augurale inviatogli da Federico di Sicilia egli rilevò l'uso del titolo "rex Siciliae", riservato dal trattato di Caltabellotta agli Angioini di Napoli, e non mancò di levare, già il 30 novembre 1303, un'energica protesta. Chiese quindi il pagamento del censo dovuto alla Santa Sede, e nel gennaio del 1304 affrontò il problema delle sedi vescovili siciliane, in gran parte vacanti a causa della lunga guerra del Vespro, nominando ecclesiastici di sua fiducia, senza tener conto delle esigenze del re. La stessa fedeltà alla politica del suo predecessore osservò nei confronti di Giacomo II d'Aragona, al quale confermò e ampliò le concessioni di papa Bonifacio VIII per favorire la conquista della Sardegna.
Per quel che riguarda la vita interna della Chiesa l'attività di B. risulta scarsamente caratterizzata: va registrato tuttavia un tentativo, evidentemente suggerito dalla sua esperienza di provinciale e generale domenicano, di ridare slancio all'iniziativa pastorale degli Ordini mendicanti, limitata dalla bolla Super cathedram di Bonifacio VIII, che l'aveva vincolata a certi controlli del clero secolare. Il 7 febbraio 1304 B. attenuò con la bolla Inter cunctas le disposizioni del predecessore.
Perfettamente in linea con la tradizione domenicana e con l'eredità di Bonifacio VIII risultò il suo atteggiamento di rigorosa chiusura verso i Francescani Spirituali, che non mancarono di reagire con la consueta violenza verbale, come si può desumere dall'aspra invettiva indirizzatagli da Ubertino da Casale. L'estrema intransigenza verso gli Spirituali è attestata anche dai rapporti con Arnaldo di Villanova, che documentano con la massima efficacia il fondamento decisamente autoritario della sua concezione della Chiesa. Il 2 giugno 1304 il medico catalano gli indirizzò una calda esortazione a riparare ai mali della Chiesa, che minacciavano l'avvento dell'Anticristo, indicando le linee di un rinnovamento dell'attività missionaria e pastorale e prospettandogli morte immediata ed eterna ignominia ove fosse venuto meno a questo compito. Una tale provocatoria intimazione ebbe il potere di risvegliare nell'antico inquisitore di Lombardia lo zelo di una volta: con insospettabile prontezza ed energia fece imprigionare Arnaldo, che aveva sollecitato udienza, nella stessa Perugia dove B. si era ormai stabilito. Solo la morte del papa, sopraggiunta il 7 luglio 1304, risparmiò il castigo all'incauto catalano, che non mancò di apprezzare l'efficacia della sua profezia.
L'improvvisa morte dette corso alle solite dicerie che l'attribuirono al veleno dei cardinali o addirittura del Nogaret. B. invece morì, a quel che pare, di dissenteria. Fu sepolto a Perugia nella chiesa di S. Domenico, dove il fedele cardinale Niccolò da Prato gli fece erigere un monumento sepolcrale. La santità della sua vita e l'insorgere di guarigioni miracolose subito dopo la sua morte gli valsero nel 1738 la beatificazione.
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