PIETRO Pettinaio, beato
PIETRO Pettinaio, beato. – Le vicende biografiche di Pietro ci sono note principalmente attraverso le fonti agiografiche legate alla solida fama di santità e al culto di cui subito godette a Siena questo devoto artigiano vissuto nel secondo Duecento. Punto di partenza è una legenda del 1330 circa di Pietro de Monterio (o da Montarone), pervenuta in due volgarizzamenti cinquecenteschi (1508, ed. 1529 e poi 1802; 1541, di origine fiorentina). Un sermone su di lui di primo Trecento, segnalato da Cesare Cenci (1990 e 2006) e da lui attribuito a Bindo Scremi, dimostra che molti materiali pervenuti attraverso i volgarizzamenti cinquecenteschi circolavano in epoca assai antica, e ne rafforzano l’attendibilità.
Secondo la fonte nacque nella villa di Campi, nel Chianti, da cui già in tenerissima età passò ad abitare in Siena, dove intraprese l’attività di fabbricante e mercante di pettini per la tessitura (da cui l’attributo professionale pectenarius che correntemente ne accompagna il nome già nella documentazione coeva). Le delibere comunali relative al suo sepolcro e all’annuale festività lo dicono in effetti rispettivamente civis senensis e de civitate nativus. La data di nascita, da collocarsi nei primi decenni del Duecento, va dedotta dalla morte in età avanzata nel dicembre del 1289; appare invece improponibile la datazione ante 1180 (e la conseguente prodigiosa longevità che non trova riscontro nella legenda), proposta sulla base di attestazioni documentarie degli anni Venti del Duecento di artigiani identificati da Alessandro Lisini come figli del futuro beato (ma semmai di un probabile omonimo).
Pietro prese moglie già in giovane età, mostrandosi premuroso verso la sposa, dalla quale non ebbe figli, e con la quale, una volta constatatane la sterilità, scelse di vivere in castità, adottando l’abito penitenziale. L’agiografia gli attribuisce un temperamento giovanile ilare e focoso, presto domato nell’onestà della vita coniugale e nel lavoro. Quanto all’esercizio dell’arte, la legenda ne descrive, attraverso efficaci episodi, lo scrupolo per la qualità della merce, venduta sempre al giusto prezzo, e la lealtà nella concorrenza, anche a scapito del profitto. La stessa fonte lo mostra poi dedito, assieme a otto compagni e ad alcuni altri amici, alle opere di carità – con la visita agli ospedali e alle carceri, la raccolta e la distribuzione di elemosine – ma anche alle pratiche di devozione e d’ascesi, con segreti digiuni, l’assidua frequentazione delle chiese, numerosi pellegrinaggi ai luoghi di culto e alle perdonanze più vicine (ad Assisi, Roma, Pisa, Pistoia, La Verna); la costante immersione nei ragionamenti spirituali o nell’orazione che, specie sul finire della vita, lo condussero a estasi prolungate. Ne emerge, insomma, il profilo assai tipizzato di un perfetto esponente del variegato mondo del laicato ascritto all’ordo penitentiae del primo e pieno Duecento. Per tale lo mostrano anche le attestazioni documentarie a lui sicuramente riferibili.
Se dubbi possono sussistere circa l’identificazione del Pierus pectenarius del popolo di San Salvatore menzionato in una condanna del 1231, certe sono invece le attestazioni nella documentazione pubblica e privata della seconda metà del secolo. Tra il 1258 e il 1265 i registri di Biccherna lo mostrano restituire, per conto di persone di cui non tradisce l’anonimato, somme che essi avevano illecitamente percepito dal Comune, o come salari non dovuti o come usure. Le deliberazioni del Consiglio generale lo segnalano, tra il 1282 e il 1286, tra i boni homines de penitentia cui vengono ordinariamente affidate alcune mansioni di fiducia, come la scelta dei carcerati da liberare in occasione di festività, la ripartizione tra i poveri e le case religiose delle elemosine straordinarie stanziate dal Comune o, ancora, la gestione delle somme destinate alla pittura di immagini sacre sulle porte cittadine.
In tutte queste ultime occasioni egli agì al fianco di ser Compagno, notaio del vescovo, ricordato dalla fonte agiografica come uno dei suoi otto compagni, ben attestato in simili mansioni anche dopo la scomparsa di Pietro.
Nel 1272 e nel 1278 fu autorevolmente presente nel gruppo di alcune decine di penitenti e laici devoti, in prevalenza di estrazione popolare e artigiana e provenienti dal Terzo di Camollia (Pietro appartenne al popolo di Sant’Egidio), legati nel corso degli anni Settanta del Duecento all’universitas o Domus Misericordiae, fraternità assistenziale e istituzione elemosiniera ben documentata sin dai primi anni cinquanta del Duecento. Egli non ebbe peraltro ruoli dirigenziali, ricoperti in quegli anni da Bartolomeo Vincenti (un altro dei suoi otto compagni secondo la leggenda), rettore nel 1271 con il quale Pietro ebbe strette relazioni; testando nel 1284, Vincenti impose ai suoi esecutori di agire con il consiglio e il consenso di Pietro tanto nella elezione del suo luogo di sepoltura quanto nella restituzione dei suoi male ablata. È peraltro, questo di esecutore di legati pii e disposizioni restitutorie, un ruolo già attestato per Pietro nel 1268 in relazione alle ultime volontà del mercante Arringhiero Aspretti.
Dopo gli anni Settanta del Duecento le sue attestazioni documentarie si fanno più sporadiche, in connessione con quel volontario allontanamento dalla vita attiva che sembra caratterizzare l’ultima fase della sua vita.
Secondo la legenda la scelta di «non più intromettersi ed implicarsi col mondo» maturata da Pietro gli attirò le critiche di quanti – contrapponendogli l’attivismo caritativo di ser Compagno – gli rimproveravano d’aver abbandonato, per la contemplazione, le opere di misericordia. Il turbolento maturare di quel nuovo assetto politico ‘novesco’ che si sarebbe imposto solo all’indomani della sua morte, con la logica di esclusioni e violente contrapposizioni che l’accompagnava, dovette avere un peso nel determinare questa consapevole presa di distanze dalla scena pubblica e da ogni forma di intervento nel vivo del tessuto sociale. La fonte agiografica sottolinea in particolare la rinuncia alla presa di parola pubblica (insita nel perfetto dominio della lingua che lo portava a tenere sempre il dito sulle labbra e a parlare di rado e solo per edificazione) e la sua capacità di rimanere estraneo ai conflitti di parte che lacerarono la società senese del suo tempo.
La legenda collega questa evoluzione al suo avvicinamento ai frati minori: Pietro, rimasto vedovo, avrebbe venduto la vigna e la casa trasferendosi dapprima in un alloggio nella contrada d’Ovile, ricevendo poi accoglienza nel convento cittadino, in una cella vicino all’infermeria. L’avvicinamento di Pietro al minoritismo più rigoroso negli ultimi anni della sua vita è autorevolmente attestato anche da Ubertino da Casale, che nel prologo dell’Arbor vitae crucifixae menziona, fra i testimoni dello Spirito di Cristo che aveva conosciuto e preso a «maestri pratici di serafica sapienza» durante il suo soggiorno fiorentino (tra il 1285 e il 1289), anche «l’uomo pieno di Dio Pietro da Siena, pettinaio». La frequentazione da parte di Pietro dei circoli devoti di Firenze, trova peraltro riscontro anche nel testo, riportato dalla Vita cinquecentesca, di una lettera spirituale inviata a due discepoli fiorentini.
Questo atteggiamento di mite rigorismo e profezia non partigiana, insieme alla solida fama di santità, gli valsero la menzione che Dante gli riserva, nel XIII canto del Purgatorio, come positivo contraltare del partigiano furore dell’invidiosa Sapìa.
Già in Dante, sottolineava Raoul Manselli, sembra comunque emergere un’implicita opposizione tra l’atteggiamento orante di Pietro e quello, inquieto e aggressivo, di Ubertino e di una parte degli spirituali. Sta qui forse anche una delle ragioni che favorirono il deciso rilancio del culto di questo personaggio – additabile come modello di rigorismo e insieme di mitezza ‘francescana’ – promosso dai frati senesi dalla fine degli anni Venti del Trecento, all’indomani cioè della profonda crisi e delle lacerazioni prodottesi, anche in seno alla custodia minoritica senese, in ragione delle contestazioni mosse dagli spirituali toscani e poi della loro ribellione e condanna.
Morì il 5 dicembre del 1289 e venne sepolto nella chiesa di S. Francesco, dove pochi giorni dopo il Comune di Siena decretò gli venisse eretto un sepolcro «nobile» con ciborio e altare. Nel quadro di una strategia agiografica che lasciò ai domenicani la memoria di Andrea Gallerani, altro santo laico emerso dall’Ordo penitentiae, il suo culto, che non dette luogo ad alcun processo canonico, venne sapientemente gestito dall’ordine dei frati minori godendo, fin da subito e per tutto il secolo successivo, del sostegno attivo e costante delle magistrature comunali. La richiesta e la concessione del riconoscimento ufficiale del culto ab immemorabili risale al 1801-1802.
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