Pio IX, beato
Giovanni Maria Mastai Ferretti, ultimo di nove figli, nacque a Senigallia il 13 maggio 1792, dal conte Girolamo e da Caterina Solazzi, in una famiglia di agiati proprietari agrari della piccola nobiltà locale. I Mastai godevano fama di devotissimi cristiani, ma aperti ai tempi, portati a farsi avanti, fra papalini e giacobini, anche al di sopra delle proprie capacità, con figli e nipoti sposati in modo non sempre fortunato. La famiglia contava due vescovi, Andrea, ordinario di Pesaro, e Paolino, curiale a Roma. Verso i dieci anni, il ragazzo fu colpito da una grave forma di epilessia, che fra alti e bassi lo tormentò fin verso i trent'anni (per l'ordinazione fu necessaria una speciale dispensa e l'obbligo di un assistente alla messa), gli impedì studi regolari, e cessò solo nei primi anni di sacerdozio. Restò nel Mastai una forte emotività, che se nei momenti migliori lo rendeva simpatico, cordiale, estroso, con una punta di inatteso umorismo, nelle serie difficoltà poteva portarlo a una inaspettata severità e durezza. Nella giovinezza, a Bologna e Roma, in quegli anni politicamente incerti, con una scarsa salute che gli bloccava varie strade, Giovanni Maria ebbe delle crisi affettive: si trattò di qualche turbamento interiore, superato presto per la sincera pietà del giovane, senza alcun cedimento morale. Tutti anzi notarono l'illibatezza del Mastai, la sua profonda pietà, la sua vivace intelligenza, il suo spirito di sacrificio. Nel 1816, a Roma, a contatto con ottimi sacerdoti dell'Urbe, il giovane maturò la sua decisione: farsi sacerdote, non per speranza di una carriera, ma per motivi ascetici e pastorali. Dopo tre anni di studi al collegio romano, in tempi difficili, quando molte cose ricominciavano da zero, nel 1819 Mastai venne ordinato, e si dedicò all'assistenza a giovani poveri nel collegio romano detto "Tata Giovanni" e in missioni popolari nel Lazio e nelle Marche. Il giovane prete, sentito parlare di una spedizione per il Cile, interpretata ingenuamente come un'iniziativa missionaria più che diplomatica, ottenne di esservi aggregato come segretario del principale responsabile, monsignor Muzi. La missione partì da Genova nell'ottobre 1823, e, attraverso le Ande, giunse a Santiago nel marzo 1824, ma fallì interamente per il giurisdizionalismo delle autorità cilene e per l'intransigenza del Muzi, che fece ritorno a Roma nel luglio 1825. Muzi venne sostanzialmente messo da parte, mentre Mastai conservò la fiducia della Santa Sede per la prudenza e la serietà mostrate in quei mesi. Venne così nominato nell'autunno 1825 presidente dell'Istituto S. Michele, la più importante opera assistenziale dell'Urbe, nel 1827 vescovo di Spoleto, nel 1832 arcivescovo di Imola (in una regione nota per il suo anticlericalismo e la tendenza alla violenza), alla fine del 1840 cardinale. Il pastore in quel periodo romagnolo mostrò il suo stile, moderato, realista, aperto, e si guadagnò la simpatia di molti, anche dei liberali moderati, per il suo carattere affabile, per le sue convinzioni sull'inefficienza dell'amministrazione gregoriana, sulle esigenze oggettive di un cambiamento di indirizzo. "Odio e abomino [...] i pensieri [...] dei liberali, ma il fanatismo dei cosiddetti papalini non mi è sicuramente simpatico. Il giusto mezzo [...] cristiano sarebbe quella via che amerei battere coll'aiuto del Signore: ma ci si riescirà?", aveva scritto nel giugno 1833. Proprio fra il 1830 e il 1846, per reazione alla chiusura gregoriana, sotto l'influsso di varie opere uscite quegli anni, si era sviluppato il moderatismo, e, parallelamente, il neoguelfismo, che sperava di fare del papato il perno del rinnovamento italiano. Mastai aveva letto o scorso alcune delle opere fondamentali del momento, Il Primato del Gioberti (1843), Le Speranze d'Italia del Balbo (1844), Degli ultimi casi di Romagna del d'Azeglio (1846), ne aveva parlato con laici e sacerdoti, era al corrente dei problemi dell'ora. Nel conclave, aperto la sera del 14 giugno dopo tredici giorni di sede vacante, fra i cinquanta cardinali presenti (su sessantadue) emersero subito due correnti: i "gregoriani", che miravano al Lambruschini, segretario di Stato del papa defunto e notoriamente conservatore; i fautori di un indirizzo più conciliante, con a capo il cardinal Polidori, fraternamente amico del Mastai da decenni, e il cardinal Micara, capo riconosciuto dell'opposizione al Lambruschini. Nei giorni di attesa, il Polidori aveva avuto parecchi contatti e raccolto adesioni in favore del Mastai, ancora assente. Mancavano del resto altri candidati possibili. Così in due giorni tutto era terminato con l’elezione del vescovo di Imola, relativamente giovane. Il nuovo papa, abbastanza esperto nell’amministrazione, ottimo pastore, di pietà sincera e profonda, mancava però di preparazione politica e teologica. Sarebbe stato capace di trovare l’equilibrio necessario per realizzare la svolta aspettata e desiderata?
L’incerta attesa dei primi giorni durò sino al 16 luglio, quando venne proclamata l’amnistia ai condannati politici. Il provvedimento, in sé di modeste proporzioni, provocò reazioni vaste e durature e fu salutato come l’inizio di una nuova era. Fu la scintilla che, caduta sulle polveri accumulate da tempo, fece divampare un incendio in tutta Italia e in parte d’Europa, costituì l’inizio di un delirio collettivo, in parte spontaneo in parte artificiosamente montato da radicali e moderati. Il fermento crebbe per alcuni errori politici austriaci, passò in mano ai circoli romani, a loro volta strumentalizzati da Mazzini, e da Massimo d’Azeglio, che presentò il papa come propenso a riforme, e d’accordo con le aspirazioni nazionali antiaustriache. P. intendeva muoversi nella linea di un dispotismo illuminato, con concessioni limitate e scese dall’alto, con miglioramenti amministrativi, che non intaccassero la forma di governo. Non pensava a una costituzione, né, tanto meno, a mettersi a capo del movimento liberale e nazionale italiano. Ma la base, manovrata da capi dalle idee chiare anche se nascoste, pensava diversamente. Il pontefice cadde in alcuni gravi errori. Non riuscì a formulare e a chiarire al pubblico un preciso programma, che dissipasse subito le illusioni. Si lasciò largamente influenzare dalle passioni e dagli entusiasmi di quei giorni, e con gesti e frasi clamorose e interpretate al di là della loro portata («Benedite, gran Dio, l’Italia!», 10 febbraio 1848) finì per rafforzare il mito di un papa liberale e nazionale. Agì con ritardo, in modo indeciso: concessioni col contagocce, riforme a singhiozzo.
Nel 1847 si realizzarono comunque alcune riforme importanti: moderata libertà di stampa (15 marzo), un consiglio dei ministri (giugno), guardia civica (inizio luglio), trattative per una lega doganale con gli Stati italiani, inaugurazione della Consulta di Stato (novembre), che realizzava finalmente la proposta delle potenze europee del maggio 1831, ma era ormai anacronistica per il rapido incalzare degli eventi; consiglio comunale di Roma (novembre).
Col 1848 tutto è superato. Predominano altri due problemi di fondo. Davanti alle rivoluzioni di Palermo (gennaio), Parigi (febbraio), Berlino, Vienna, Milano, Venezia (marzo), Ungheria (mesi seguenti), dove i fattori politici, nazionali, sociali si accavallano e si fondono, davanti alla caduta del Metternich, l’Europa intera è scossa, e per P. tutto appare come una manifestazione della volontà di Dio, che abbatte i superbi ed esalta gli umili. Il papa si sente chiamato a interpretare e mediare questa volontà (proclama del 30 marzo, segno dell’intensa partecipazione del papa alla passione nazionale di quei giorni, ma anche della sua immaturità storica, politica, pastorale). Contemporaneamente, sotto l’impressione degli ultimi avvenimenti, l’opinione pubblica non si contentava più di organi consultivi, ma chiedeva la trasformazione del regime assoluto in un sistema costituzionale. Il gioco cominciato a Roma nel luglio del 1846 giungeva alla sua conclusione. P. comprese la portata della domanda, tentò di frenare o impedire il cambiamento negli Stati italiani, ma finì per seguire gli studi fatti in proposito nell’Urbe dal febbraio al marzo, in vista di uno Statuto, finalmente promulgato il l4 marzo. Il documento mostra lo sforzo di conciliare il riconoscimento abbastanza largo delle libertà politiche con la tutela della libertà del papa nel governo della Chiesa, e nelle decisioni religioso-politiche relative al suo Stato. Si tentava un compromesso fra i regimi assoluti e quelli costituzionali, mantenendo indirettamente ma chiaramente il carattere confessionale dello Stato e varie discriminazioni religiose, subordinando il potere legislativo delle due Camere al Concistoro. Intanto il passaggio dal regime assoluto a quello costituzionale-liberale finiva per esautorare il governo, incapace di impedire dimostrazioni di piazza antigesuitiche e di assicurare alla Compagnia di Gesù la sopravvivenza. Il giusto mezzo auspicato dal Mastai svaniva.
Lo sforzo sincero ma inadeguato di conciliare moderazione e autorità, fedeltà alla propria missione pastorale, necessariamente universale e sopranazionale, e sincera partecipazione alle aspirazioni italiane verso l’indipendenza, si mostrò drammaticamente davanti allo scoppio della prima guerra di indipendenza contro l’Austria. P. fu costretto a dissipare gli equivoci con l’allocuzione chiarificatrice del 29 aprile 1848. Il documento mostra il dramma interiore del papa e il controllo esercitato su di lui dalla Curia, in quel caso probabilmente dall’Antonelli. Spariscono nel testo ufficiale le affermazioni che rivelavano la partecipazione di P. alle passioni del 1848, analoghe a quelle del proclama del 30 marzo, resta la dichiarazione di non poter intervenire in una guerra contro un popolo cattolico, ma anche di non poter impedire le iniziative dei suoi sudditi, la condanna del progetto di mettere il papa a capo di uno Stato italiano. L’allocuzione mostra il travaglio del papa, ma anche una linea politica inadeguata e destinata a fallire. I mesi seguenti, con lo sterile sforzo di tener in vita un governo costituzionale salvando i principi essenziali della democrazia, l’ordine pubblico, l’indipendenza del papa, non raggiunsero l’obiettivo. L’esperienza liberale di P. si chiuse con l’assassinio del nuovo presidente del consiglio, Pellegrino Rossi, il 15 novembre, con la rivoluzione del l6, con la fuga a Gaeta la notte del 24. Seguì a Roma nel febbraio 1849 la proclamazione della fine del potere temporale e l’avvento della Repubblica romana.
L’amara conclusione degli anni 1846-1848 influì in modo decisivo su P., che maturò in quei mesi di esilio le convinzioni che ispirarono il resto del lungo pontificato. Il papa, dopo la proclamazione della Repubblica romana, si rassegnò presto a chiedere l’intervento straniero per il ristabilimento del suo potere a Roma (di fatto nell’aprile-giugno si realizzò la spedizione francese nell’Urbe), e ripristinò nel suo Stato un governo assoluto. Si ebbe a Roma quello che una persona fedele al papa, intelligente e aperta, Corboli Bussi, chiamò una «restaurazione reazionaria e imperita»: amnistia limitata, esilio più o meno coatto di molti capi liberali, severa epurazione, ripristino di una attenta censura nella stampa, controllo della polizia nella vita pubblica e privata, pratica soppressione dell’autonomia comunale romana. Ma soprattutto il pontefice, soggetto alle pressioni dell’ambiente, portato più a seguire le correnti prevalenti che a reagire ad esse, amareggiato, si persuase che il regime costituzionale, il sistema parlamentare, la libertà di stampa, erano intrinsecamente cattivi. E così perdurò a lungo nella Curia, nella gerarchia, in larga parte della Chiesa questa visione negativa delle aspirazioni condivise da vasti settori della società contemporanea. Ormai, l’unico stretto consigliere e collaboratore del papa, almeno in politica, restò l’Antonelli, prosegretario di Stato dal 6 dicembre 1848, segretario di Stato dal 1852 alla morte nel 1876. Si trattò di una singolare collaborazione, fra un papa religiosissimo e di profonda preghiera e un uomo sostanzialmente fedele ai suoi doveri religiosi essenziali, compreso il celibato, ma che non ricevette mai il sacerdozio. Antonelli si rivelò privo di ogni autentico spirito di pietà, fu un buon economista, discreto diplomatico anche se ben inferiore al Consalvi, ma conservatore, ambizioso, avido di accumulare ricchezze, portato ad allontanare e tener lontano chiunque potesse con le sue doti contrastare la sua autorità (per questo il Pecci fu relegato costantemente a Perugia sino agli ultimi anni), fin troppo sicuro di sé e della sua abilità, incapace di cogliere gli astuti disegni di Cavour. Antonelli non poteva condividere le preoccupazioni apostoliche del suo sovrano, e assistette da lontano all’opera riformatrice del papa nei settori strettamente religiosi. Rimase un efficace strumento negli altri campi (questione romana, concordati, difesa dell’indipendenza della Santa Sede e della Chiesa, orientamenti economici, amministrazione quotidiana). Lo strano connubio, dopo le prove fatte a Gaeta, perdurò per quasi trent’anni, fra la gelosia di molti altri cardinali, convinti però che l’Antonelli fosse insostituibile. L’indirizzo conservatore, ormai chiaro a Gaeta, apparve netto nella condanna dell’opera del Rosmini, Delle cinque piaghe della S. Chiesa, con un coraggioso programma di riforma ecclesiale, e de Il Gesuita moderno, del Gioberti. Rosmini, inviato in missione speciale dal governo piemontese, era stato accolto alla fine di agosto del 1848 con estrema cordialità da P., che gli aveva manifestato la sua intenzione di promuoverlo cardinale e di nominarlo segretario di Stato. Dopo un breve soggiorno accanto al papa a Gaeta, l’abate, convinto ormai che la sua presenza non era gradita a molti, si ritirò a Napoli: il 30 maggio la sua opera fu messa all’indice, ma il papa ricevendolo pochi giorni dopo non se la sentì di comunicargli la notizia, che l’abate ricevette settimane più tardi, con piena sottomissione. Nel 1847-1848 P. non aveva avuto il coraggio di muovere un dito contro Gioberti, rimasto indisturbato, mentre la sua polemica ne Il Gesuita moderno (1847) provocava l’espulsione dei Gesuiti da un capo all’altro d’Italia, da Torino a Roma a Napoli a Palermo. Ora, nelle meditazioni di Gaeta, il papa fu colpito dalle risposte date al filosofo dal Curci, e anche Gioberti fu messo all’indice lo stesso 30 maggio. Se la condanna del filosofo torinese era largamente giustificata, quella di Rosmini, in quel momento, era sostanzialmente frutto di gelosie, sospetti, prevenzioni, non si fondava su motivi solidi, manifestava le contraddizioni e le ambiguità del papa emotivo, amareggiato, incapace di resistere alla camarilla che gli si era stretta attorno quelle settimane. Intanto da quei mesi – all’inizio del 1850 – i Gesuiti, decisamente antirosminiani, guardati da P. con una certa freddezza nei primi anni, tornati dopo la dispersione, riprendevano l’attività al Collegio Romano, con il loro insegnamento tipicamente ultramontano, antigallicano, antigiuseppinista, antigiansenista, ed erano ora visti con fiducia e simpatia. E il papa faceva sua l’idea del Curci e imponeva al riluttante generale Roothaan la fondazione della «Civiltà Cattolica», divenuta presto uno dei mezzi efficaci di diffusione nel mondo culturale di quelle idee antiliberali ormai care al pontefice, costituendo una delle più tipiche espressioni dell’intransigenza cattolica.
Il papa, accolto con rispetto ma senza gli entusiasmi di una volta, tornò a Roma nell’aprile 1850. Il popolo sostanzialmente restava in attesa, la borghesia e la nobiltà erano divise tra i fedelissimi e i liberali. L’amministrazione dello Stato nell’insieme restò discreta, col pareggio del bilancio raggiunto nel 1859, ma con una forte arretratezza nei lavori pubblici (110 km di strade ferrate nel 1859 rispetto al migliaio che troviamo nel Regno di Sardegna), il latifondo incolto accanto a Roma, che rimase la grande «metropoli paesana», la cronica assenza di una industrializzazione, l’abbandono in cui restava il Foro romano, la mancanza di una cultura vivace e aperta ai problemi del giorno. Non mancarono episodi che rivelavano una situazione tesa, come il caso Mortara (un ragazzo ebreo di Bologna, battezzato clandestinamente dalla domestica cristiana, e per questo nel 1858 sottratto alla famiglia). P., fra le critiche del mondo liberale, dagli Stati Uniti a Londra a Parigi, si mostrò fermo in quello che i suoi principi (oggi discussi e largamente superati) gli suggerivano.
In Piemonte, davanti al progetto delle «leggi Siccardi» per l’abolizione del foro ecclesiastico, il papa mantenne un atteggiamento intransigente. Per il ministro piemontese Siccardi, promotore della legge, i privilegi del clero erano causa di discredito, per la Santa Sede senza di esso i vescovi sarebbero rimasti screditati e privi di un’autorità efficace. Non si trattava però solo del foro, ma della natura stessa dei concordati (concessione statale revocabile o patto bilaterale?). La battaglia, persa in partenza, si chiuse per il momento con la rottura delle relazioni diplomatiche e le censure ecclesiastiche ai fautori delle leggi Siccardi, e con l’esilio nel 1850 dell’intransigente arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, morto nel 1861 a Lione. Più validi furono gli sforzi per la riforma del clero, che il papa avvertiva come suo dovere gravissimo. Egli moltiplicò le sue ammonizioni appassionate ai vescovi delle varie regioni italiane, rimaste più volte poco efficaci, istituì a Roma vari seminari, ora per i migliori alunni del suo Stato (1853), ora per diverse nazioni (Francia, 1853; America Latina, 1858; Stati Uniti, 1859; Lombardia, 1860...), per migliorarne il livello culturale ma anche per formare un buon numero di sacerdoti educati direttamente a quello spirito «romano» che il papa vagheggiava come ideale. Per i religiosi, con il valido appoggio di monsignor Bizzarri, poi cardinale, dopo la creazione nel 1846 della Congregazione «de statu regularium ordinum» (1846), si arrivò a vari decreti del 1848 e del 1857, sulla maggior selezione dei candidati, sull’introduzione dei voti semplici prima di quelli solenni, che poteva facilitare le dimissioni, e alle insistenze coronate da successo per l’osservanza della vita comune. P. rispettò la libertà dei Gesuiti per l’elezione del generale Beckx (1853), intervenne invece positivamente fra i Domenicani, i Minori francescani e gli Agostiniani, seguì da vicino l’evoluzione dei Benedettini cassinesi e sublacensi. Si deve certamente agli interventi dei vari dicasteri pontifici, seguiti sempre attentamente dal papa, se dopo le dispersioni dei religiosi (1855 e soprattutto 1866) questi riuscirono sostanzialmente a superare la dura prova. Il papa mostrò il suo favore ai nuovi istituti femminili, pur non ritenendo opportuno in quel momento l’introduzione di voti solenni, ma si mostrò molto diffidente davanti a pretesi fenomeni soprannaturali ostentati da qualche suora, e severissimo verso i confessori che vi avevano creduto.
Mastai, sempre devotissimo a Maria, sin dagli inizi del pontificato si adoprò per la definizione dell’Immacolata Concezione. Gli interventi si moltiplicarono sin dal 1847, con elogi al Perrone, del Collegio Romano, per un’opera su questo tema, e, paradossalmente, proprio a Gaeta fra il 1848 e il 1849, quando, nell’imminenza della proclamazione della Repubblica romana, l’episcopato intero venne interpellato, non sul modo più opportuno di resistere alla neonata effimera repubblica, di cui al papa importava poco, ma sulla definizione del dogma. Davanti al parere positivo della stragrande maggioranza, i lavori preparatori continuarono a Roma, con l’intervento di teologi come Perrone, Passaglia e altri, portando l’8 dicembre 1854 alla definizione con la bolla Ineffabilis Deus, sollecita non tanto di ricostruire esattamente il pensiero passato, quanto di sottolineare l’armonia tra la fede attuale della Chiesa e quella dei secoli precedenti, vista nell’insieme. La definizione ebbe una molteplice portata: rafforzò l’autorità del papa (preludio al dogma della sua infallibilità); stimolò gli studi teologici, pur ricordando la necessità della sottomissione al magistero, in una prospettiva ieri come oggi considerata diversamente, secondo i punti di vista; favorì la pietà mariana, soprattutto popolare, sottolineò alcune verità religiose essenziali negate o trascurate dal pensiero moderno (l’ordine soprannaturale, l’elevazione dell’uomo a figlio di Dio, il peccato originale, la redenzione).
Dal 1846 al 1878 vennero conclusi diciotto concordati. Possiamo distinguerli in quattro gruppi. Al primo appartengono i concordati in difesa della libertà della Chiesa, come quello con la la Russia del 1847. Si trattava di uno sforzo sincero per salvare il salvabile davanti all’autocrazia e all’intolleranza russa, con scarsi risultati, che non impedirono nuovi soprusi, fino al passaggio forzato alla Chiesa russa nel 1875 di un discreto gruppo di fedeli a Cheùm (Polonia sudorientale). Il concordato fu praticamente revocato nel 1866. Al secondo i concordati in difesa di una società ufficialmente cristiana: con la Toscana e la Spagna nel 1851, e varie Repubbliche latinoamericane, fra le quali l’Ecuador di García Moreno, nel 1862. Si riaffermavano i principi tipici della cristianità, la religione di Stato e l’intolleranza, il controllo della gerarchia sulla scuola, l’appoggio statale all’attività pastorale, e, dove era possibile, la censura preventiva episcopale sui libri religiosi, il riconoscimento delle immunità, affidando però la nomina dei vescovi allo Stato. La durata di questi accordi varia secondo i casi: più stabile in Spagna, quasi effimera in America Latina. La politica di P., la sua difesa delle strutture cristiane della società, non impedì nemmeno in Spagna la diffusione di un vivo anticlericalismo, e subiva una dura sconfitta. Al terzo gruppo appartiene il concordato contro il giuseppinismo, con l’Austria, 1855. È riconosciuta largamente, contro il residuo giuseppinismo, la libertà della Chiesa, pur rinunziando al foro ecclesiastico, e affidando la nomina dei vescovi allo Stato. Ma insieme si ottiene, contro i principi liberali, il controllo della gerarchia sulla scuola e sulla stampa. Il concordato, ieri come oggi, è stato variamente giudicato: per gli uni, costituì il superamento del vecchio giuseppinismo, la fine di una Chiesa statale, del sacerdote visto essenzialmente come funzionario pubblico; per gli altri, esso significò un forte avvicinamento a uno Stato tipicamente assoluto, che di fatto era deciso a conservare la propria ingerenza negli affari religiosi. P. sperava di fare dell’Austria uno Stato cattolico: sogno di una notte di mezza estate. All’Impero tipicamente giuseppinista succedeva ormai gradualmente, fra pressioni di Vienna e resistenze di Roma, la monarchia austroungarica, tipicamente liberale. Il concordato cadde nel 1870, dopo la proclamazione dell’infallibilità pontificia al concilio Vaticano I. Al quarto gruppo appartiene il concordato sul patronato portoghese del 1857. P. aveva cercato da tempo di risolvere le controversie sul patronato. Con la lettera Probe nostis (1853) aveva severamente minacciato di scomunica i principali responsabili del contrasto fra Propaganda e Lisbona, sorto dopo le misure di Gregorio XVI (1838) contrarie al patronato. Cercò ora di porre fine al dissidio. Dopo lunghe trattative, si arrivò con qualche limitazione al nuovo riconoscimento del patronato anche nei territori inglesi. Il compromesso, che non venne mai applicato, non piacque a nessuno: a Lisbona, esso fu considerato un’umiliazione inflitta ad una grande potenza, gloriosa del suo passato, a Roma ci si rese conto che il Portogallo voleva mantenere la situazione preesistente. La politica di Gregorio XVI ma anche di P. non ottenne i frutti sperati.
P. personalmente non aveva nessuna simpatia per Francesco Giuseppe, che appena salito al trono nel dicembre 1848 gli aveva rimproverato la sua politica apparentemente liberale degli anni 1846-1848; stranamente, guardava con benevolenza a Vittorio Emanuele II, di cui pure conosceva la disordinata vita privata; con Napoleone III si realizzò un’intesa delicata e difficile, paragonabile a un matrimonio di convenienza. Più gravi comunque erano i dissensi cronici fra i cattolici liberali, Montalembert, de Falloux, Broglie, monsignor Dupanloup..., e gli intransigenti come Veuillot con «L’Univers». Le simpatie del papa andavano al Veuillot e alla sua scuola, come in fondo, anni più tardi, in Italia, a don Davide Albertario e al suo «L’Osservatore Cattolico», senza avvertire a sufficienza i limiti e i pericoli della corrente, senza capire la sensibilità per le esigenze dei nuovi tempi che nutrivano cattolici sinceri, accusati di gallicanesimo, di cedimenti alla mentalità liberale del tempo. Il pontefice non era troppo caldo verso l’arcivescovo di Parigi, Sibour, per la sua rigidità nei confronti di Veuillot e una certa indipendenza nei confronti di Roma; era piuttosto ostile al nuovo presule della capitale, Darboy, senza coglierne l’apertura verso la società contemporanea, il suo zelo sincero, che lo portò alla fine cruenta fra gli ostaggi della Comune del 1870. P. era sinceramente irritato per l’ossequio sincero del pastore verso Napoleone III, per il suo distacco da quell’ultramontanesimo che eccedeva in dimostrazioni di deferenza al papa, per certe linee pastorali. Il papa pubblicamente non parteggiava per nessuna corrente, di fatto col cuore simpatizzava per la linea intransigente, ascoltava volentieri i lamenti di questi fedeli contro i propri vescovi, si commuoveva ascoltando dopo il 1870 i canti che univano insieme Francia, Roma e il Sacro Cuore: «Sauvez Rome et la France, par votre Sacré Coeur». I cattolici liberali, e anche i Gesuiti redattori di «Études» erano invece seguiti con sospetto nelle loro dichiarazioni, e lo stesso laicato cattolico fino al 1870 fu visto solo in funzione strumentale, come il nuovo braccio secolare della Chiesa. Lo stesso capitò del resto in Gran Bretagna anche a Newman, convertitosi nel 1845, di cui P. non comprese mai l’efficace discreto apostolato, la sua visione ecclesiale. Newman (accusato più volte a Roma) e Rosmini (condannato nel 1849 per Le cinque piaghe, assolto fra qualche difficoltà dalle accuse contro le altre sue opere nel 1854, ma visto sempre con sospetto), significativamente, restano in quegli anni i grandi assenti da Roma.
In questo clima di restaurazione maturò l’idea di una condanna degli errori moderni più diffusi. Il suggerimento della conferenza episcopale umbra di Spoleto, del 1849, fu ben visto dalla Santa Sede, provocando in varie riprese dal 1850 una consultazione presso pensatori e teologi italiani, francesi, belgi, spagnoli. Il progetto portò a una redazione presentata nel 1862 all’assemblea di vescovi convocati a Roma in vista di alcune canonizzazioni, ma tutto rimase sospeso. Il discorso pronunziato da Montalembert alla fine di agosto 1863 a Malines al congresso cattolico belga, in definitiva, affrettò i lavori ancora lontani dalla fine. L’oratore, con una sintesi storica vigorosa, affermava che l’unica via per salvare la Chiesa era quella della libertà generale, rivendicando cioè alla Chiesa la libertà che il liberalismo promette a tutti. La libertà di coscienza, rettamente intesa, non fondata sull’indifferentismo, è conciliabile col cattolicesimo. Abbiamo, sì, l’obbligo morale di aderire alla verità riconosciuta tale, ma lo Stato, pur essendo obbligato a difendere la libertà religiosa del singolo individuo, non ha il diritto di imporre la verità in cui crede, non ne ha la competenza. Il discorso fu presto confutato in Curia dal giovane barnabita Bilio, per ordine del Sant’Uffizio. Il teologo romano condannava le tesi difese a Malines per tre motivi: la contraria tradizione teologica costante; la funzione strumentale dello Stato, braccio secolare della Chiesa; l’obbligo di reprimere l’errore, anche con la coazione. Montalembert (1810-1870) aveva una formazione vasta, europea: conosceva bene il mondo inglese, dove aveva passato i primi anni della sua vita; come pari di Francia, aveva avuto un’esperienza politica notevole, impegnata non solo nella lotta per la libertà della scuola, ma anche del potere temporale; serio studioso della vita cristiana medievale, era a contatto con molti intellettuali europei, aveva una buona sensibilità storica e politica, anche se non possedeva una profonda formazione teologica. Bilio (1826-1884), di modesta famiglia, entrato giovanissimo fra i Barnabiti, aveva insegnato in vari collegi dell’Ordine, finché venne chiamato a Roma nel 1857. Buon erudito e bravo professore di teologia, era chiuso nei suoi libri, senza alcun contatto coi dibattiti del tempo, senza esperienza né pastorale né di rapporti diretti con ambienti diversi. Come altri teologi del tempo, non pubblicò mai nulla. I due rappresentavano due mondi diversi, opposti. P. aveva la mentalità intransigente del Bilio e, pur stimando il visconte francese, non poteva condividerne la sensibilità.
Tra la fine del 1863 e i primi mesi del 1864 a Roma si svolse una duplice attività: arrivarono lettere dalla Francia (Pie e, in senso opposto, Dupanloup), dal Belgio (Adolphe Dechamps, lo stesso sovrano Leopoldo I); Dupanloup si fermò a lungo a Roma, sperando di influire su P. per evitare ogni condanna del discorso di Malines. Ma tutto fu inutile. Antonelli in marzo scrisse una lettera ufficiale anche se riservata a Montalembert, con varie critiche al suo discorso, augurandosi che potesse riparare il male fatto. Il visconte rispose genericamente, poi si chiuse nel silenzio. Bilio lavorò indefessamente. Stese integralmente la Quanta cura, e redasse l’elenco finale degli errori condannati, desunti da precedenti documenti di Pio IX. Tra la fine di novembre e la metà di dicembre 1864 i due testi erano pronti. La Quanta cura, nel consueto tono duramente negativo, ricordava altri documenti precedenti del papa, sottolineava varie misure che lo Stato liberale in quei decenni aveva già effettuato contro i religiosi e contro l’indipendenza della Chiesa, ripeteva alla lettera la condanna della Mirari vos sulla libertà di coscienza, e vi aggiungeva il rifiuto di una legislazione che non riservasse un trattamento giuridico speciale al cattolicesimo. Lo scritto del Bilio passò integralmente nel testo ufficiale. Maggior eco ebbe l’elenco di ottanta errori, passati alla storia col nome di Sillabo. La lunga lista di tesi aveva alcuni limiti minori e altri più notevoli. L’elenco era troppo lungo; giustapponeva questioni secondarie ed essenziali; adottava una forma sintetica, finendo per deformare in molti casi il pensiero esatto di P., che si doveva desumere dal documento originario. Il papa infatti non aveva mai negato la possibilità di salvezza eterna per quanti fossero in buona fede (il detto «extra ecclesiam nulla salus» andava interpretato rettamente), e aveva condannato non la civiltà moderna in genere, ma la società liberale, per la sua frequente violazione dei vetusti diritti della Chiesa. Più importante comunque restava il problema di fondo. Che significato esatto avevano le ultime proposizioni condannate, relative alla tolleranza del culto acattolico nei paesi cattolici, al rifiuto di una religione di Stato, alla libertà di pensiero? Il pontefice condannava in concreto questi principi, entrati ormai in larga parte delle costituzioni europee ed extraeuropee? E quali conseguenze pratiche si dovevano dedurre da queste condanne? Lo Stato liberale, viziato nelle sue radici, era da ritenersi illegittimo?
Gli intransigenti giudicarono il documento una condanna del liberalismo cattolico. I radicali vi scorsero invece il rifiuto della civiltà moderna in se stessa. Si comprende il successo dell’opuscolo di monsignor Dupanloup, La convention du 15 septembre et l’encyclique du 8 décembre, uscito alla fine di gennaio 1865. Secondo l’autore, la tolleranza, la libertà di culto, lo Stato aconfessionale non erano condannati da P. in modo assoluto. Il rifiuto del culto pubblico acattolico rifletteva l’ordine oggettivo, in cui non esiste un diritto di seguire l’errore, non considerava il modo concreto in cui nella nostra epoca, religiosamente pluralistica, si possa realizzare quest’ordine oggettivo. La libertà religiosa era condannata come «tesi» (ideale assoluto) non come «ipotesi» (male minore, imposto dalle circostanze). Il vescovo di Orléans venne presto accusato di aver travisato il pensiero di Pio IX. E l’anno dopo, nel 1866, Veuillot avrebbe pubblicato L’illusion libérale.
Il dissidio Montalembert-Bilio si ripeteva ora con le diverse posizioni dei commentatori, Dupanloup e Veuillot. Il papa, cui tutti si appellavano, paradossalmente dette ragione a tutte e due le parti: sanzionò e fece sua l’analisi unilaterale del Bilio, inviò al Dupanloup un breve elogiativo. Astrattamente, P. difendeva lo Stato cattolico, la cristianità, l’unità di fede. Col cuore, suo malgrado, accettava la realtà di fatto, la libertà di culto, il mancato riconoscimento di una religione di Stato, come un male minore, ormai inevitabile. Certo, la distinzione fra tesi e ipotesi non risolveva il problema, e dava adito all’accusa mossa ai cattolici, e colta con chiarezza da acuti teologi come monsignor Maret, di non amare a fondo il proprio paese, accettandolo a malincuore, solo come un male inevitabile. Ma per il momento ci si continuò ad aggrappare ad essa. La distinzione tesi-ipotesi rimase uno dei punti fermi dell’insegnamento cattolico sino al Vaticano II.
All’inizio della guerra contro l’Austria del 1859, il papa e l’Antonelli sembrarono non rendersi conto della portata degli eventi. Nel settembre 1860 prestarono fede ad equivoche dichiarazioni francesi, e con una larga dose di ingenuità (con uguale responsabilità da parte di entrambi) si illusero sulla sterilità della spedizione garibaldina nel Mezzogiorno, rimasero convinti che l’esercito piemontese non avrebbe invaso le Marche, guardarono con calda simpatia a Francesco II di Napoli, un giovane politicamente impreparato, sopraffatto da un compito superiore alle sue forze, vittima della politica troppo sicura e maldestra del padre Ferdinando II. La realtà fu diversa, l’esercito pontificio, comandato dal Lamoricière, venne facilmente sconfitto a Castelfidardo, lo Stato pontificio venne ridotto al Lazio. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele assunse il titolo di re d’Italia, i giorni seguenti si ebbero i noti discorsi di Cavour su Roma capitale d’Italia. Il 6 giugno il ministro morì improvvisamente, assistito in punto di morte, probabilmente in modo generico e con un’assoluzione sbrigativa, dal francescano Giacomo da Poirino. P. chiamò a Roma il frate, e, certo che questi non aveva chiesto al morente nessuna ritrattazione, lo sospese dalla facoltà di ascoltare confessioni. Intanto, il 18 marzo 1861, l’allocuzione Jam dudum cernimus ribadiva che il papa non poteva rinunziare al suo Stato.
Lo stato d’animo di P., la sua convinzione sulla necessità del potere temporale e della sua difesa, l’intransigenza su questo problema appaiono chiare dai documenti ufficiali che si susseguono fra il 1850 e il 1870, dalla sua corrispondenza, dai suoi discorsi, dai suoi frequenti sfoghi, dai dispacci della Segreteria di Stato ai nunzi. P. teoricamente ammette la distinzione fra una necessità assoluta, immutabile, del potere temporale, e una necessità relativa, rispondente ai tempi. La distinzione resta però per lo più implicita, e il papa si limita a sottolineare l’esigenza di una sua piena e manifesta libertà nel governo della Chiesa. Talvolta affiora nei documenti la preoccupazione di essere fedele al giuramento prestato al momento dell’elezione, di conservare l’integrità dello Stato della Chiesa, senza riflettere sulla relatività della promessa, condizionata dalle circostanze storiche e dovuta inizialmente a ben altri motivi (condanna del grande nepotismo). Il processo risorgimentale d’altra parte tendeva alla nascita di un nuovo tipo di Stato. Tutti i cittadini erano ormai uguali di fronte alla legge, senza distinzione di culto. Aveva fine il sistema giuridico tradizionale, che riconosceva nella Chiesa un’origine divina e il possesso della verità. La scuola dipendeva ormai solo dalle autorità civili, non dalla gerarchia. Era riconosciuta libertà di stampa e soprattutto di culto e di propaganda per tutte le religioni. Nel matrimonio si distingueva contratto e sacramento, e si introduceva il matrimonio civile, l’unico riconosciuto dallo Stato, come voleva il liberalismo europeo, che insieme apriva così gradualmente la strada al divorzio. Lo Stato in sostanza affermava una sua propria nozione di bene e di male, senza curarsi se essa corrispondesse o no a quella della Chiesa. P. vedeva quest’evoluzione come un grave pericolo per milioni di suoi sudditi, «abbandonati alla mercé di un partito che [...] ne insidierebbe la fede e ne corromperebbe i costumi». Il nuovo Stato italiano, intanto, attuava una serie di leggi contro i religiosi e il patrimonio ecclesiastico (1866, 1867). Vari cardinali vennero allontanati dalle loro sedi; un largo numero di vescovi meridionali, prevalentemente filoborbonici, fu esiliato; si susseguì un irritante stillicidio in molte questioni ecclesiastiche, dalla nomina ai benefici all’imposizione di cerimonie religiose per feste politiche.
La mentalità del papa era condivisa dagli intransigenti, sempre ben accetti. Le personalità più aperte invece vennero più volte severamente ammonite, o furono oggetto di lunghe pressioni finché si allinearono. Questi casi non furono del tutto rari. Accenniamo appena a monsignor Corti, il vescovo di Mantova e al caso di don Tazzoli, che solo dopo lunga resistenza firmò una dichiarazione sulla necessità, sia pure relativa, del potere temporale. Il gesuita Curci, l’autentico fondatore della «Civiltà Cattolica», convinto ormai che il potere temporale era finito, non accettando il silenzio finì nel 1877 per chiedere le dimissioni dalla Compagnia di Gesù (il papa sino all’ultimo sperò che si evitasse il peggio). Il Passaglia, che tanta parte aveva avuto nella definizione dell’Immacolata, aveva lasciato la Compagnia di Gesù nel 1859, ottenendo subito, con l’appoggio di P., una cattedra all’Università statale di Roma. Presto però era passato all’altro fronte, lasciando Roma, cooperando con Cavour nel 1860-1861, divenendo deputato dal 1861 al 1865, promuovendo con un certo successo fra il clero una petizione per la rinunzia al potere temporale. Sospeso «a divinis», solo in punto di morte, nel 1887, si riconciliò con la Chiesa. I «passagliani» (circa diecimila) furono obbligati ad una ritrattazione. L’intransigenza largamente diffusa ebbe conseguenze diverse. Si discusse a lungo sulla legittimità di partecipare alle elezioni, oscillando fra la posizione negativa del 1864-1865, e quella abbastanza favorevole del 1866, sino alle reiterate dichiarazioni sempre più contrarie del 1867-1878. Si affermava ormai il «non expedit», sui cui effetti positivi e negativi ancor oggi si discute. I cattolici italiani restavano comunque estraniati dalla politica ufficiale, e, in larga misura, dalla vita pubblica. Ci si può chiedere sino a che punto il papa stesso rimanesse isolato, fra un gruppo di fedeli osannanti, le masse popolari e la classe dirigente, espressione della borghesia liberale, spesso sinceramente cattolica, ma avvezza ormai (come Manzoni) a non tener conto delle direttive politiche della Santa Sede.
Nonostante l’incerta situazione politica, di cui il papa non si rendeva del tutto conto o che sottovalutava, per la convinzione che ben altri valori erano in campo, negli anni dopo il 1860 lentamente maturò in P. l’idea di un nuovo concilio ecumenico. Il papa pensava di sviluppare con la collaborazione dei vescovi l’opera iniziata colla definizione del 1854, e proseguita col Sillabo, di cui non coglieva i limiti. L’idea era esclusiva del papa: l’Antonelli vi rimase del tutto estraneo. Per il pontefice, l’Immacolata, il Sillabo, il concilio Vaticano dovevano costituire tre momenti successivi di una stessa campagna, il richiamo, per gli individui e per la società, dei valori soprannaturali, il rafforzamento dell’autorità pontificia in risposta agli attacchi del momento. Annunziato ufficialmente nel 1867, indetto nel 1868, il concilio si aprì l’8 dicembre 1869.
All’apertura, i circa settecento vescovi presenti (su un totale di un migliaio) erano ormai divisi in due gruppi. La minoranza, poco più di un quarto, composta di vescovi tedeschi, austriaci, ungheresi, di parecchi francesi, per motivi storici (i casi di Liberio e di Onorio), teologici (mancanza di una chiara idea sull’evoluzione del dogma, insistenza sulla dignità e l’autorità dell’episcopato), pastorali (timore di irritare protestanti, ortodossi, gran parte della mentalità moderna), era contraria alla definizione dell’infallibilità come inopportuna e soggetta a serie difficoltà di sostanza. La maggioranza, circa i tre quarti, raccoglieva quasi tutti i vescovi di lingua spagnola, quelli provenienti dalle missioni, i pastori belgi, svizzeri, italiani, la maggioranza dei francesi, due terzi dei vescovi statunitensi. Essa appoggiava energicamente la definizione proposta, a suo avviso fondata su una lunga tradizione, esplicitamente condivisa dalla maggioranza dei fedeli, rispondente all’urgente bisogno di dare una risposta all’assalto contro il papato. P. vide, sì, con simpatia il movimento favorevole alla definizione, e lo appoggiò con tutte le sue forze, specialmente gli ultimi giorni del concilio. Non si può tuttavia affermare che questa corrente sia sorta per suo impulso, e, contrariamente alle tesi difese in questi ultimi decenni specialmente dallo svizzero A.B. Hasler e dal tedesco H. Küng, non si può affermare che egli abbia imposto di proprio arbitrio questo dogma ad una Chiesa riluttante e contraria.
Alle prime discussioni sul progetto intorno agli errori del razionalismo, opera del gesuita Franzelin, il testo venne giudicato negativamente, non per il suo contenuto, ma per il modo in cui esso era esposto, prolisso, oscuro, polemico. La commissione competente venne incaricata di preparare un’altra redazione. Fu un colpo per il papa: il concilio si avviava per una via diversa da quella da lui immaginata, le sue speranze di una rapida approvazione degli schemi si stavano dileguando. Egli non volle però limitare la libertà di discussione, con viva soddisfazione dei vescovi presenti, sicuri ormai che i timori di una semplice parata si erano rivelati infondati. Lo schema venne largamente rifatto, mentre il regolamento conciliare si adattava alla situazione, per conciliare la libertà di discussione e la rapidità dei lavori. La costituzione Dei Filius venne così approvata definitivamente alla fine di aprile. Essa insegna l’esistenza di un Dio personale, creatore e provvidente; dichiara che Dio può essere conosciuto con le forze della ragione, ma insieme ribadisce la necessità morale della rivelazione, perché le verità accessibili alla ragione siano conosciute da tutti facilmente, senza errore, con piena certezza, e la necessità assoluta della rivelazione, per le verità soprannaturali (Trinità, incarnazione, redenzione...); spiega la natura della fede, dono soprannaturale e libera adesione dell’intelligenza mossa dalla volontà; afferma che non vi è opposizione fra fede e ragione. Erano respinti così il razionalismo, ma anche il tradizionalismo, che svalutava eccessivamente la ragione (tendenza che aveva riscosso larga simpatia nel primo Ottocento), e il fideismo, che separava radicalmente ragione e fede, negando che la ragione, sorretta dalla grazia, prepari l’uomo alla fede. Si ribadiva la conciliabilità tra fede e scienza e l’autonomia specifica di quest’ultima. Il documento conciliare, opera non esclusiva della Curia e dei teologi strettamente legati al papa, ma frutto della collaborazione fra papato ed episcopato, a differenza dei testi pontifici di quegli anni si manteneva sereno, equilibrato, ottimista, e da allora sarebbe rimasto uno dei documenti fondamentali del magistero ecclesiastico. Si compiva un forte passo in avanti rispetto alla Quanta cura.
Dalla metà di maggio alla metà di luglio si discusse il progetto sul primato di giurisdizione del papa sulla Chiesa e sulla sua infallibilità personale. Gli infallibilisti pensavano di poter raggiungere con quella definizione una vittoria definitiva sulle tendenze autonomistiche di alcune Chiese, specie in Francia, dove, secondo P., il gallicanesimo manteneva ancora molti aderenti, ostili a una stretta dipendenza dalla Santa Sede. Gli antinfallibilisti ricordavano il ruolo che l’episcopato ha avuto ed ha nella storia e nella struttura della Chiesa, e soprattutto sottolineavano che il papa nell’insegnare solennemente una dottrina, non fa che dare maggior autorità a tesi comuni da tempo a tutta la Chiesa, di cui è l’organo. Esiste una connessione di fatto fra le eventuali dichiarazioni decisive, irrevocabili, del papa e la tradizione ecclesiale. La discussione assunse talora toni vivaci, il papa specie negli ultimi giorni intervenne in modo pesante, sia lamentandosi della pretesa moderazione del Bilio, presidente della commissione che dirigeva le discussioni e preparava i testi da sottoporre all’assemblea, sia trattando in modo talora duro alcuni vescovi, specie orientali, sia dando precise direttive per alcune formule, sia dichiarando eccitato al cardinal Guidi, dopo un suo tentativo di mediazione, «La Chiesa, la tradizione sono io!» (formula un po’ semplicistica, che ricorda quella attribuita a Luigi XIV, «Lo Stato sono io»). Gli ultimi tre giorni, il 15-17 luglio, P. respinse con gentilezza ma con fermezza le ultime pressioni contrarie, avanzate da vescovi tedeschi e francesi, fra cui Darboy e Dupanloup. Tutto questo non impedì una collaborazione fra le due correnti, alla ricerca di una formula moderata accetta a tutti.
La costituzione Pastor aeternus, approvata definitivamente il 18 luglio dopo la significativa partenza alla vigilia di cinquantacinque vescovi antinfallibilisti, francesi tedeschi e qualche raro italiano, insegna il primato di giurisdizione del papa su tutta la Chiesa. Essa riporta alla lettera la definizione del concilio di Firenze del 1439, ricordando però anche che l’autorità suprema del papa non annulla quella dell’episcopato. Inoltre il documento conciliare definisce l’infallibilità personale del papa nell’insegnare «ex cathedra», cioè con la pienezza della sua autorità, in modo solenne e irreformabile, verità di fede e di morale, e ricorda che l’infallibilità così descritta non deriva dal consenso dell’episcopato, ma è una prerogativa del potere papale. P. ordinò che si inserissero le parole: «ex sese, non autem ex consensu ecclesiae». Le parole, in sé poco chiare, erano state spiegate i giorni precedenti: indicavano la fonte ultima dell’infallibilità, l’autorità papale, ma supponevano sempre che il capo della Chiesa non avrebbe insegnato e definito se non quanto fa parte della tradizione rivelata, cioè quanto è di fatto già ammesso e creduto da essa.
I vescovi partiti il l7 luglio aderirono più o meno presto alla definizione, per motivi pastorali (non creare difficoltà alla Chiesa in momenti difficili), ma anche dottrinali (l’adesione dalla stragrande maggioranza dell’episcopato alla dottrina definita). Solo uno sparuto gruppo di discepoli del Döllinger, scavalcando il maestro, non si limitò a respingere il dogma, ma dette vita, ancor vivo P., a un gruppo diviso sostanzialmente da Roma.
Il concilio godette di una libertà sufficiente per la validità delle sue decisioni. Le controversie del maggio-luglio, la presenza costante di una considerevole opposizione, sembrano dimostrare l’esistenza di una sufficiente libertà. È anche vero che P. dopo i primi mesi divenne teso e preoccupato, deciso a portare il concilio alle mete che si era prefisso. Il consiglio di presidenza fu ridotto a uno strumento esecutivo, si accentuarono le diffidenze persino nei confronti di fedelissimi come Antonelli e Bilio, crebbe il sospetto verso la minoranza. Eppure proprio questa portò un utile contributo, eliminando le tesi eccessive e portando a un certo equilibrio. P. dovette moderare le sue pretese. Nel concilio non trionfarono le tesi massimalistiche della «Civiltà Cattolica», ma opinioni più moderate, largamente accettate dalla stessa minoranza. Il papa stesso poco dopo la fine del concilio in varie occasioni (1871, 1875) distinse esplicitamente la dottrina sull’infallibilità proclamata dal Vaticano I, relativa all’insegnamento sulla fede e la morale, dalle dichiarazioni emesse durante il Medioevo intorno ai rapporti fra papa e principi. Esse si fondavano sul diritto pubblico allora vigente, ed avevano un valore relativo, contingente. Comunque, le due definizioni del 18 luglio costituiscono la conclusione logica di un processo secolare, da Firenze (1439) in poi, di una lotta contro il gallicanesimo con i suoi quattro articoli del 1682, e contro il febronianesimo. Per P. poi, esse rappresentavano il coronamento di una linea costante del suo governo, con gli sforzi rivolti a limitare e indebolire le ultime tracce del gallicanesimo, ed a rafforzare l’ultramontanesimo, cioè il movimento favorevole ad un’unione sempre più stretta della Chiesa intera attorno al papa. Basti ricordare le solenni riunioni episcopali a Roma del 1854, 1862, 1867.
Nell’insieme, il Vaticano I, e in definitiva P., non si sono limitati solo a tagliare le ali all’ultramontanesimo eccessivo e radicale (R. Aubert); non hanno ripreso e sviluppato il programma di Gregorio I e Gregorio VII, come insinua il Lortz; semmai, come afferma G. Miccoli, il Vaticano I costituisce la risposta della Chiesa alle pretese dello Stato di sottrarsi alla sua direzione e al suo influsso. Più probabilmente il 18 luglio stimolò il processo di centralizzazione già in atto, e rafforzò l’autorità del papa in un momento critico. D’altra parte, la teologia dell’Ottocento, e P. con essa, non potevano aver raggiunto i risultati oggi maturati. La stessa ecclesiologia e la vita della Chiesa erano contrassegnate dall’accentuazione dell’autorità del papa, non davano sufficiente spazio all’episcopato, ignoravano il laicato, finivano per lasciare poco spazio al dialogo con la cultura moderna. Questo non ci trattiene dal riconoscere i risultati allora raggiunti, e i meriti di P. per un rafforzamento della Chiesa di quel tempo.
Lo scoppio della guerra franco-prussiana, il ritiro dell’ultimo presidio francese a Roma, la rapida evoluzione della situazione generale, indussero presto il governo italiano alla decisione di occupare Roma, comunicata alle varie potenze. In quelle settimane P. e l’Antonelli rimasero inerti nell’attesa. Influirono in quest’atteggiamento un’ingenua e antistorica fiducia in Dio, dovuta anche ai risultati del concilio, alle vittorie del 1867 sugli ultimi tentativi garibaldini di prendere Roma. Non vanno dimenticati però altri fattori: una innegabile stanchezza, uno scarso senso politico-storico, un certo romanticismo, abbastanza diffuso anche fra gli ecclesiastici romani. Il segretario di Stato, il «furbo» Antonelli, non prese neppure i provvedimenti suggeriti dal buon senso, di trasportare dal Quirinale in Vaticano l’archivio della Segreteria di Stato, di raccogliere nelle sue mani le somme dell’obolo di S. Pietro. Il 14 settembre, il generale Kanzler, comandante dell’esiguo esercito pontificio, ricevette l’ordine autografo del papa «di aprire le trattative per la resa ai primi colpi di cannone». P. non aveva perso del tutto il suo umorismo, che trovava sfogo, nei momenti di rilassamento, nella composizione di qualche sciarada: e il 18 ne compose una, che con la parola conclusiva, «tremare», alludeva all’incertezza del momento. Ma la sera del 19 le pressioni del Kanzler, fermo nella sua visione dell’onor militare, indussero il papa a modificare l’ordine del 14, e a permettere di prolungare la resistenza, cioè di «aprire le trattative per la resa appena aperta la breccia» (P. Dalla Torre, La difesa di Roma nel 1870, inPio IX nel primo centenario della sua morte, Città del Vaticano 1978, pp. 485-659).
Dopo la capitolazione, in seguito ad un messaggio del Kanzler voluto dall’Antonelli, Cadorna occupò la città leonina. P., consultati vari cardinali presenti a Roma, decise di rimanere a Roma, dichiarò interrotto, non chiuso, il concilio Vaticano I, e seguì una politica intransigente, talora irrealistica: con l’apertura di un’università pontificia contrapposta a quella statale, finita presto; con i vari documenti di protesta e di scomunica; con la condanna della legge delle guarentigie. Eppure il papa, dopo quella legge, era libero di agire nella nomina dei vescovi: così un centinaio circa venne nominato fra il 1871 e il 1878. Si verificò in tal modo un rinnovamento dell’episcopato italiano, per circa la metà, con la prevalenza di intransigenti. Restava però il problema dell’«exequatur», che la legge confermava. Solo dopo la morte dell’Antonelli, alla fine del 1876, P. autorizzò i nuovi vescovi a presentare le bolle di nomina e a chiedere l’«exequatur». Si riconosceva il nuovo corso della storia, e la situazione italiana, da questo punto di vista, cominciava a normalizzarsi. In quegli anni, se P. si mostrava moderato nel respingere alcune proposte di condanna all’indice, dall’altra nelle udienze relativamente frequenti a gruppi di fedeli, in discorsi amari che riflettono il suo stato d’animo al tramonto del lungo pontificato, sviluppò un autentico processo al Risorgimento. Gli entusiasmi del 1848 erano lontani. P. condannava tutto il Risorgimento, per coinvolgere poi in un analogo atto di accusa i cattolici liberali. Gli amari discorsi del papa risultano largamente comprensibili per chi ricorda la profonda trasformazione della Roma di quegli anni, che da capitale della cristianità, venerata essenzialmente come sede del capo della Chiesa, vicario di Cristo, diveniva capitale di uno Stato, con una lunga tradizione, sì, storica artistica letteraria, che in quel momento cercava però largamente di far dimenticare il suo antico passato cattolico, anche se non poteva cancellare dai Romani la fede e la religiosità avita. Si pensi alle conseguenze immediate del trasferimento della capitale italiana a Roma. Erano stati incamerati molto presto parecchi edifici, sino allora sedi di conventi, come quello delle Carmelitane, ben noto col nome Regina Coeli. Si era poi estesa a Roma, il 19 giugno 1873, la legge contro i religiosi del 1866, e di conseguenza i Gesuiti erano stati espulsi dal Collegio Romano. All’antica scuola confessionale si tentava di sostituire anche nell’Urbe una scuola statale, laica. Solo qualche rara volta, nell’agosto 1871, P. si rivolse al nuovo sovrano di Roma, con qualche frase dove affiorava ancora una volta un certo umorismo, sia pure amaro, perché cessassero episodi incresciosi di malcostume, proprio accanto a una casa ecclesiastica. L’antica corrispondenza fra P. e Vittorio Emanuele II finì così. Nel novembre 1876 Antonelli, con cui il papa non aveva mai avuto un’autentica amicizia, morì. P. nominò subito il successore, il cardinal Simeoni, l’uomo adatto a una politica di attesa, necessaria in quella fase di transizione. «Tutto è cambiato intorno a me, il mio sistema e la mia politica hanno fatto il loro tempo, ma sono troppo vecchio per cambiare indirizzo», confidò il papa in quei giorni.
Anche in quegli anni, P. continuò a preoccuparsi degli Orientali. La sua politica globale attraversa tre momenti diversi. In un primo momento, nel 1848, con la lettera In suprema Petri Apostolici sede, e l’erezione di un patriarcato latino a Gerusalemme, prevale una certa polemica con gli Orientali separati, invitati semplicemente a sottomettersi, in un’ottica tipicamente romana. In un secondo tempo, dal 1850 al 1862, si avverte un maggior rispetto, manifesto nell’erezione della sede metropolita greco-cattolica di Alba Julia, in Transilvania, annunziata nella bolla Ecclesiam Christi, 1853, e nell’erezione della sezione orientale della Congregazione de Propaganda Fide. Dopo il 1862, invece, sembra prevalere una certa tendenza alla latinizzazione, se non nei riti, certo nella disciplina. Il papa tentò più volte di frustrare i tentativi del patriarca caldeo Audo di estendere la sua autorità sui cattolici del Malabar (che nei primi secoli avevano ricevuto il cattolicesimo dalla Caldea), e impose la necessaria conferma romana all’elezione del patriarca caldeo (1869). Ci furono momenti di forte tensione, minacce di scomunica, drammatiche udienze dell’Audo col papa. Analoghe controversie si ebbero con gli Armeni, molto contrariati dalla bolla Reversurus, 1867, che imponeva la conferma romana alle nomine dei vescovi e dei patriarchi armeni. Solo l’equilibrio e la fedeltà del patriarca armeno Hassun riuscirono ad evitare il peggio. Se Audo resta un tipico patriarca orientale, fiero della propria autorità e indipendenza, il patriarca armeno Hassun appare capace di equilibrare fedeltà a Roma e all’Armenia. Ma questa fedeltà non poté impedire un prolungato scisma degli Armeni di Costantinopoli, terminato solo dopo la morte di Pio IX. La stessa tendenza alla latinizzazione degli Orientali, appoggiata anche dal cardinal Barnabò, dinamico prefetto di Propaganda dal 1856 al 1874, appare in alcuni schemi di decreti preparati per il Vaticano I, mai approvati solo per mancanza di tempo.
Il successore di Gregorio XVI ovviamente si interessò a lungo della Polonia. Informato dalle nunziature e dai vari ambasciatori, dall’emigrazione polacca a Parigi, dalla non rara corrispondenza clandestina che con grandi rischi arrivava a Roma, il papa, senza mai condannare le aspirazioni polacche all’indipendenza, si tenne lontano dai movimenti rivoluzionari e dal loro esponente, il principe Czartoryski, in esilio dorato a Parigi. Sognare una Polonia indipendente, in quegli anni, era utopistico. P. incoraggiò invece in tutti i modi la lotta per l’indipendenza della Chiesa. Ebbe frequenti contatti con i migliori vescovi, come l’Hoùowiïski, di Mohilew, in Russia Bianca, si oppose alla nomina di candidati ambigui o filogovernativi, moltiplicò le note diplomatiche, ben documentate, scrisse più volte ad Alessandro II, proruppe in discorsi pieni di indignazione. Nel 1864, dopo una serie di vibranti note diplomatiche, il papa in un discorso attaccò Alessandro II, che opprimeva i suoi sudditi cattolici, ed esiliava il vescovo di Varsavia, Feliïski. Seguirono encicliche ed allocuzioni, e un ampio libro bianco vaticano sulle reiterate misure russe. Più tardi, lo zar aggravò la sua politica. Tentò di rafforzare l’autorità del Collegio ecclesiastico di Pietroburgo, come organo di controllo statale sulla Chiesa (due vescovi che avevano resistito dietro precisi ordini di Roma vennero esiliati); soppresse varie diocesi polacche; tentò di introdurre la lingua russa nelle Chiese latine. Più clamoroso fu il «latrocinio di Cheùm» (1875), il passaggio coatto alla Chiesa statale russa di un centinaio di migliaia di cattolici ruteni di Cheùm, nella Polonia sudorientale: un buon gruppo di laici e di sacerdoti morì per la sua fedeltà a Roma. I duri, reiterati interventi della Santa Sede non riuscirono a sbloccare la situazione.
La voce di P. giunse con frequenza all’episcopato latinoamericano, insistendo sugli stessi temi: vigilanza sul clero, non sempre fedele all’obbligo del celibato, difesa dell’indipendenza della Chiesa, lotta contro la laicizzazione, specie contro il matrimonio civile, sinodi diocesani e provinciali, predicazione, scelta di candidati atti all’episcopato, moniti severi a vescovi infedeli alla propria missione, inviti a una certa moderazione nell’applicazione di qualche legge ecclesiastica. L’episcopato locale, debole, isolato, osteggiato dai governi, non avrebbe potuto operare con efficacia senza il sostegno del papa, che d’altra parte mandò in qualche paese, come Haiti, inviati straordinari. P. incoraggiò Massimiliano d’Asburgo ad accettare la corona messicana, ma rimase presto deluso. Il fallimento del giovane romantico imperatore, dovuto ad un insieme di errori politici, non può comunque essere addossato a P., come si affermò nel 1867 da qualche parte in Francia. In Brasile il papa intervenne in occasione della lotta sostenuta contro la massoneria da due vescovi energici, condannati per questo nel 1874 a quattro anni di carcere, e liberati un anno più tardi, dopo interventi del pontefice, per altro non sempre coerenti.
In Prussia, durante il Kulturkampf scatenato da Bismarck dopo il 1870, il papa divenne presto il sostegno dei vescovi. Non manca chi critica la sterilità dei metodi di lotta allora inculcati, l’inadeguatezza delle sue argomentazioni, l’eccessiva intransigenza in alcuni punti. Alcuni oppongono un P. impolitico, mediocre stratega, a un Leone XIII gran diplomatico e vincitore. Certo, non si può dimenticare la lettera del 7 agosto 1873 di P. a Guglielmo I, in cui il papa sottolinea che «chiunque è battezzato appartiene in qualche parte [...] al papa». Guglielmo rispose il 3 settembre, dichiarando che non riconosceva altro mediatore con Dio che Nostro Signor Gesù Cristo. Al di là di questo episodio secondario, si deve riconoscere che Leone raccolse i frutti di una resistenza cominciata prima del suo avvento, sempre sostenuta dalla Santa Sede. E se in Vaticano fino al 1870 non erano mancate diffidenze e tensioni fra P. e l’episcopato di lingua tedesca, ora si avverte una forte concordia fra P. vescovi e fedeli. La Germania cattolica si appoggia a Roma, che comprende lo stato d’animo dei suoi corrispondenti, lo condivide, ne fa proprie le sofferenze. L’appoggio romano è ora riconosciuto dai cattolici tedeschi come uno dei mezzi più efficaci della propria indipendenza. Bismarck nel 1873 dichiarò in Parlamento: «A Canossa non andiamo [...]». La realtà fu diversa. P. costituì il miglior sostegno dei vescovi, cinque dei quali arrestati, con lettere private, con interventi solenni fra il 1873 e il 1875, che sollevarono tante polemiche, con istruzioni ai nunzi, con la promozione a cardinale nel 1875 dell’arcivescovo di Gnesen-Posen, Ledóchowski, arrestato in una fortezza a ovest di Gnesen dal 1874, e liberato solo nel 1876, dopo due anni di internamento.
La lotta si estese anche in Svizzera, con l’espulsione di due vescovi (Lachat e Mermillod), e un tentativo di riforme democratiche nella Chiesa. Le solenni allocuzioni e le lettere di P. negli anni 1871-1876 mostrano un’azione di conforto e di sostegno, nella piena unità di intenti e di idee. Anche a Vienna non mancarono difficoltà, per le nuove leggi del 1874 sul matrimonio e la scuola. Si ebbero missioni speciali a Roma, e minacce da parte di P. di censure ecclesiastiche verso il «bonissimus vir», come sarcasticamente P. chiamava Francesco Giuseppe. Fra i due, certo, da tempo non esisteva nessuna simpatia.
Dopo la caduta di Napoleone III, P. per qualche tempo guardò con favore ad Enrico di Chambord, ostile ai cattolici liberali, ma presto si rese conto dello scarso senso politico del pretendente, comprese che l’avvenire della Francia era ormai repubblicano, e pensando alla sterile discussione sulla bandiera da scegliere osservò: «Tout ça pour une serviette [...]». In Spagna, il papa aveva guardato con simpatia a Isabella II, nonostante tutte le sue traversie matrimoniali e il suo scarso senso politico. Nel 1868, come gesto di simpatia e nella speranza di rafforzare il suo vacillante potere, le aveva inviato un dono significativo, riservato alle sovrane benemerite, la cosiddetta rosa d’oro. Il 13 febbraio 1868 la regina riceveva l’omaggio: il 30 settembre lasciava Madrid, sopraffatta dalla rivoluzione. Il pontefice mantenne però la sua simpatia per il figlio di Isabella, Alfonso XII, salito al potere alla fine del 1874. Si mostrò invece realisticamente scettico davanti ai carlisti, e nel 1872 scrisse: «Buona e santa gente, che [...] si accinge a certe imprese con la testa nel sacco». Del tutto sterile fu la lotta avviata nel 1876 in Spagna contro la moderata tolleranza verso i protestanti sancita dalla nuova costituzione di Alfonso XII. Ben più importanti e costruttive furono le nuove nomine episcopali, avvenute quegli anni al di qua e al di là dei Pirenei, contemporanee a quelle che si erano realizzate in Italia dopo il 20 settembre.
Nei suoi trentadue anni di pontificato, P. in ventitré «infornate» nominò centoventitré nuovi cardinali, dei quali solo sessanta sopravvivevano alla sua morte. Particolarmente significative furono le nomine avvenute dopo il l870, con cinquantasette nuovi porporati. Il governo italiano considerò il fatto chiaro segno della piena libertà di cui godeva sempre il pontefice. Nell’insieme, il Collegio cardinalizio in quegli anni presenta queste caratteristiche. Scompaiono i cardinali vescovi di piccole città dello Stato pontificio, e per la prima volta appare un vescovo degli Stati Uniti, McCloskey, di New York. Sono quasi scomparsi i cardinali diaconi, che ebbero i loro ultimi rappresentanti in Matteucci, morto nel 1866, Antonelli, defunto nel 1876, e nel degnissimo Mertel, scomparso nel 1899, a novantatré anni. Spariscono praticamente anche i cardinali divenuti sacerdoti solo per necessità di carriera (l’ultimo fu il Berardi, morto pochi giorni dopo il conclave del 1878). L’età media è piuttosto elevata, sopra i sessantacinque anni, con due sole eccezioni, Howard e Parocchi. Si avvertono alcune assenze: a parte il Pitra, mancano i grandi intellettuali, come Newman ed Hergenröther. P. non avvertiva l’importanza della cultura (come appare anche dalle difficoltà e dal pratico divieto della pubblicazione degli Atti del Tridentino). Mancano però anche uomini capaci, zelanti, aperti, ma indipendenti, come Darboy, Ketteler, Nazari di Calabiana. Incontriamo invece uomini che dovevano la nomina alle loro origini familiari, Bonaparte, de Falloux, Hohenlohe, D’Andrea. Specialmente col D’Andrea, strano, impulsivo, superficiale, sospeso per vari mesi dalla sua dignità, il papa pagò un forte prezzo per la sua nomina. Del tutto discutibile, ieri come oggi, fu la nomina del Matteucci, capo della polizia e governatore di Roma, notoriamente immorale. P. ritardò la promozione, poi si arrese davanti alla posizione del candidato, destinato al cardinalato per il posto che occupava. Del resto tutti ormai sapevano che la sua morte non era lontana. Il pontefice non riuscì comunque a liberarsi dalle maglie di un sistema che non approvava. Tra i nuovi membri del Collegio, incontriamo due gesuiti, Tarquini, il canonista del Collegio Romano, fortemente chiuso, fermo alla tesi e ignaro dell’ipotesi, ma che aveva prestato un diuturno aiuto alla Santa Sede, e Franzelin, che tanta parte aveva avuto nel concilio. Il papa avrebbe voluto promuovere anche il Perrone, ma si arrese davanti alla resistenza del generale dei Gesuiti, Beckx. I cardinali di quegli anni provengono da due strade. Gli uni hanno servito a lungo la Santa Sede come fedeli ed intelligenti funzionari, segretari di Congregazioni (Bizzarri, Caterini, Recanati, Barnabò, Capalti, Cagiano de Azevedo...), giudici coscienziosi (Marini, Bofondi...), nunzi in importanti capitali (Altieri, Ostini, Viale Prelà, De Luca, Fornari, Sacconi, Chigi, Falcinelli Antoniacci, Di Pietro...). Altri si erano mostrati efficienti pastori, in Italia, Francia, Germania, Austria, Spagna, Portogallo... Ovviamente, tutti avevano servito con fedeltà, con intelligenza, e condividevano la mentalità curiale: erano sostanzialmente degli intransigenti.
Le beatificazioni e le canonizzazioni di quegli anni rivelano un preciso indirizzo: riaffermazione di un ideale altissimo, di contrapposizione alla società del tempo, ma anche difesa della Chiesa, e impegno per l’unità dei fedeli. Non a caso proprio nel 1862 e nel 1867 P. celebrò le canonizzazioni più significative: ventisei martiri del Giappone, diciannove olandesi, martiri di Gorkum, nei Paesi Bassi, alla fine del Cinquecento, Giosafat Kunciewyicz, di Plock in Polonia, dell’inizio del Seicento, Pietro d’Arbues, inquisitore medievale ucciso nel Quattrocento. Quest’ultima canonizzazione suscitò polemiche fra quanti vi scorgevano un’esaltazione dei metodi dell’Inquisizione (Döllinger) e chi vi riconosceva uno stimolo alla necessaria difesa contro gli Ebrei.
Il 9 gennaio 1878 dopo pochi giorni di malattia morì a Roma Vittorio Emanuele II, dopo aver pronunciato una generica dichiarazione di fedeltà alla Chiesa, sufficiente per i conforti religiosi. I funerali, il 17, divennero intenzionalmente una solenne celebrazione di Roma capitale d’Italia, quasi una nuova Porta Pia. Meno di un mese dopo, il 7 febbraio, ancora una volta dopo una breve malattia, anche P. moriva. Si contrapposero così a poca distanza di tempo due solenni funerali. Il Pontificato romano e il Regno d’Italia, la Chiesa cattolica e il mondo moderno, si fronteggiavano ancora una volta. Al di là dei contrasti, le due parti si ergevano nella loro forza. Tra il Vaticano e il Quirinale seguitava a scorrere il Tevere, quasi a significare la continuità e l’incessante divenire della storia.
Il lungo pontificato si chiudeva con un bilancio complesso. Si ebbe una larga vittoria sui residui del gallicanesimo e del giuseppinismo, un netto miglioramento del clero secolare e regolare, un’importante affermazione della pietà antigiansenistica, promossa dal papa con il suo esempio e il suo calore (devozione a Maria, al Sacro Cuore, di cui nel 1856 venne resa universale la festa, incoraggiamento alla consacrazione al Sacro Cuore...). I cattolici furono stimolati nella lotta contro la laicizzazione. Si ebbe una chiara affermazione dell’indipendenza della Chiesa, e in particolare della Santa Sede, una netta vittoria dell’ultramontanesimo, che oltre tutto rompeva ogni tendenza al particolarismo, chiuso attorno al proprio campanile. Ad esso si sostituiva finalmente un sincero universalismo: ci si sentiva cattolici non perché nati in quel paese e battezzati in quella parrocchia, ma perché fedeli al papa, al vescovo di Roma, vicario di Cristo. Si era compreso che il papa ha il primato di giurisdizione su tutta la Chiesa, e che come tale non può essere soggetto a nessuno, nemmeno al sovrano italiano. A tutto questo si contrapponeva però una forte chiusura nei confronti del mondo e della cultura moderna, la difficoltà di liberarsi da certe forme tradizionali di insegnamento e di studio, che apparivano in contrasto con recenti progressi scientifici (archeologia, paleontologia, nuova visione della storia primitiva...). Il mondo e la cultura ecclesiastica restavano in ritardo. Più grave era la tensione fra le due parti, fra il papa, chiuso in Vaticano, e l’Italia, portata anche dalle circostanze ad un’accentuata laicizzazione. Questa non si limitava a proclamare l’indipendenza dello Stato, ma soffocava la libertà della Chiesa, la voleva esclusa da ogni forma di vita sociale, la chiudeva in sacrestia, si mostrava incapace di coglierne la cultura, di ammirare le grandezze della Roma cristiana e di quella rinascimentale. Del resto la tensione fra la Roma papale e l’Italia, fra il Vaticano e il Quirinale, si sarebbe aggravata proprio sotto Leone XIII.
Fonti e Bibl.: per le fonti inedite resta fondamentale l’A.S.V., con i suoi vari fondi. Ricordiamo: Archivio particolare di Pio IX. Oggetti vari (oltre 2.200 pezzi numerati: fra essi, anche l’autografo della prima redazione dell’allocuzione del 29 aprile); Archivio particolare di Pio IX. Sovrani e particolari (corrispondenza con diversi sovrani, divisa per Stato, e con personaggi diversi: corrispondenza di P. con Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, Napoleone III, Francesco Giuseppe, Leopoldo II, Ferdinando II, Francesco II, Guglielmo I...); Epistolae ad principes (divise anno per anno in Registra e Positiones et minutae); Epistolae Latinae; Segreteria di Stato. Epoca moderna: carteggi, divisi, anno per anno, secondo gli argomenti, indicati secondo rubriche numerate. Dal 1848 sono importanti le rubriche: 1 (Sommo Pontefice); 2 (Cardinali); 3 (arcivescovi e vescovi), 165 (notizie politiche diverse); 242 (questioni di alta diplomazia); 247 (Nunziatura di Vienna); 248 (Nunziatura di Parigi); 249 (Nunziatura di Madrid); 253 (Nunziatura di Firenze); 255 (Nunziatura di Monaco); 256 (Nunziatura di Bruxelles); 283 (vescovi esteri: fra questi si intendono, dopo il 1860, anche i vescovi italiani).
Sempre tra i fondi della Segreteria di Stato è possibile consultare gli Spogli di Cardinali e Officiali di Curia. Archivi delle varie Nunziature (versate periodicamente dalla sede della Nunziatura all’A.S.V.); Archivio della Congregazione del Concilio (Positiones, Relationes dioecesium, Positiones Archivi Secreti); Congregazione dei Vescovi e Regolari; Congregazione della Disciplina Regolare; Congregazione sopra lo Stato dei Regolari; Congregazione dei Riti (con gli atti dei processi di canonizzazione); Archivio del Concilio Vaticano I (inedite le lettere di adesione dei vescovi assenti il 18 luglio 1870, ecc.).
Fuori dell’A.S.V. sono importanti l’Archivio detto un tempo degli Affari Ecclesiastici Straordinari, ora Archivio del Consiglio degli Affari Pubblici della Chiesa (ordinato per anni, per positiones, con molte positiones stampate che riassumono gli argomenti importanti discussi nelle sedute: fondamentale per i concordati e per le controversie con i vari Stati); Archivio del Santo Uffizio (aperto dal 1998, consultabile per i documenti sino al 1903: importante per molte questioni, come la causa di Rosmini, finita nel 1854, la preparazione del Sillabo...); Archivio della Congregazione dell’Indice (anch’esso aperto, dal 1998, sino al 1903: cfr. atti per la condanna di Rosmini nel 1849, ecc.); Archivio della Congregazione di Propaganda, ora Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (diviso in varie serie, Atti, Scritture riferite nelle Congregazioni Generali, Scritture riferite nei Congressi: importante per le discussioni sul patronato portoghese e le vicende connesse); Archivio della Congregazione per la Chiesa Orientale.
Tra le fonti edite: Acta Pii IX, I-IX, Roma 1846-78; A. Mercati, Raccolta di concordati [...], I, ivi 1919; I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, IL-LIII, Leipzig 1923-27; G.M. Croce, Una fonte importante per la storia del pontificato di Pio IX e del Concilio Vaticano I: I manoscritti inediti di Vincenzo Tizzani, «Archivum Historiae Pontificiae», 23, 1985, pp. 217-345; 24, 1986, pp. 273-363; 25, 1987, pp. 263-364; Il Concilio Vaticano I: Diario inedito di Vincenzo Tizzani (1869-1870), a cura di L. Pásztor, I-II, Stuttgart 1991-92; G. Martina, Verso il Sillabo. Il parere del barnabita Bilio sul discorso di Montalembert a Malines nell’agosto 1863, «Archivum Historiae Pontificiae», 36, 1998, pp. 1-42; per la Polonia, cfr. soprattutto le varie pubblicazioni documentarie di S. Olszamowska Skowroïska, citate in G. Martina, Pio IX (1851-1866), Roma 1986, pp. 498-99. Tra gli studi: R. Aubert, Il pontificato di Pio IX, Torino 1970; G. Martina, Pio IX,I-III, Roma 1974-90; L. Glinka, Diocesi ucraino-cattolica di Cholm [sic]. Liquidazione e incorporazione alla Chiesa russo-ortodossa, ivi 1975; K. Schatz, Kirchenbild und päpstliche Unfehlbarkeit bei den deutschsprachigen Minoritätsbischöfen auf dem I. Vatikanum, ivi 1975; A.B. Hasler, Pius IX (1846-1878), Päpstliche Unfehlbarkeit und
Vatikanisches Konzil. Dogmatisierung und Durchsetzung einer Ideologie, I-II, Stuttgart 1977; C. Falconi, Il giovane Mastai. Il futuro Pio IX dall’infanzia a Sinigallia alla Roma della Restaurazione, 1792-1827, Milano 1981; C.G. Patelos, Vatican I et les évêques uniates. Une tape éclairante de la politique romaine à l’égard des orientaux (1867-1870), Louvain 1981; C. Falconi, Il cardinale Antonelli, Milano 1983; A. Zanotti, Il concordato austriaco del 1855, ivi 1986; K. Schatz, Vatikanum I., 1869-1870, I-III, Paderborn-München-Wien-Zürich 1992-94; A. Rosmini, Della missione a Roma di A. Rosmini Serbati negli anni 1848-1849, a cura di L. Malusa, Stresa 1998. Non si possono dimenticare i numerosi studi relativi alla questione romana, alle controversie con le Chiese armena e caldea, al Kulturkampf, al patronato portoghese, alla situazione della Chiesa in Polonia, in Brasile (lotta contro la massoneria) e nei vari paesi dell’America Latina (rinviamo alle indicazioni contenute in molte pagine dei volumi II e III su Pio IX di G. Martina e a molte importanti voci del D.H.G.E. (Audo, Bahouth, Cheùm, Hassun...) e del D.B.I. (Antonelli, Bilio, Caterini, Corboli Bussi, Curci, D’Andrea...). E rinviamo, per la bibl. precedente, al cap. I (Interpretazioni di Pio IX. Storia di una storiografia) di G. Martina, Pio IX, I, pp. 1-48.