URBANO II, beato
Di modesta famiglia di cavalieri, Eudes (Oddone, Oddo) nacque nella castellania di Châtillon (oggi Châtillon-sur-Marne) intorno al 1035 da un feudatario dei conti di Champagne, signore di Binson (oggi Binson-et-Orquigny). L'attribuzione di U. ad una famiglia di antica nobiltà è infondata: la storia dei castellani di Châtillon comincia modestamente alla fine dell'XI secolo (M. Bur, p. 453). Il Liber pontificalis ci offre alcune informazioni sull'origine di U. ("natione Gallus, ex oppido Castellionis, quod est supra Marnam fluvium in archiepiscopatu Remensi"), una precisione che può essere spiegata attribuendola al rimaneggiatore del testo di Pandolfo, Pierre-Guillaume, monaco di St-Gilles nella diocesi di Reims. Avviato alla carriera ecclesiastica, Eudes frequentò la scuola cattedrale di Reims che era stata affidata dal vescovo Gervais di Château-du-Loir, già vescovo di Mans e legato alla casa di Blois, a Bruno di Colonia († 1101), divenuto in seguito il fondatore dei Certosini. Canonico e poi arcidiacono della chiesa cattedrale, Eudes decise, intorno al 1070, di entrare a Cluny dove, in un periodo che va dal 1070 o 1074 fino al 1078 o 1079, fu gran priore, mentre Ugo di Semur era abate. A questo periodo (1077) risale un fatto che collega Cluny alla famiglia di Eudes: Tebaldo I di Champagne domandò infatti al vescovo di Soissons che il priorato cluniacense di Coincy si espandesse a Binson. Confermando l'appartenenza a Cluny di Binson nel 1096, U. ricordò il ruolo che ebbero i suoi familiari nella fondazione di quel priorato (M. Bur, p. 225). Dopo la formazione canonicale, il contatto con s. Bruno e la sosta nel cuore monastico dell'Europa del tempo, Cluny, Eudes, tra il 1079 e il 1080, fu chiamato a Roma. Gregorio VII, infatti, aveva chiesto all'abate Ugo che gli inviasse degli "uomini saggi" per coadiuvarlo nella sua opera di riforma. Così Eudes si trovò a Roma, dove, tra l'altro, non mancò di difendere gli interessi economici di Cluny contro Landerico vescovo di Mâcon, in quanto Gregorio VII aveva ingiunto a Ugo di restituirgli dei beni. Nel 1080 Gregorio lo nominò cardinale vescovo di Ostia, proprio nell'anno in cui, al concilio di Pasqua, Gregorio VII scomunicò Enrico IV, fatto che, tra l'altro, determinò, il 25 giugno seguente, l'elezione di Wiberto di Ravenna come antipapa Clemente III. Sembra che nel frattempo Eudes fosse entrato a far parte della cerchia dei consiglieri più vicini a Gregorio VII. L'estrema fiducia di cui godeva da parte del papa gli valse la nomina a legato papale in Germania, ove, al concilio di Quedlinburg, in Sassonia (20 aprile 1085), sostenne la candidatura alla corona tedesca di Ermanno di Salm. In quell'occasione venne scomunicato l'antipapa Clemente III. Morto Gregorio VII a Salerno il 25 maggio 1085, a Roma, dopo un anno, fu eletto papa l'abate Desiderio di Montecassino, che Gregorio VII aveva indicato come interprete delle sue ultime volontà e che prese il nome di Vittore III. Gregorio VII avrebbe peraltro desiderato quale successore Anselmo da Lucca, il quale però morì il 18 marzo 1086; era stato indicato anche Eudes, ma i cardinali optarono per Desiderio. Non si sa se inizialmente Eudes sia stato contrario all'elezione del potente abate, ma certamente lo ritroviamo a Roma fra i quattro cardinali che, il 9 maggio 1087, intronizzarono Desiderio, ormai papa Vittore III. Quest'ultimo spirò dopo pochi mesi, a Montecassino, il 16 settembre 1087, non senza aver indicato Eudes quale successore. Il 12 marzo dell'anno successivo Eudes a Terracina fu eletto papa all'unanimità. Per la sua elezione, che non poteva avvenire a Roma, in mano a Clemente III, si ammise la delega del voto; in questo modo, oltre che da tutti i cardinali vescovi, il clero di Roma fu rappresentato dal vescovo Giovanni di Porto; l'abate di Montecassino Oderisio ricevette la delega per i cardinali diaconi; gli altri cardinali furono rappresentati dal cardinale di S. Clemente e i laici dal prefetto di Roma, Benedetto. Eudes fu consacrato il giorno stesso a Terracina e prese il nome di Urbano II, probabilmente in onore di Gregorio VII, morto il giorno della festa di s. Urbano. Riaffermava così, con un omaggio discreto, la sua volontà di continuare l'opera del grande predecessore. Per il momento, però, il suo pontificato non si presentava facile: Roma era ancora saldamente controllata da Clemente III che era riconosciuto, oltre che dall'Impero e dalla maggioranza dei cardinali, anche, sia pure con qualche oscillazione, dai re d'Inghilterra, questi non si era però ufficialmente pronunciato per alcun candidato, di Serbia e d'Ungheria. Per capire l'importanza di questo papa, e anche la sua non appariscente genialità, non va dimenticato quanto sia stata debole la sua posizione iniziale: egli infatti non ereditò né autorità né stabilità, per cui la grande azione riformatrice di Gregorio VII rischiava di non trovare un terreno in cui potesse continuare a svilupparsi. E invece U. rappresentò "un momento di fondamentale importanza nella storia della Chiesa medievale non solo per aver promosso la I crociata, ma anche per aver portato avanti quel grande movimento che fu la riforma della Chiesa, processo avviato [...] forse non senza qualche eccesso e qualche esagerazione da Gregorio VII" (G. Fornasari, p. 515). Per poter sostenere il confronto con Enrico IV, consacrato imperatore a Roma dall'antipapa Clemente III il 31 marzo 1084, U., eletto senza alcun sostegno normanno, dovette però ricercare il loro aiuto, come già avevano fatto i suoi predecessori. Così il Meridione divenne la sua base operativa. Morto Roberto il Guiscardo, gli era succeduto il figlio Ruggero Borsa (1085), che però faticava a tenere a freno le ambizioni dei suoi vassalli. U. risiedette a lungo in Italia meridionale: del 1089 è il primo viaggio, tra il maggio del 1090 e il novembre del 1091 il secondo, il terzo comincia nel maggio 1092 e termina a novembre del 1093 e il quarto, avvenuto in condizioni ormai molto diverse a causa della ritrovata stabilità dell'autorità pontificia, ebbe luogo tra il maggio e il novembre del 1098. Nel 1089 U. investì Ruggero Borsa del titolo di duca di Puglia, mentre al fratello Boemondo andò il Principato di Taranto. Il suo riconoscimento della dinastia normanna giunse negli anni fino alla concessione (5 luglio 1098) al conte Ruggero I di Calabria e Sicilia, fratello di Roberto il Guiscardo, vassallo del duca di Puglia, e ai suoi successori, della Legazia apostolica (più volte contestato da Roma nel corso dei secoli, tale privilegio rimase in vigore fino al 1867, quando papa Pio IX, infine, lo abolì). Forse mentre U. si trovava presso i Normanni, nel 1089, oppure nel 1091/1092, l'antipapa Clemente III convocò in S. Pietro un importante sinodo nel quale è probabile che U. sia stato scomunicato o colpito da altre misure (M. Stoller, pp. 310-11); inoltre, nel corso del sinodo si ribadì la condanna della simonia e l'obbligatorietà del celibato per i sacerdoti, precisando però che l'eventuale indegnità del clero non poteva scalfire in alcun modo la sua autorità. In ogni caso, secondo M. Stoller (p. 314), sui lavori del sinodo pesò in modo significativo la stessa attività di U., soprattutto quella relativa al primo periodo del suo pontificato. Da parte sua, U., forte dell'alleanza normanna, poteva iniziare a impostare le linee direttrici del suo pontificato. Senza dubbio, il papa aveva come obiettivo la prosecuzione dell'opera di Gregorio VII, ma ciò non gli impedì di sfruttare egregiamente ogni aspetto della sua esperienza precedente: l'origine francese e cavalleresca, il contatto con il mondo canonicale, la conoscenza di s. Bruno di Colonia e, soprattutto, la sua precedente appartenenza all'"ecclesia cluniacensis", realtà alla quale attinse direttamente e indirettamente molte delle sue proposte e innovazioni. Uno degli strumenti di cui U. si avvalse, dapprima per necessità, poi per scelta, furono i viaggi, costellati da una serie di concili, che gli consentirono di affermare l'autorità pontificia non solo di fronte ai sovrani dei territori in cui si recava, ma anche di diffondere capillarmente i principi teologici, liturgici, amministrativi della riforma presso i vescovi delle Chiese locali. Nel corso di questi viaggi si avvalse della presenza di personalità religiose di indiscusso valore spirituale quali s. Bruno di Colonia e s. Anselmo d'Aosta, priore di Bec in Normandia e dal 1093 arcivescovo di Canterbury, che, venuto a Roma per presentare le sue dimissioni a causa dei gravi contrasti con Guglielmo II il Rosso, re d'Inghilterra, fu da U. invitato ad accompagnarlo nel suo ultimo viaggio (1098) nel Sud della penisola. Il primo viaggio di U. nel Meridione, lo abbiamo già ricordato, cominciò nell'estate del 1089 e di quell'anno è anche il primo concilio, tenutosi a Melfi alla presenza di una settantina di vescovi tra il 10 e il 15 settembre. Oltre al rinnovo e alla ulteriore definizione della disposizione gregoriana in merito alla simonia, al celibato e all'investitura laica (si fissò, tra l'altro, a 24 anni l'età minima per l'ordinazione a diacono e a 30 anni per l'ordinazione sacerdotale), il papa tentò di disciplinare la guerra privata esportando il modello francese della "Tregua di Dio", per cui era fatto divieto di combattere in alcuni periodi dell'anno liturgico e nei giorni della settimana che ricordavano la passione di Cristo. Per quanto il ruolo dell'Ordine cluniacense sia stato spesso sopravvalutato, è certo che Cluny abbia contribuito attivamente alla formazione e alla diffusione dei movimenti della "pax Dei" e, appunto, della "Tregua di Dio". Movimenti e assemblee che, coinvolgendo i vescovi, costituirono un aspetto importante della riforma in quanto agivano al tempo stesso sulla società laica e guerriera e sui responsabili ecclesiastici. Il fatto che il papa si fosse impegnato a diffondere il modello dei "concilii" di pace francesi nel Mezzogiorno normanno manifestava l'abilità di U. nello scegliere nuove strade di riforma che, diversificando gli interlocutori, non si traducessero esclusivamente in un'opposizione frontale all'Impero. Così facendo - e la pace generale proclamata anni dopo (nel 1095) al concilio di Clermont mirata a proteggere chierici, monaci, donne, oltre che le persone e i beni dei "crucesignati", sarebbe andata nella stessa direzione - U. riuscì anche ad affermare, implicitamente, la centralità di Roma. A Melfi, U. iniziò ad affrontare la questione greca. Il clero greco dell'Italia meridionale accettò, nella quasi totalità, di riconoscere l'autorità del pontefice in cambio della conservazione del rito greco. Furono ripresi anche i contatti con Bisanzio, ma la progettata partecipazione di U. al grande concilio ecumenico di Costantinopoli cui era stato invitato dall'imperatore Alessio Comneno non ebbe mai luogo. La mediazione del conte Ruggero di Sicilia durante l'incontro avvenuto a Troina (1089) con U. non ottenne risultati, non perché, pare, il papa non desiderasse la composizione fra le due Chiese, ma perché le richieste formali del patriarca avrebbero sminuito l'autorità del pontefice delineatasi proprio nel corso della riforma. Il colloquio di U. con Ruggero servì anche a definire l'organizzazione ecclesiastica dei territori conquistati ai Saraceni, tema che U. affronterà anche per la penisola iberica e che, nel futuro, avrebbe riguardato anche gli Stati latini d'Oriente. Al secondo viaggio nel Meridione (1090-1091), durante il quale i Normanni avevano giurato una "Tregua di Dio", partecipò anche Bruno di Colonia che fondò in Calabria, presso l'attuale Serra San Bruno, un eremo (S. Maria di Turri) su un terreno donatogli da Ruggero I di Sicilia. Anche le nuove forme di spiritualità trovarono così in U. un efficace sostenitore. Il terzo viaggio di U. nel Mezzogiorno è segnato dal concilio di Troia (marzo 1093), cui parteciparono più di settanta vescovi, ai quali fu affidato il compito di far rispettare la "Tregua di Dio", autorizzandoli a scomunicare coloro che avessero rifiutato di osservarla. Al momento della sua elezione (1088), il papa poteva contare in Germania solo su pochi vescovi, mentre nell'Italia settentrionale, dove U. poteva continuare ad avvalersi dell'alleanza con Matilde di Canossa, si verificò la tendenza contraria e molti vescovi si sottomisero al papa. Roma, tuttavia, restò per ora fedele a Clemente III, anche se U. riuscì a stabilirsi sull'isola Tiberina (1089). A quel tempo il papa designò come legati in Germania Gebeardo di Costanza e l'anziano Altmann di Passau. Lo stesso anno, il matrimonio favorito dal papa tra la contessa Matilde di Canossa e il giovane Wulfo di Baviera, figlio del duca Wulfo IV, permise a U. di consolidare la sua posizione. Ma l'anno successivo segnò l'offensiva di Enrico IV che scese in Italia. Ai primi successi - presa di Mantova nel 1091, assedio di Monteveglio, base importante della resistenza matildina, riconquista di Roma da parte dell'antipapa Clemente III - seguì una netta sconfitta: nel 1092 Enrico IV tentò invano di prendere Canossa; il suo insuccesso nell'impresa lo costrinse ad abbandonare tutte le conquiste e a rientrare a Pavia. Nel frattempo, Matilde trovò un nuovo alleato in Corrado, figlio di Enrico IV, che si oppose al padre, si fece incoronare re d'Italia a Milano e, su indicazione di U., sposò una figlia di Ruggero I di Sicilia. Milano, Cremona, Lodi e Piacenza si allearono contro l'imperatore e finalmente la Legazia di Gebeardo, ispirata ai principi conciliatori della "discretio" benedettina e della "dispensatio", iniziò a dare i primi risultati favorevoli a Urbano II. Nel novembre del 1093 U. tornò a Roma, ospite dei Frangipane, e nel 1094 s'impossessò del Laterano, grazie al tradimento del capitano delle milizie di Clemente III. Finalmente, l'autorità di U. si era affermata, le sue scelte si erano rivelate vincenti, ma di fronte ai problemi del dopo-riforma, U. incontrò l'opposizione e la critica di riformisti intransigenti quali il cardinale Deusdedit e il vescovo Bonizone da Sutri. Il dissidio riguardava essenzialmente la validità e le conseguenze delle ordinazioni fatte da vescovi scomunicati o simoniaci. Il concilio di Piacenza del 1095 fu un'imponente assise generale che affrontò direttamente il tema delle ordinazioni: non erano da considerarsi valide le ordinazioni fatte da vescovi scismatici né quelle fatte da vescovi simoniaci a meno che l'ordinato ne fosse totalmente incosciente. Di fronte ad un vescovo divenuto scismatico, le ordinazioni fatte in precedenza restavano valide. Il papa aveva accolto, su questo punto, le indicazioni dei canonisti italiani. Invece la loro intransigenza nei confronti dei chierici che avevano sbagliato (simonia e nicolaismo) fu rigettata dal concilio che si mostrò tollerante nei confronti del basso clero e di chi, per età o altro, poteva dimostrare di aver agito in buona fede. A Piacenza, il papa istituì il 25 marzo il Prefatio romano della Vergine (Et te in veneratione). Sempre durante il concilio di Piacenza, U. ricevette l'ambasciata di Alessio I Comneno che gli chiedeva di esortare i cavalieri presenti a prestargli il loro aiuto nella lotta contro i Turchi selgiuchidi, fatto che costituì la premessa al celebre discorso di U. al concilio di Clermont, che si svolse pochi mesi dopo. L'ambasciata di Filippo I di Francia, invece, obbligò U. ad intervenire direttamente sul problema dell'unione tra il re, che nel 1092 aveva ripudiato Berta, e la terza moglie del conte Folco d'Angiò. La questione era stata affidata all'arcivescovo Ugo di Lione, primate delle Gallie, gregoriano intransigente; U. lo aveva reintegrato nella carica di legato papale che quegli aveva già ricoperto al tempo di Gregorio VII e l'arcivescovo, al concilio di Autun dell'ottobre 1094, aveva lanciato la scomunica sul re. A Piacenza U. concesse qualche tempo a Filippo, ma a Clermont si vide obbligato a confermare la scomunica. Il papa si apprestò quindi al lungo viaggio in Francia (1095-1096) che culminò nel grande concilio riformatore di Clermont (novembre 1095) ove, oltre ai consueti canoni gregoriani, si affermò il divieto dell'investitura laica, con la specifica interdizione, non rilevata da Gregorio VII, a tutti i chierici, di rendere omaggio ai laici. A fronte di questa proibizione, che U. rinnovò nei concili successivi, iniziava però ad affermarsi la tesi del canonista Ugo di Chartres che prevedeva la distinzione della consacrazione episcopale "cum cura animarum" dall'investitura feudale, in cui però l'omaggio - segno di una dipendenza feudale giudicata ormai intollerabile - veniva sostituito da un giuramento di fedeltà. Il concilio di Clermont deve però la sua fama alla tradizione per cui da qui, e in particolare dall'appello di U., si fa partire la prima crociata. Gli studi recenti, in realtà, ci obbligano a definire altrimenti il contenuto nonché il significato non solo del cosiddetto "canone dell'indulgenza", in cui si legge "Quicumque pro sola devotione, non pro honoris vel pecunie adeptione ad liberandam ecclesiam Dei Hierusalem profectus fuerit, iter illud pro omni penitentia ei reputetur" (citato da R. Somerville, The Councils of Urban II, p. 74), ma anche del discorso che U. fece alla fine del concilio alla folla riunita (25 novembre). Di tale discorso non possediamo il testo originale, ma solo ricostruzioni successive alla conquista di Gerusalemme da parte dei cristiani d'Occidente avvenuta il 15 luglio 1099, fatto che il papa, morto a Roma il 29 luglio di quell'anno, non poté conoscere. Per questo, è possibile che il discorso di U. sia stato, per così dire, adattato agli eventi. Il suo fine non fu senz'altro dare inizio alle crociate, termine che fu tra l'altro coniato secoli dopo, ma piuttosto quello di invitare i cavalieri radunati a Clermont a sovvenire l'imperatore bizantino contro i Turchi - si ricordi il desiderio costante di U. di riavvicinamento delle due Chiese. Il papa si poneva anche un obiettivo penitenziale e devozionale per tutti i laici, invitati direttamente da colui che ormai si poneva come il capo della cristianità occidentale a seguire collettivamente un percorso rivolto a Gerusalemme, non tanto come obiettivo politico e militare, quanto come obiettivo "liminare" (S. Schein, p. 119). U. cercò, attraverso la "pax generalis" e l'indulgenza, di proteggere il movimento cui diede l'avvio e che sostenne nel corso di tutto il suo viaggio francese. Inoltre Ademaro di Monteil, vescovo di Le Puy, fu nominato legato papale e guida dei "crucesignati". La riorganizzazione ecclesiastica di terre riconquistate ai musulmani riguardava invece, al tempo di U., la Sicilia, come detto, e la penisola iberica. Giustamente R. Hiestand, dopo aver efficacemente dimostrato che un canone di Clermont - che non è giunto - doveva riferirsi in origine non alla Terra Santa bensì all'organizzazione ecclesiastica in Spagna, sottolinea l'importanza del ruolo attivo del concilio di Clermont in merito ai rapporti tra la Spagna e la crociata (p. 37). U. aveva affermato la sua sovranità sull'Aragona, la Navarra e la Catalogna, riconquistate ai musulmani, e ne aveva avocato a sé la riorganizzazione ecclesiastica, rifondando l'arcivescovado di Toledo (1088) e quello di Tarragona (1089). Anche nel caso della Spagna, U. fece in modo che progressivamente l'autorità pontificia si sostituisse all'influenza di Cluny. Se quindi, da una parte, il cluniacense U. contribuì a rafforzare, in vari modi, l'"ecclesia cluniacensis" (nel 1095 consacrò di persona l'altare maggiore di Cluny III), d'altra parte vide ormai necessario riformare la struttura ecclesiastica diocesana tradizionale, e per questo favorì la diffusione e l'affermazione del movimento dei Canonici Regolari (si ricordi la bolla del 1092 in favore della canonica di Rottenbuch). Un altro fronte per il quale U. si avvalse con successo dell'esperienza cluniacense fu quello, "ereditato" da papa Leone IX, della riforma amministrativa della Chiesa romana, fino ad allora rimasta sostanzialmente nelle mani delle grandi famiglie romane. Nasceva, anche come termine (1098), la "curia Romana". U. usò non solo l'idea, ma anche gli uomini e le strutture stesse di Cluny, al punto che la Camera apostolica, cioè l'organo finanziario della Chiesa romana, aveva a Cluny una vera e propria filiale. U. accrebbe inoltre il ruolo dei cardinali che, riuniti in Concistoro, consigliavano il papa in merito alle questioni più importanti. La Cancelleria, riformata anch'essa, venne invece affidata al monaco cassinese Giovanni di Gaeta, futuro papa Gelasio II. Tornato a Roma, U. accolse nel 1098 Anselmo d'Aosta, arcivescovo di Canterbury, che già da tempo voleva incontrare il papa a causa del grave conflitto con il re d'Inghilterra, Guglielmo II il Rosso. Costui, alla morte di Lanfranco di Pavia (1089), che suo padre aveva chiamato alla testa della Chiesa d'Inghilterra, per quattro anni si era rifiutato di sostituirlo, incamerando nel frattempo le rendite, finché le pressioni dei nobili non l'avevano obbligato a scegliere; Guglielmo nominò allora l'antico allievo di Lanfranco, Anselmo, che tentò invano di rifiutarsi. Anselmo, che dedicò a U. la sua Epistola de incarnatione Verbi, tentò a lungo di ottenere dal re il riconoscimento di U. come papa legittimo, finché il concilio di Rockingham (14 marzo 1095) non rese manifesto quanto profondo fosse il conflitto che opponeva Anselmo al re e i vescovi inglesi ad Anselmo. Nel frattempo (1095), il legato papale Gualtiero di Albano, ignorando Anselmo, era riuscito a far riconoscere U., anche se si rifiutò di deporre Anselmo, come voleva il re. Una volta a Roma, Anselmo fu invitato dal papa a trattenersi e, anzi, nel corso del concilio che U. convocò a Bari nei primi giorni dell'ottobre 1098, cui parteciparono quasi duecento vescovi, gli affidò il tema delicato della processione dello Spirito Santo che costituiva un ostacolo teologico all'unità delle Chiese romana e greca. Così, i vescovi greci del Meridione, convinti dalle sue argomentazioni, accettarono che lo Spirito Santo procedesse non solo dal Padre, ma anche dal Figlio, secondo la formula del Credo (il cosiddetto Filioque). Per quel che riguarda il caso dell'arcivescovo di Canterbury, il concilio decise di scomunicare Guglielmo II; Anselmo impetrò però per lui un periodo di sospensione dell'applicazione dell'estrema misura. Intanto giunse a Bari una lettera da Antiochia, in cui i "crucesignati" domandavano al papa di recarsi in Oriente: cominciavano a manifestarsi i non previsti contrasti con Bisanzio. Il concilio di Roma del 24 aprile 1099, tenutosi a S. Pietro alla presenza di circa centocinquanta tra vescovi e abati, mostrò come il nuovo obiettivo della riforma fosse di impedire che i chierici si assoggettassero all'autorità feudale dei laici prestando loro omaggio. Senz'altro, quindi, al consolidamento della struttura episcopale in tutta Europa, base necessaria per il successo della riforma interna della Chiesa, corrispose una maggiore considerazione del clero che divenne, come scrive G. Miccoli, un "corpo separato e privilegiato della società" (p. 568). U. morì a Roma il 29 luglio del 1099, ospite dei Pierleoni, presso la chiesa di S. Nicola in Carcere; prima di essere seppellito a S. Pietro il suo corpo fu trasportato non senza difficoltà attraverso Trastevere. Venerato come beato, il culto fu confermato da Leone XIII il 14 luglio 1881; è festeggiato il 29 luglio. U. riuscì ad ancorare la riforma gregoriana al rinnovamento radicale dell'istituzione pontificia, di cui aumentò il prestigio non solo presso i vari regnanti, ma anche, grazie ai lunghi viaggi, mostrando una capacità di comunicazione diretta con ampi strati della popolazione. Grazie a U., la prosecuzione della riforma non dipendeva più esclusivamente dal carisma personale del pontefice. Fonti e Bibl.: I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XX, Venetiis 1775, coll. 641-976; Recueil des historiens des Gaules et de la France, XIV-XV, a cura di M.J.J. Brial, Paris 1806-08: XIV, pp. 69, 74-5, 85, 87-8, 97-106, 110-11, 123-24, 158, 164, 167, 238-39, 321-22, 338, 381, 522-23, 674-762, 793-94; XV, p. 270; Leonis Marsicani-Petri Diaconi Chronica monasterii Casinensis, a cura di G. Wattenbach, in M.G.H., Scriptores, VII, a cura di G.H. Pertz, 1846, pp. 753, 760 ss.; P.L., CLI, coll. 9-582; Pontificum romanorum [...] vitae ab aequalibus conscriptae, a cura di I.M.B. Watterich, I, Lipsiae 1862, pp. 571-620; Acta Pontificum Romanorum inedita, a cura di J. von Pflugck-Harttung, I, Tübingen 1881, pp. 55-69, ad indicem; II, Stuttgart 1884, pp. 141-68, ad indicem; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. 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