VIVALDO, beato
VIVALDO, beato. – Nacque verosimilmente intorno agli anni Cinquanta del XIII secolo a San Gimignano. Riferimenti molto tardi, successivi alla prima metà del XVI secolo, lo ascrivono alla locale famiglia Stricchi, inurbata dalla vicina località di Fugnano; in ogni caso, nessuna notizia su questo eremita vissuto fra XIII e XIV secolo nella Valdelsa fiorentina e senese è invero anteriore al primo ventennio del Cinquecento.
Tutte le informazioni risalgono al trattato sul Terz’ordine dei frati minori scritto dal francescano osservante Mariano da Firenze (1477 ca.-1523), le cui ricostruzioni hanno in larga misura improntato tutti i biografi posteriori. L’attendibilità della fonte è, però, profondamente condizionata sia dal fatto che l’autore – come egli stesso precisa – aveva tratto quanto riferito da testimonianze orali sia dalla sua volontà di assimilare il personaggio all’obbedienza francescana. Il testo fu, infatti, dettato negli stessi anni in cui i frati della minore Osservanza, dopo essersi insediati, fra il 1499 e il 1500, nel presunto luogo in cui Vivaldo aveva trascorso in penitenza gli ultimi anni della sua vita, qui avevano avviato (1516) la realizzazione di un vasto santuario in forma di sacro monte, destinato a divenire una delle più antiche ricostruzioni topografiche di Gerusalemme finalizzate a sostituire il pellegrinaggio in Terrasanta.
Sempre secondo la prima biografia, il giovane Vivaldo, dopo una profonda conversione, si avvicinò a Bartolo Buonpedoni, probabile membro dalla prosapia dei signori di Mucchio, nel territorio sangimignanese, parroco della chiesa rurale di S. Niccolò a Picchena, nonché in precedenza postulante nel monastero benedettino di S. Vito a Pisa.
Questo personaggio, a proposito del quale Mariano da Firenze costituisce parimenti la più antica fonte di informazioni, godeva già in vita di una controversa fama di santità, dopo aver indossato l’abito del terziario francescano ed essersi scoperto lebbroso. Sarebbe stato Mariano a coinvolgere Vivaldo nell’attività di assistenza ai fedeli colpiti dalla sua stessa malattia e raccolti in un ospedale situato presso la pieve di Cellole, sempre nelle vicinanze della cittadina valdelsana, di cui dal 1293 Bartolo era divenuto rettore. Non è confermata la notizia, riportata dal biografo, per cui in questo periodo, forse su esortazione del suo stesso padre spirituale, anche Vivaldo si sarebbe fatto terziario minorita.
Dopo la morte di Bartolo, nel dicembre dell’anno 1300, sembra che Vivaldo abbia abbandonato Cellole per inoltrarsi ulteriormente nei boschi della zona. Si fermò, infatti, in un luogo isolato non lontano dalla chiesa e dall’ospedale di S. Maria in Camporena (o de Romitorio), prossimi all’omonimo castello successivamente distrutto dai fiorentini, nel sito denominato Bosco Tondo, a circa trenta chilometri da Volterra e sedici da San Gimignano.
Quest’area, soggetta almeno dagli anni Trenta del Duecento all’influenza politica del Comune di San Miniato al Tedesco, risultava distante da insediamenti di una certa consistenza, ma veniva attraversata dalle strade che collegavano San Gimignano a Pisa e Volterra a Firenze. Qui si trovavano, almeno dal tardo XII secolo, vari nuclei eremitici, fra cui si distinguevano i Fratres de Cruce de Normandia, titolari, grosso modo dal 1185 al 1270, della suddetta chiesa di S. Maria.
L’eremita sangimignanese fece forse riferimento a questa istituzione per il proprio conforto spirituale e sacramentale. Intorno al 1280 la chiesa era, infatti, tornata nella disponibilità del vescovo di Volterra e da questi ceduta al rettore della vicina pieve di Coiano.
Una registrazione amministrativa del capitolo cattedrale volterrano datata 1271 e una pergamena di dieci anni successiva proveniente dall’archivio della mensa vescovile parlano rispettivamente di una ecclesia Sancti Vivaldi de nemore Camporene, e di domus et possessiones Sancti Vivaldi de Camporena, luogo che olim tenuerunt fratres de Cruce (Volterra, Archivio storico diocesano, Archivio Capitolare, Sede Vacante, II, 1270-72, c. 144r; Mensa vescovile, Perg. 615, 1281, marzo 15, stile comune). Un ulteriore indizio della presenza dell’eremita in questo bosco è costituito da una notizia data dai Capitoli del Comune di Firenze (anni Settanta del Trecento), ove si ricorda che qui era vissuto, durante la seconda metà del Duecento e nel primo secolo successivo, un anacoreta di nome Ubaldo, monacus sancti Benedicti, al quale il presule volterrano Ranieri Belforti aveva concesso nel 1303 un resedio nella foresta situato in loco dicto Sancto Vivaldo (Archivio di Stato di Firenze, Capitoli, Appendice, 44, cc. 8r, 39r).
Questi riferimenti hanno fatto ipotizzare un’identificazione di tale personaggio con il romito proveniente da Cellole. Tuttavia essi lascerebbero anche supporre che un ‘santo’ Vivaldo sia in realtà vissuto prima del 1270, dando il proprio nome a un edificio di culto affidato nel primo Trecento a un altro eremita e dunque metterebbero in questione il discepolato di Vivaldo rispetto a Buonpedoni; ma occorre del pari valutare che anche la cronologia di quest’ultimo è tarda e di matrice minoritica, per cui una consistente retrodatazione delle vite dei due venerabili appare congettura tutt’altro che implausibile.
Forse Vivaldo si trasferì in questa parte della selva che separa l’area valdelsana da quella volterrana poiché essa ospitava – verosimilmente già dal XII secolo – due lazzaretti (San Leonardo e il sito ancor oggi denominato Bosco Lazzeroni). Appare possibile che egli sia stato attratto non solo dalla presenza di altri eremiti, ma anche dalla possibilità di continuare a esercitare l’assistenza agli ammalati. Non è escluso che proprio questa sua opera caritativa, unita alla fama di vita ascetica, abbia contribuito a far sì che nella non lontana comunità castrense di Montaione, principale centro abitato della zona, si consolidasse la fama di Vivaldo quale uomo venerabile.
Il fatto che di questa sua attività si sia poi perduta la memoria può essere spiegato pensando alle strategie di comunicazione, due secoli e mezzo dopo, dei minori osservanti. È ragionevole ipotizzare che costoro – pur lasciando intendere, come fa l’agiografo, che fra le virtù dell’uomo di Dio spiccava uno spirito di profonda carità («subvenire tucti quelli che in suo adiutorio lo invocano»: Mariano da Firenze, Trattato del Terz’Ordine, a cura di M. Papi, 1985, p. 527), e sebbene fra i miracoli a lui attribuiti vi fosse il potere taumaturgico contro varie infermità – abbiano preferito obliterare ogni riferimento alla presenza dei lebbrosi, e quindi anche all’azione di Vivaldo condotta in loro favore, dato che dal primo Cinquecento i frati mirarono ad accogliere in Camporena numerosi pellegrini.
La tradizione riferisce che l’eremita visse occupando il tronco cavo di un antico castagno. All’interno di questo albero, allo spontaneo suonare delle campane nella vicina Montaione, il suo corpo esanime venne rinvenuto il 1° maggio di un anno imprecisato: forse il 1301 (proponibile sulla base del fatto che il testo di Mariano da Firenze e il Compendium chronicarum Fratrum Minorum parlano di Vivaldo subito dopo aver annotato il trapasso di Buonpedoni), o forse il 1320 (ipotizzato nel primo Seicento dal memorialista montaionese Ugolino di Guasparri Gamucci e poi dato per acquisito dagli scrittori francescani). Negli Acta Sanctorum si ritenne, tuttavia, che egli avesse dovuto permanere nella selva per più di un solo anno. Le citate fonti volterrane porterebbero addirittura a collocare la vita dell’eremita nel pieno XIII secolo.
Probabilmente fra gli anni Venti e Trenta del Trecento alcuni devoti edificarono una cappella e un romitorio dedicati alla Vergine sul luogo che aveva ospitato il grande castagno in cui il sant’uomo aveva trovato rifugio e che era stato quasi completamente sradicato dai fedeli – provenienti, come precisa l’agiografo, soprattutto dal contado pisano – che ne avevano tratto testimonianze lipsaniche; e tutto questo sebbene il culto tributato al romito non godesse di alcun formale riconoscimento, dal momento che egli venne beatificato solo nel 1908.
Le reliquie del corpo, oggetto di immediata venerazione, furono trasportate presso la chiesa parrocchiale di Montaione, e qui restarono (salvo poche particole concesse ai frati di Camporena in età moderna), fino al 1906, alimentando la notizia, canonicamente priva di fondamento, che Vivaldo fosse assurto a patrono di tale comunità. Proprio nel 1908, in coincidenza con l’ufficializzazione del culto, le intere exuviae vennero affidate ai francescani e traslate nella cappella del convento che dal primo secolo XVI risulta identificato come infra clausuram silve ‘loci sancti Vivaldi’ (breve di papa Leone X in favore dei minori osservanti, citato in Salvestrini, 2018, pp. 17 s.).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Capitoli, Appendice, 44, cc. 8r, 39r; San Miniato, Archivio storico del Comune, Archivi Aggregati, Carte di altri Enti e Istituti Ecclesiastici, 1250-1757, 844, b. Memorie, relazioni e carteggio relativo alla chiesa e al convento di San Vivaldo, 1717-1832, inserto non numerato: Ugolino di Guasparri Gamucci, Ricordi, ms. XVII sec., ff. non numerato; Vita del Beato Vivaldo Eremita, cavata da un libro scritto a mano dalla reverenda suora di S. Orsola di Firenze, trovato tal foglio in Montajone sopra le reliquie di S. Vivaldo questo dì 4 Maggio 1823, f. non numerato; Volterra, Archivio storico diocesano, Archivio Capitolare, Sede Vacante, II, 1270-1272, c. 144r; Mensa vescovile, Perg. 615 [1280 (1281), marzo 15]; Acta Sanctorum Maii, I, Antverpiae 1680, pp. 160-164; Sacra rituum congregatione, eminentissimo ac reverentissimo d.no Card. Francesco Satolli relatore – Volaterrana seu Ordinis Fratrum Minorum – Confirmationis cultus praestiti servo Dei Vivaldo Eremitae e Tertio Ordine Francisci sancto nuncupato. Positio super casu excepto, Romae 1908; Compendium chronicarum Fratrum Minorum, in Archivum Franciscanum Historicum, II (1909), p. 627; Dionisio Pulinari, Cronache dei Frati Minori della Provincia di Toscana secondo l’autografo d’Ognissanti (1578 ca.-1581), a cura di S. Mencherini, Arezzo 1913, pp. 492-494; Mariano da Firenze, Trattato del Terz’Ordine, o vero Libro come santo Francesco istituì et ordinò el Tertio Ordine de’ Frati et Sore di penitenza et della dignità et perfectione o vero sanctità sua, a cura di M. Papi, in Analecta Tertii Ordinis Regularis Sancti Francisci, XVIII (1985), pp. 520-528.
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