Begone Dull Care
(Canada 1949, colorato, 9m); regia: Norman McLaren, Evelyn Lambart; produzione: National Film Board of Canada ‒ Office National du Film du Canada; musica: Oscar Peterson.
Il più famoso e più diffusamente proiettato film astratto della storia del cinema. Si tratta dell'interpretazione visiva di tre brani jazz del trio di Oscar Peterson (pianoforte, contrabbasso e batteria): un fox-trot, uno slow e un boogie-woogie. La musica venne eseguita e registrata prima della creazione della parte visiva, sicché a Norman McLaren ed Evelyn Lambart fu possibile adottare, nei passaggi in cui lo ritennero opportuno, un esatto sincronismo suono/immagine.
Il primo aspetto di Begone Dull Care destinato a cau-sare sensazione fu di ordine tecnico. Fino al 1949, nonostante gli esperimenti pionieristici ‒ e perduti ‒ dei fratelli Arnaldo e Bruno Ginanni Corradini negli anni Dieci, e alcuni cortometraggi del neozelandese Len Lye negli anni Trenta, la tecnica del dipinto o del graffito diretto su pellicola era praticamente ignota, e Norman McLaren, che la esercitava pervicacemente da una decina d'anni, era un oscuro animatore scoto-canadese a cui pochi prestavano attenzione. Begone Dull Care (ovvero 'vàttene, stupido malumore') non solo si basava su questa procedura di realizzazione, ma superava il concetto di elaborazione del singolo fotogramma in quanto, per ottenere gli effetti voluti, l'autore si spingeva a dipingere lungo il nastro stesso della pellicola per metri e metri. A chi era abituato a concepire il cinema come il prodotto di un apparecchio che registra la vita reale attraverso un obiettivo e a 24 immagini al secondo, questa parve un'autentica rivoluzione filosofica.
Un ulteriore elemento di sensazione fu l'intreccio fra suono e immagine. Nella prima parte del ventesimo secolo era stata viva in tutto il mondo intellettuale l'aspirazione a una musica visiva o almeno a un'osmosi fra pittura e musica (sostanzialmente gemmata dall'ipotesi del Gesamtkunstwerk wagneriano); addirittura un cineasta dichiaratamente popolare e industriale come Walt Disney aveva proposto la propria soluzione con Fantasia (1940). Nel film di McLaren ed Evelyn Lambart il dialogo fra occhio e orecchio si svolge in maniera articolata e su più livelli, con una consapevolezza e una finezza artistica fino a quel momento inimmaginabili (si dice che Pablo Picasso esclamasse, alla visione di questo film: "Finalmente qualcosa di nuovo!"), talvolta con momenti di dialogo serrato e talvolta con autonomia. Il terzo e ultimo elemento di sensazione fu più epidermico e legato alle abitudini dello spettacolo leggero. Nella prima e nella terza parte gli spettatori culturalmente meno equipaggiati videro una geniale stilizzazione dei costumi e delle coloratissime gonne dei ballerini e delle ballerine del fox-trot e del boogie-woogie, mentre la lenta parte centrale in bianco su nero, ottenuta graffiando con strumenti acuminati l'emulsione della pellicola, parve una stilizzazione delle 'danze di fasci di luce' presentate in teatro, sul palcoscenico buio, da esecutori forniti di torce elettriche (e va detto che probabilmente questo approccio non mancava di ragioni).
Norman McLaren era dotato di buona cultura musicale e Oscar Peterson, stella non ancora trentenne del jazz canadese, aveva la flessibilità artistica di accettare le richieste del cineasta; sicché la musica, benché certamente opera autonoma del compositore-esecutore, fu in un certo senso 'musica da film', concordata con il regista in funzione del risultato finale. In particolare McLaren richiese la struttura tripartita 'vivace-lento-vivace' caratteristica della sonata.
A distanza di alcuni decenni, il film mantiene intatta la sua importanza storica ma perde forse qualche punto nel giudizio estetico. In confronto con altre opere dello stesso McLaren, o con le opere di autori come Len Lye, Oskar Fischinger, Jordan Belson e Jerzy Kucia (prodotte successivamente o recuperate dall'oblio delle cineteche), Begone Dull Care dà l'impressione di una certa meccanicità, di una dipendenza troppo marcata delle immagini dalla musica; in definitiva, di un matrimonio sinestetico non realmente consumato. La colonna sonora e la colonna visiva si intrecciano e si rispondono come ballerini in un passo a due ma raramente si fondono in un tutto poetico, tanto che si può certamente immaginare di ascoltare la prima e di vedere la seconda separatamente, senza che questo provochi un detrimento artistico davvero rilevante.
Naturalmente questa è in sé una scelta d'autore esteticamente legittima; tuttavia contrasta con il rivendicato progetto mclareniano di raggiungere una perfetta combinazione tra i due sensi. Al tentativo di una sinestesia egli ritornerà più avanti con Synchromy (1971), presentando all'orecchio una colonna sonora sintetica da lui stesso composta disegnando elementi geometrici, e all'occhio quegli elementi geometrici stessi; sicché, in linea di principio, lo spettatore ode quel che vede e vede quel che ode. Ma Synchromy, debole per ispirazione, fu poco più che la dimostrazione di un teorema, scarsamente interessante sul piano artistico.
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