Belacqua
Protagonista di un episodio del canto IV del Purgatorio (vv. 106-135); può identificarsi, secondo le ricerche archivistiche del Debenedetti, per Duccio di Bonavia, fiorentino del popolo di S. Procolo, marito di una Lapa che gli avrebbe dato due figli,
Vanni e Dino, vivo ancora nel luglio del 1299 e morto anteriormente al marzo del 1302.
Di questo spirito negligente si sente prima la voce, che chiosa (" Forse / che di sedere in pria avrai distretta! ") le parole con cui Virgilio ha chiarito la natura della montagna; quindi D. lo nota, per un particolare atteggiamento di negligenza, tra spiriti che se ne stanno all'ombra di un gran sasso. Interviene con una seconda battuta al dialogo tra maestro e discepolo (" Or va tu sù, che se' valente! "), ma questa volta provocato da D. che lo indicava a Virgilio come più negligente / che se pigrizia fosse sua serocchia. Quando D., riconosciutolo, gli si avvicina, l'ironia bonaria e forse affettuosa delle due prime battute rifiorisce sulle sue labbra per un commento alla solerzia scientifica del pellegrino (" Hai ben veduto come 'l sole / da l'omero sinistro il carro mena? "). E quando D. gli chiede se sia fermo là per un ritorno all'antico vizio, gli spiega che non si tratta di pigrizia: quanto in vita indugiò per pentirsi, tanto ora deve attendere per essere ammesso alla purgazione, a meno che non intervenga la buona preghiera a ridurre quella pena dell'attesa. Il richiamo di Virgilio a D., " Vienne omai... ", chiude la scena; e B., apparso prima come voce, come voce repentinamente scompare.
Personaggio assai vivo e suggestivo, in quanto rappresentato con incisivo realismo e in quanto condizionato da un rapporto di familiarità con D., B. ha nella scena del canto una presenza che tanto più convince, quanto più la sua verità umana e poetica non sacrifica alcunché a un facile inserimento nell'economia della narrazione e a uno scoperto gioco di significazione. Fermi i limiti del suo episodio e della sua stessa umanità, lo si può ascrivere alla schiera dei grandi personaggi danteschi appunto per siffatto arduo e vivificante rapporto tra l'essere sé stesso e il rispondere alle esigenze che urgono e si compongono in ogni zona del tessuto narrativo. Ma, come è forse destino di ogni autentico e libero personaggio, della storia o della fantasia, la sua interpretazione non è facile, a meno che non si voglia, come è accaduto a parecchi interpreti, isolarlo dalla trama narrativa in cui ha indubbiamente le più vitali radici, e circoscriverlo in quella definizione di " gran pigro " in cui si angustia e in fondo si isterilisce ogni sua verità. Se, infatti, la pigrizia è il segno dominante della sua figura, è evidente che, come la complessa verità del D. pellegrino non può ridursi a quel costume di solerzia che egli va assumendo nelle prime fatiche del Purgatorio, così B. non può ridursi, per un mero contrappunto di atteggiamenti, a maschera o simbolo di quella pigrizia che condiziona gli atti e la coscienza ma mai ne costituisce l'essenza.
Il maggior travaglio della critica è stato appunto questa individuazione del personaggio nell'ambito del mondo purgatoriale e nei coerenti rapporti con il tema narrativo; e più si chiariva questa esigenza, più risultava pericolosa quella caratterizzazione dall'esterno che sembra ispirare lo stesso atto creativo della poesia. Nelle pagine del Parodi, del Bosco e soprattutto in quelle più recenti del Petrocchi si è quindi progressivamente affermata l'esigenza di localizzare più concretamente e coerentemente che non negli aspetti della pigrizia la verità del personaggio e la sua funzione nell'incipiente ascesa ricostruttiva del pellegrino.
Il canto IV è complessivamente caratterizzato da un'atmosfera di tensione fisica e spirituale (che si rinnova nell'apertura del canto successivo); e il suo paesaggio si dilata in direzione verticale, grazie anche alla lunga attenzione all'arco del sole. È in siffatto contesto che l'episodio di B. si colloca non come una calcolata interruzione, ma come un nucleo realistico e familiare, al cui contatto si corroborano e in certo senso si delimitano i temi morali e intellettuali del canto. Si consideri che non c'è battuta tra i due dialoganti che non si riferisca al motivo dell'ascesa e a quello del cammino del sole. La voce che suona improvvisa e che sembrerebbe voler mettere in crisi la lezione di Virgilio, contrappone la distretta di sedere a quel balenio di meta raggiunta che nella parola del maestro lasciava in ombra la fatica e le incognite dell'ascesa. In effetti, se l'immagine inclina al tono scherzoso, il suo significato è tutto serio: comporta un suggerimento di misura che è una lezione di virtù; e anche quel forse iniziale, che molti hanno ritenuto la prima nota di un'ironia da negligente, va spiegato, come opportunamente ha suggerito il Petrocchi, come una prudenziale attenuazione della chiosa; la quale, in sostanza, rappresenta un primo richiamo alla realtà: la giustizia che tutto commisura potrebbe anche consentire una rapida ascesa, ma il pellegrino sappia che la via è lunga e faticosa. Questa seconda fase del viaggio, che, per essere purgatoriale, matura la visitazione dell'oltretomba in una ricostruzione dell'uomo, impone al discepolo un diverso grado di responsabilità. Alla luce di tale esigenza, appare evidente che a complemento delle parole di Virgilio, concluse con l'enigmatico cenno del proprio limite (Più non rispondo, e questo so per vero), B. aggiunge una precisazione tanto seria quanto realistica, anche se offerta con quel tono di lieta cordialità che si addice sia alla condizione intrinseca degli spiriti destinati alla beatitudine, sia all'occasione dell'incontro con l'amico.
La battuta di B. non ha risposta né commenti: poiché all'urto delle parole sta per succedere l'urto della scena. Ecco che all'ansia di ascendere - umanamente mista di entusiasmo e di sgomento - si contrappone la visione di persone che se ne stanno inerti, e di una in particolare, nel cui atteggiamento si esprime l'abbandono di ogni volontà. Da siffatta contrapposizione d'inerzia è provocata la battuta di D.: adocchia / colui che mostra sé più negligente / che se pigrizia fosse sua serocchia, che non può intendersi nella sua giusta tonalità se non la si rapporti al fervore ascensionale del pellegrino. Le parole con cui egli caratterizza e nel contempo giudica l'ancora sconosciuto personaggio, nascono da uno stato psicologico particolare: è la diligenza del pellegrino che si raffronta all'apparente negligenza dello sconosciuto; e quest'ultimo pare anche che avverta quanto compiacimento poteva sortire da un tal raffronto, e voglia denunziarlo con la scherzosa amarezza di " Or va tu sù, che se' valente! ".
Il gioco delle contrapposizioni si ripete ancora sul piano sentimentale dell'amicizia. Riconosciuto l'amico, D. dà nuovamente prova di diligenza accorrendo presso di lui nonostante l'affanno che gli accelera il respiro; ma quando gli è vicino, l'amico, sollevando appena la testa, non tradisce emozione di sorta, a meno che non la si riconosca nel registro affettuoso dell'ironia (" tutto spira più affetto che canzonatura ", Momigliano): mostra piuttosto un interesse disorientante, che tende a ridimensionare, e questa volta l'obiettivo è il fervore scientifico del pellegrino (se ne ricordi la diligentissima conclusione dei vv. 76-84), che vacilla non per il taglio ironico della domanda, ma per la caduta, che la domanda provoca, di ogni aureola sapienziale. La verità è che B., sul traguardo dell'eterno, là dove è stato imposto un lungo rimando all'ascesa ricostruttiva, ha in mano un metro inesorabile, al cui contatto si rivelano nell'entusiasmo il disordine, nella diligenza lo spreco.
Si confrontino le ultime due battute tra questi due amici che sembrano così vicini e sono in effetti così lontani. Dante abbozza un sorriso, sensibile più alla superficie scherzosa che non al contenuto serio della parola di B.; e con un'affettuosità terrestre lo apostrofa, per rivolgergli una domanda la cui ingenuità si tradisce anche nell'insistenza della sua partizione ternaria. B. ancora scevera l'essenziale dal caduco, parla il linguaggio del vero e dell'eterno: frate solleva l'antico rapporto di amicizia all'amore universale delle creature; il sospetto di pigrizia non è raccolto; limpidi si esprimono il segno della colpa e quello della pena, nella luce di una speranza precisa nei suoi limiti, si direbbe priva d'incontinenza.
Insomma, senza averne l'aria, B. è forse il primo maestro purgatoriale di D.: se il fervore di questo è disposto a obliarsi nelle notazioni scientifiche e nella gioia dell'incontro, e a fraintendere per pigrizia l'altrui destino di attesa, la prudenza di B. è invece tutta bilanciata tra l'accettazione della dura legge e la speranza di una sua attenuazione, ed è felicemente disposta a scherzose puntualizzazioni in cui si consuma ogni traccia di emozione per l'apparizione dell'amico. Si direbbe che, tra l'uno e l'altra, sia la psicologia di D. quella che corre il rischio di tradire una non so quale fragilità umana; se non fosse che, ristabilito proprio dall'ultima battuta di B. l'autentico tono purgatoriale, la riapparizione di Virgilio e le sue parole richiamanti all'impegno eccezionale ristabiliscono le proporzioni tra i due personaggi: il moto ascensionale del pellegrino si profila sullo sfondo dei grandi orizzonti terrestri e del ritmo cosmico scandito dal sole; moto tanto più singolare e potente, quanto più si differenzia e si distacca dalla condizione statica dell'amico.
La funzione esplicata da B., di antagonista che precisa e corregge, non può certo far dimenticare quegli atteggiamenti di pigrizia - ma più che di pigrizia si tratta di un rilassamento di ogni volere e quasi di ogni interesse, di un " abbandono desolato dell'anima " (Romani) - che D. mette a fuoco con una certa insistenza. E in sostanza B. è un personaggio tanto vero ed esteticamente valido, quanto più i segni tradizionali della sua vita terrena sono conservati integri e più volte evidenziati; ma il suo segreto è nel fatto che la realtà ultraterrena dell'Antipurgatorio conferisce a quei segni una diversa semantica: cioè gli atti pigri e le corte parole, trasferite dal mondo del tempo al mondo dell'eterno, acquistano una giustificazione e un significato diversi. Se non si tiene conto di questo, l'equilibrio del canto è compromesso: poiché ci sfugge la coerenza del personaggio nel rapporto con D. e Virgilio, e nel rapporto tra una sua battuta e l'altra. Di qui gli squilibri interpretativi tradizionali, dai quali sortiva un personaggio in contraddizione con la struttura morale del Purgatorio (D'Ovidio), con la conseguente stranezza dei critici che infierivano su di lui con assurde e talvolta animose denunzie di poltroneria e di abulia spirituale. Per intendere l'equilibrio e la poesia del personaggio è invece indispensabile non trascurare l'elemento pregiudiziale, che la sua condizione è determinata dalla legge del Purgatorio, ovvero dalla giustizia che si attua. Non c'è in lui un fastidio o una negligenza per l'andar sù; sibbene è dall'impedimento voluto dalla giustizia che si produce lo stato di negligenza sua e degli altri; né questa è più la peccaminosa negligenza terrena, se esterna è la forza che fa coincidere l'abito peccaminoso non ancora purgato con l'accettazione della legge che lo condanna e lo punisce. Si tratta, in sostanza, di una forma di contrappasso: ancora la colpa che si identifica con la pena, ma che, a differenza dei consimili casi infernali, sopravvive nell'atto e non nella volontà. Quando, infatti, dall'atteggiamento si passa al dialogo, nella parola si esprime il peso del lungo tempo che ancora dovrà scorrere prima di poter andare ai martirî; e grazie all'identità formale della negligenza in vita e della negligenza in morte, si avverte che questo peso della lunga attesa non è altro che il peso del lungo indugio che in vita si distese tra peccato e pentimento.
Quanto infine il pentimento abbia già inciso sul genuino abito terreno di pigrizia, è dimostrato da una virtù attiva, la speranza, che traluce alla fine nelle ultime parole di B., nelle quali a fianco al decreto dell'attesa si pone il caso che la preghiera l'accorci; e la speranza dell'aiuto anima la battuta con una diligente precisazione: la preghiera venga da cuore che viva nella grazia, altrimenti non potrà essere esaudita. Perfino l'andamento sintattico dell'intera terzina (vv. 133-135) contraddice le spoglie della negligenza, e pare voglia cancellare, con la diligenza dei suoi nessi, quel senso di stanchezza che si era espresso nella prima battuta, uscita tutta intrisa d'inerzia dal silenzio penoso dello spirito.
Bibl. - M. Porena, Delle manifestazioni plastiche del sentimento nei personaggi della D.C., Milano 1902 (rec. di F. Romani, in " Bull. " X [1903] 8 ss.); F. D'ovidio, Nuovi studi danteschi. Il Purgatorio e il suo preludio, Milano 1906 (rec. di E.G. Parodi, in " Bull. " XIV [1907] 161 ss.); S. Debenedetti, Documenti su B., in " Bull. " XIII (1906) 222-233; E. Sannia, Il Comico, l'umorismo e la satira nella D.C., Milano 1909; A. Baldini, B., in " Rass. Italiana " Il (1919) f. 9; F. Mathieu, B., in " Giorn. d. " XXXVIII (1937) 105-132; G. Toffanin, Sette interpretazioni dantesche, Napoli 1947; A. Chiari, B., Milano 1947; V. Locatelli, L'episodio di B. e la sua cornice, in " Saggi di umanesimo cristiano " VI (1951) n. 4, 21-30; G. Petrocchi, L'attesa di B., in " Lettere ital. " VI (1954), 221-234 (in estratto Il C. IV del Purgatorio, Trapani 1955; rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 311-332); A. Vallone, La critica dantesca nel Settecento e altri saggi danteschi, Firenze 1961, 178-195; T. Spoerri, Introduzione alla D.C., Milano 1966, 126-128. Vedi inoltre le principali letture del canto: G. Picciola, Firenze 1901; A. Bertoldi, Città di Castello 1908; M. Porena, in La mia lectura Dantis, Napoli 1932; E. Trucchi, in " Atti Soc. ligustica " XII, fasc. I-II, Pavia 1933, 28 ss.; U. Bosco, in Tre letture dantesche, Roma 1942 (poi in Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 122-134); R.R. Sirri, Napoli 1956; G. Fallani, Torino 1961; A. Jenni, Firenze 1963; S. Romagnoli; in Lett. dant. 749-763.