BELFIORE
. Comune della provincia di Verona (superficie 26,47 kmq.), nella pianura alluvionale posta a sud dell'Adige. Il capoluogo sorge a 26 m. s. m., a 16,4 km. da Verona, e conta 927 ab. (2058 nell'intero comune); è congiunto con servizio d'auto alla stazione di Caldiero sulla Verona-Venezia e a quella di Zevio sulla Verona-Albaredo-Coriano. Sorge in una campagna magra, rossastra, sabbiosa, ma assai ben lavorata e abbastanza fertile per le sue colture di cereali, di bietole ed erbe foraggere.
La chiesa di S. Maria della Stra è un caratteristico saggio dell'architettura romanica veronese. È stata recentemente e saggiamente restaurata.
Bibl.: Ongaro, Cronaca dei restauri della soprintendenza ai monumenti del Veneto, 1901-12, Venezia 1913.
I martiri di Belfiore.
La rioccupazione della Lombardia da parte degli Austriaci, dopo i disastri dell'esercito piemontese nel luglio 1848, aveva diffuso un senso d'angoscia in tutti coloro che avevano cooperato alla fuga dell'oppressore; e molti di quelli che non avevano presa la via dell'esilio, sia pure attivamente sorvegliati dalla polizia austriaca, non disperando nei destini della patria, neanche quando la rotta di Novara (24 marzo 1849) parve appesantire ancor più quel giogo obbrobrioso, ripresero il lavoro delle congiure, fermi nel proposito di sottrarsi ad esso una volta per sempre. Sorsero quindi comitati d'azione per tutte le città della Lombardia e del Veneto, tornato in soggezione dell'Austria nell'agosto del 1849. Una delle città dove la congiura ebbe maggior numero di proseliti fu Mantova, la quale, rodendosi in cuore di non aver partecipato alle lotte del 1848, sembrava ora voler provare che non aveva potuto farlo se non per circostanze per le quali non doveva esser rimproverata di scarso amore alla patria. La prima adunanza del comitato mantovano fu tenuta, il 2 novembre 1850, in casa del conte Livio Benintendi, andato in esilio lasciando amministratore dei suoi beni l'ingegnere Attilio Mori. Vi convenne il fiore del patriottismo mantovano, fra cui il sacerdote Enrico Tazzoli, che fu eletto presidente dell'adunanza, Achille Sacchi, Giovanni Acerbi, Giovanni Chiassi, Carlo Poma, Luigi Castellazzo; fin dal primo giorno furono discussi i modi più acconci per promuovere la futura insurrezione italiana. Naturalmente si pensò per prima cosa alla parte finanziaria. Il comitato mantovano era sorto con criterî repubblicani; e sebbene non traesse origine dal comitato nazionale italiano, che nel settembre di quell'anno il Mazzini aveva fondato a Londra, pur tuttavia ne accolse subito le direttive, specialmente proponendosi di spronare chi ne faceva parte all'acquisto delle cartelle del prestito mazziniano. Al qual fine il comitato mantovano aveva inviato a Londra uno dei suoi componenti, Giuseppe Finzi, il quale, accompagnandosi con Tullo Massarani, s'intese colà col Mazzini riguardo ai modi più opportuni perché l'azione rivoluzionaria del grande agitatore fosse concorde con quella dei comitati rivoluzionarî italiani, nella lotta contro l'oppressore. In breve tempo si strinsero anche relazioni tra il comitato mantovano e quelli d'altre città della Lombardia e del Veneto. Di quello di Brescia era anima Tito Speri, che durante le Dieci Giornate aveva dato prova d'indomito valore; a Venezia l'aveva fondato Angelo Scarsellini, il più impetuoso e ardito tra quei congiurati; a Verona il conte Carlo Montanari; a Milano i cinque fratelli Lazzati e Giovanni Pezzotti, che aveva giurato di uccidersi, se fosse stato arrestato, per sfuggire alle torture degl'interrogatorî e alle sevizie nel carcere; e mantenne la parola, strozzandosi con un fazzoletto da lui attaccato all'inferriata della prigione; altri comitati sorsero altrove. I propositi che si discutevano nelle loro adunanze erano oltremodo arrischiati. Lo Scarsellini, ad esempio, si diceva disposto ad attentare alla vita dell'imperatore; a Mantova si ventilavano i modi d'impadronirsi della fortezza e di là si spedivano incaricati per esplorare quelle del quadrilatero; l'acquisto e i segreti depositi d'armi erano pure studiati e preparati con infinite cure; infine, oltre la vendita delle cartelle del prestito mazziniano, il Tazzoli aveva ideato e messo in circolazione quelle d'un prestito provinciale lombardo-veneto, emesse col titolo di dono patriottico. Di tutte queste pericolose operazioni era anima il pio sacerdote, riconosciuto ormai capo di tutti i comitati della Lombardia e del Veneto. A lui affluivano i ricavati degl'incassi, dei quali, per imprevidente e fatale delicatezza, teneva conto scrupolosamente in un apposito registro. Assai vasta era pure la propaganda di opuscoli e di proclami rivoluzionarî; e di questa era attivissimo agente il comasco Luigi Dottesio, il quale si riforniva di stampati nella celebre tipografia di Capolago e li introduceva segretamente in Lombardia. Scoperto questo suo contrabbando dalla polizia austriaca, il Dottesio fu arrestato (6 gennaio 1851) a Maslianico e tradotto nelle carceri di Como, poi di Venezia, dove fu impiccato (11 ottobre 1851). Pochi giorni dopo, fu arrestato il sacerdote mantovano Giovanni Grioli, con l'accusa, infondata, di aver tentato a Mantova di subornare alcuni soldati ungheresi. Il Grioli era però della congiura. Gli furono sequestrati in casa bollettini sediziosi, che incitavano i sudditi austriaci d'Italia a rifiutarsi di pagare le imposte; e ciò valse perché fosse fucilato sugli spalti di Belfiore (5 novembre 1851), iniziando così la serie delle carneficine austriache a Mantova. D'allora in poi, la vigilanza della polizia austriaca s'intensificò maggiormente; ma la scoperta della cospirazione mantovana, più che a questa vigilanza, si dovette puramente al caso. Erano allora diffuse in Lombardia banconote austriache falsificate, e la polizia si affannava a scoprirne gli autori. Il 1° gennaio 1852, sospettandosi di certo Luigi Pesci, esattore comunale di Castiglione delle Stiviere, gli fu fatta una perquisizione, e invece delle banconote falsificate, gli fu sequestrata una cartella del prestito mazziniano. Tradotto nelle carceri di Mantova, il Pesci confessò subito che quella cartella gli era stata venduta dal sacerdote Ferdinando Bosio, insegnante nel seminario di Mantova, dove aveva a collega il Tazzoli. Era il primo bandolo della matassa, che cominciò a esser dipanata da un astuto istrumento di polizia, il commissario Filippo Rossi, che faceva di tutto per tornar nelle grazie della polizia austriaca, dopo la subdola condotta da lui tenuta durante la rivoluzione del 1848. Tratto subito in arresto, il Bosio scese a rivelazioni che furono causa della cattura di Enrico Tazzoli (27 gennaio 1852), nella casa del quale si sequestrarono il registro in cifre e le altre corrispondenze che racchiudevano i segreti della congiura, e col Tazzoli furono pure arrestati altri, ai quali il Bosio affermò d'avere vendute cartelle del prestito mazziniano. La spiegazione delle cifre del registro fu impresa ardua per la polizia austriaca, e d'altra parte il Tazzoli, nonostante atroci minacce e dure privazioni fisiche e morali, non scese mai a rivelazioni, affermando che si trattava di "vecchi conti", senza valore, mentre nel registro erano annotati tanto l'ammontare delle somme versate in acquisto di cartelle, quanto i nomi di coloro, ai quali erano state rilasciate. Se non che, una fatale circostanza valse a dar qualche lume agl'inquirenti austriaci. Un secondino della prigione mantovana, certo Stefano Tirelli, d'intesa con l'auditore Kraus, che fu d'un'astuzia infernale nella preparazione di tutti quei processi, si era profferto al Tazzoli di recapitare una corrispondenza clandestina tra lui e la famiglia; il pio sacerdote cadde nel tranello e scrisse un biglietto in cifre al fratello Silvio, il quale, subito arrestato, disse probabilmente che Camilla Marchi, direttrice degli asili infantili mantovani, ai quali il Tazzoli prodigava le sue cure di filantropo, era in grado di decifrare il biglietto, essendo assai addentro nei segreti del sacerdote. La Marchi, interrogata, dichiarò di non essere in grado di farlo, ma disse si rivolgessero a Luigi Castellazzo, in quanto la chiave del cifrario era nota a lui e a Giovanni Acerbi, quest'ultimo sfuggito a tempo agli artigli dell'Austria. Intanto il Kraus aveva mandato a Vienna il registro da decifrare presso quell'uffiicio criptografico, che riuscì nell'intento. E ne vennero fuori nomi, che il Bosio, oramai disposto a qualunque rivelazione, completò e illustrò. Furono operati numerosi arresti di affiliati alla congiura: quelli di R. Arrivabene, dell'arciprete Daina, di L. Dobelli, del Fernelli, del Finzi, del Gerola, del Ghiroldi, del Grazioli, di Carlo Marchi, di G. Nuvolari, dell'Ottinelli, del Pedroni, padre e figlio, del Peretti-Rossi, del Pezzarossa, di Carlo Poma, del Tassoni, del Tondini. Tito Speri fu̇ arrestato a Brescia il 19 giugno 1852; l'avvocato Faccioli a Verona il 20; Attilio Mori, già arrestato il 7 dicembre 1851 per una satira contro il Radetzky, veniva compreso nel mostruoso processo, figurando il suo nome nel registro del Tazzoli.
Il Castellazzo fu arrestato il 22 aprile 1852. Figlio d'un commissario di polizia a Mantova, era rimasto a capo della cospirazione, e nonostante i reiterati consigli degli amici, non aveva voluto allontanarsi da quella città, imitando in ciò il Tazzoli, che era stato pure sordo alle esortazioni di mons. Martini. Sperava forse di essere al sicuro sotto l'egida paterna. Sottoposto a lunghi interrogatorî, tenne dapprima un contegno ardito, quasi spavaldo, dinnanzi al Kraus che l'inquisiva. Più anni dopo, quando gli fu mossa aspra guerra per le rivelazioni da lui fatte nei processi mantovani, affermò che, per costringervelo, era stato sottoposto all'onta di dolorose bastonature, ma non è certo che affermasse il vero. A ogni modo, dopo le sue tenaci negative, tutt'a un tratto cambiò sistema di difesa e il 21 giugno, dichiarandosi reo "di grave delitto", e poiché vedeva usarsi "la clemenza sovrana" verso coloro che dimostravano pentimento "degli lor delitti", era disposto a scendere a confessioni, raccomandandosi "alla clemenza sovrana ed all'umanità di S.E. il signor Feld-maresciallo", dichiarandosi pronto a "narrare sinceramente tutto quanto" sapeva "circa le mene criminose del comitato democratico in Mantova". Per queste confessioni il processo entrò in una nuova fase, giacché si poterono scoprire le fila e le diramazioni dei comitati lombardo-veneti e identificare parecchi dei capi di Milano, Verona, Pavia, Venezia. Al Castellazzo si deve se fu scoperto il tentativo di uccidere il commissario Rossi, che era stato il primo a rivelare la congiura, dichiarando che i designati a quell'impresa, deliberata dal comitato mantovano, erano stati lo Speri e il Poma, in modo che l'accusa contro quei due infelici si aggravò tremendamente. Oltre al Pesci, al Bosio, al Castellazzo, altri inquisiti scesero a rivelazioni, specialmente il Faccioli, capo del comitato veronese, le cui propalazioni determinarono l'arresto del conte Carlo Montanari. Speravano di salvarsi, e invece le confessioni a cui scendevano aggravavano la posizione loro e quella degli altri. In base a queste e ad altre indagini, furono arrestati: a Lodi il dott. Rossetti, che tentò invano di suicidarsi, mentre lo conducevano in carcere; e il 27 giugno lo Scarsellini, lo Zambelli, il de Canal, a Venezia; due giorni dopo molti altri, fra cui A. Cavalletto, G. Finzi e L. Pastro. Anche il Tazzoli, dopo lunghi e vani tentativi, vista scoperta la cifra del registro, e impressionato per i confronti col Castellazzo, scese a qualche confessione. Tuttavia, com'è stato provato dagli atti del processo, egli lo fece unicamente per salvare gli altri, sacrificando sé stesso; infatti dichiarò al giudice che le sue rivelazioni non erano motivate da "nessuna considerazione personale, non dalla speranza o dal desiderio di ottenere diminuzione della meritata pena", ma dettate "da un sentimento di dovere". Disse che la cospirazione mirava a mettere il governo austriaco "nella posizione di pacificare interamente le provincie lombardo-venete e affezionarsele con benefiche disposizioni"; che gl'inquisiti ignoravano a qual uso fosse destinato il provento delle cartelle mazziniane, facendo credere supporsi generalmente destinato ad alleviare le miserie degli esuli; e così via. Quelli che si tennero in una pertinace negativa, ad esempio il Finzi e il Pastro, furono i più accorti, poiché beneficiarono d'un articolo del codice austriaco che proibiva la condanna a morte ai non confessi.
Per queste e altre circostanze emerse dalle deposizioni degl'inquisiti, a mano a mano che erano tratti in prigione e sottoposti a processi spietati, furono giudicati ben 110 individui. La prima sentenza, del 4 dicembre 1852, resa esecutiva il 7, condannava a morte dieci congiurati, a cinque dei quali, compreso il Faccioli che aveva "dimostrato grande pentimento", la pena era cambiata in quella del carcere con ferri da dodici a quattro anni; era invece mantenuta per Enrico Tazzoli, Angelo Scarsellini, Bernardo de Canal, Giovanni Zambelli e Carlo Poma. Tutti furono eroici nel morire. Il Poma, ventottenne, aveva sostenuto con incredibile serenità d'animo le inquisizioni del Kraus; durante la prigionia alla Mainolda, passava le lunghe ore traducendo Omero, poiché, dottore in medicina, aveva anche grande passione per gli studî classici. Fu l'ultimo a salire il patibolo sul piano di Belfiore, e soffrì dieci minuti atrocissimi di strozzamento. Fu detto che il Kraus volesse a questo modo vendicarsi di lui. Lo Zambelli dormì placido sonno e profondo alla vigilia del supplizio; il de Canal disse "rammaricarsi di non aver talvolta corrisposto alle cure dei genitori, ma che se non aveva saputo vivere, sapeva ben morire"; il Tazzoli, che era stato sconsacrato prima di morire, non ebbe ombra di agitazione e salendo il patibolo parve trasfigurato di luce divina. Una seconda sentenza fu data il 28 febbraio 1853; ventisei persone furono condannate, e, fra queste, Carlo Montanari, Tito Speri e Bartolomeo Grazioli, all'estremo supplizio, che il 3 marzo soffersero, come gli altri, con animo invitto. Il Grazioli, arciprete di Revere, avuto un ultimo colloquio con un suo nipote, disse che non aveva compromesso alcuno e che chiedeva perdono ai genitori del dolore che ad essi recava; lo Speri, fierissimo in volto, disse che andava al patibolo come a nozze; il Montanari, eroico rappresentante del patriziato veneto, s'era sempre rifiutato di fuggire, considerando la fuga come un'infamante diserzione dalla causa che si serviva, e affrontò la morte con calma socratica. La terza sentenza, del 16 marzo, fu eseguita il 19: tre condanne, fra cui una di morte per Pietro Frattini. Era un umile amanuense mantovano. Tre giorni prima del supplizio chiese di poter leggere Dante. Nell'atto di offrirsi al capestro, si rivolse a Gesù perché lo ricevesse in paradiso, ma la parola gli rimase in gola.
Dopo più di due anni su Belfiore doveva rizzarsi ancora una volta l'infame strumento di morte. Pietro Fortunato Calvi (v.), già eroico combattente alla difesa di Venezia, partecipe al moto del 6 febbraio 1853, nominato poi dal Mazzini commissario e condottiero delle bande per il Cadore e il Friuli, era stato arrestato a Cogolo, in Val di Sole, il 17 settembre 1853, insieme con altri tre compagni di cospirazione. Gli furono sequestrati documenti che comprovavano le sue relazioni col grande agitatore. Lunga fu la sua prigionia nel castello di Mantova. Nei suoi interrogatorî non negò il suo passato, né omise di dire che nel 1848 aveva chiesto le dimissioni dal servizio militare austriaco per combattere le battaglie dell'indipendenza del suo paese. Solo, si preoccupò di non pregiudicare la situazione dei suoi tre compagni. Condannato il 4 luglio al capestro, l'eroico soldato espiava in quello stesso giorno il suo grande amore all'Italia, offrendosi olocausto su quell'"ara di martiri". È nota la glorificazione che il Carducci fece, nell'ode Cadore, di questo invitto patriota.
Bibl.: A. Luzio, I martiri di Belfiore e il loro processo, Milano 1905-1926, 4ª ed. con ricca bibliografia.