Belice 1968: istituzioni, territorio, memorie
Tra il 14 e il 15 gennaio 1968 nella Sicilia occidentale la terra tremò ripetutamente; l’epicentro dei sismi fu nella valle del Belice, tra le province di Palermo, Agrigento e Trapani. Le conseguenze furono devastanti: la maggior parte degli edifici fu quasi completamente rasa al suolo, lasciando senza tetto più di 100.000 persone. Come spesso è accaduto nel nostro Paese, la ricostruzione, i cui risultati sono stati molto criticati, è stata lunga e tormentata, e negli anni Ottanta una Commissione parlamentare d’inchiesta ha denunciato i molti nodi oscuri e i limiti dell’intervento pubblico. La ricostruzione, a ogni modo, ha portato con sé profonde trasformazioni urbanistiche, ambientali, sociali ed economiche. Quattordici paesi sono stati riedificati in tutto o in parte in nuove aree e secondo piani urbanistici e architetture di ispirazione modernista, mentre il paesaggio agricolo è stato riplasmato da una massiccia riconversione dalla cerealicoltura estensiva alla viticoltura e olivicoltura. Nel corso di queste trasformazioni, anche le comunità locali sono cambiate profondamente abbracciando nuovi stili di vita, modelli di consumo e attività. Questo saggio ripercorre la storia del terremoto nella valle del Belice, descrivendo alcune delle tracce lasciate da tale evento e ricostruendo i racconti che hanno provato a dare senso al nuovo paesaggio e al suo legame con il passato.
Negli ultimi trent’anni gran parte del dibattito pubblico sul terremoto del Belice si è focalizzato su Gibellina, uno degli insediamenti più profondamente segnati dal sisma e dalla ricostruzione. Prima del terremoto, Gibellina, sul pendio di una collina, era un paese di qualche migliaio di abitanti, quasi esclusivamente contadini. Nei reportage di allora veniva citata come esempio della miseria e dell’abbandono in cui versavano la valle del Belice e i suoi abitanti. Il paese fu interamente distrutto pagando il più alto tributo di vittime, e rimase inaccessibile ai mezzi di soccorso per diversi giorni. A seguito di una controversa scelta compiuta nei primi anni Settanta, Gibellina fu ricostruita a 18 km di distanza dal sito, tra le cittadine di Santa Ninfa e Salemi e in prossimità della nuova autostrada Palermo-Mazara del Vallo, su una pianta urbana radicalmente diversa da quella precedente, molto più estesa e con moduli abitativi anch’essi nuovi. Famosi architetti italiani come Giuseppe Samonà (1898-1983) e Ludovico Quaroni (1911-1987) parteciparono con propri progetti alla ricostruzione di chiese, scuole ed edifici pubblici. Negli anni Ottanta, infine, alcuni tra i più rinomati artisti figurativi italiani raccolsero un appello del sindaco Ludovico Corrao (1927-2011), contribuendo con le proprie opere a decorare gli spazi pubblici di Gibellina.
Tra le opere più iconiche e controverse spicca senza dubbio il Cretto di Alberto Burri (1915-1995), uno degli artisti figurativi italiani di maggiore fama del Novecento. Burri giunse a Gibellina su richiesta di Corrao per contribuire alla ‘città d’arte’ in costruzione. Sulle prime rifiutò di partecipare al progetto di Corrao, come quest’ultimo ha raccontato in seguito («La Repubblica Palermo», 28 agosto 2009, p. 17), ma dopo aver visitato le rovine della vecchia Gibellina cambiò opinione e immaginò di trasformare quelle stesse rovine in una propria opera:
Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere il posto dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere. E subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema anche per voi, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento. Non c’erano alberi vicini, e non ce ne potranno mai essere, e il cimitero, piccolo e raccolto, appariva sullo sfondo, abbastanza lontano. Questa è stata l’idea, la partenza. Purtroppo ha fatto la fine di tutto il resto: è lì, ancora incompleto […] (S. Zorzi, Parola di Burri, 1995, p. 59).
Tra il 1984 e il 1988, con la partecipazione dell’esercito, le rovine di Gibellina vennero compattate in blocchi corrispondenti alla forma e localizzazione degli edifici distrutti e coperti da uno strato di cemento bianco. Il cemento è attraversato per tutta la superficie da passaggi che riproducono il tracciato delle antiche strade di Gibellina, come crepe in una terra arida. L’opera è visibile a grande distanza ed è, al contempo, attraversabile a piedi lungo le crepe-tracciati. Il Cretto è stato profondamente criticato per aver operato un intervento così radicale e irreversibile su ciò che restava della città distrutta spogliando i superstiti dell’unico legame fisico ormai possibile con il vecchio insediamento (si veda per es. il documentario di E. Svezia Earthquake ’68 - Gente di Gibellina, 2008). I suoi sostenitori, d’altra parte, ricordano come si tratti di uno dei capolavori di Burri, nonché di un memoriale unico nel suo genere alle vittime dei terremoti. Ormai da molti anni il Cretto fa da sfondo alle numerose rappresentazioni artistiche e teatrali promosse dalla Fondazione Orestiadi, un’istituzione culturale creata a Gibellina Nuova sotto gli auspici di Corrao. Nel 2011 Italia Nostra ha lanciato un appello, sottoscritto da artisti e intellettuali, per restaurare l’opera caduta in uno stato di abbandono e minacciata dalle erbe infestanti. A seguito dell’appello, nel 2012 le autorità nazionali e regionali hanno concesso un finanziamento per restaurare e completare l’opera secondo il progetto originario di Burri.
Il trasferimento del centro abitato, la sperimentazione urbanistica, architettonica e artistica di Gibellina sono generalmente citati a esempio nel dibattito ancora acceso sulla ricostruzione del Belice. Due posizioni opposte si confrontano nel fare un bilancio del caso. Da una parte, vi sono i detrattori, che denunciano l’astrattezza di tali sperimentazioni dal contesto sociale e culturale della Sicilia rurale, l’illogicità se non addirittura la violenza del trasferimento del nuovo sito a diversi chilometri dalla vecchia città, lo spreco di denaro pubblico che avrebbero fatto da sfondo all’intera vicenda. A vent’anni dal sisma, Federico Zeri scrisse di una ‘piovra culturale’ impadronitasi di Gibellina (La piovra culturale, «La stampa», 6 febbraio 1988, p. 3). Nel 1994 il crollo della chiesa madre di Gibellina progettata da Quaroni alimentò ulteriori polemiche ed ebbe come conseguenza un processo penale a carico dei responsabili della costruzione (A. Zinni, Crolla la chiesa, ultima beffa al Belice, «La Repubblica», 15 ag. 1994, p. 8). In un contesto di deprivazione economica, sociale e culturale quale quello del Belice, si argomentava, si sarebbe dovuto prima provvedere ai bisogni essenziali, piuttosto che lanciarsi in spericolate e discutibili sperimentazioni architettoniche e artistiche (M.N. De Luca, Le macerie d’artista a Gibellina l’incompiuta, «La Repubblica», 18 ag. 1994, p. 16). Il crollo della chiesa, peraltro, dimostrava come anche l’esecuzione delle opere fosse stata viziata nel migliore dei casi da incompetenza, quando non da malversazione (cfr. La Ferla 2004). Nel 2011, in occasione della morte di Corrao, queste posizioni si sono ancora una volta confrontate sui principali quotidiani nazionali con toni simili al passato.
Corrao, d’altra parte, ha rivendicato orgogliosamente il valore di quanto fatto. In un’intervista rilasciata nel 2010 rievocò le proprie ragioni, sottolineando la necessità di considerare le trasformazioni urbanistiche in un’ottica di lungo periodo e difendendo la scelta di aver guardato al futuro e non al passato nel ricostruire Gibellina. La vecchia collocazione di Gibellina, secondo Corrao, rispondeva alla logica feudale del latifondo, mentre la nuova città, costruita a valle, era vicina non solo a infrastrutture come l’autostrada, ma anche e soprattutto ai campi da coltivare. Corrao, inoltre, sottolineò il valore della sperimentazione artistica:
Solo la cultura poteva creare la forza dello spirito di superare quelle difficoltà, di affondare nella storia delle proprie radici, di prendere slancio quindi dalla propria identità, ma proiettarla soprattutto nel contemporaneo e nel futuro, senza rimpianti, senza nostalgia […]. [Si è voluto] dare alla città questo segno di vitalità che dà l’arte, questa forza che dà l’arte di sopperire alla mancanza di stratificazione storica del luogo nuovo che sorge. Perché una città è fatta anche di stratificazione di memorie, di vari tempi, di vari modi. Qui era tutto nuovo, quindi era solo la cultura che poteva stabilire le nuove stratificazioni ed era solo la cultura che poteva dare un’anima a tutto, una ricerca del genius loci che veniva appunto dal desiderio di riconquistata e rinnovata identità. […] La storia della Sicilia è costellata da questo. Dopo tutte le sciagure dei terremoti, delle alluvioni, delle guerre, la rinascita è avvenuta sempre nel segno dell’arte. Basta guardare Catania, la val di Noto, Messina, Palermo. Tutta la Sicilia risorge sempre con l’arte, è una specificità nostra (Videointervista a L. Corrao, Le terre che tremarono, 7 aprile 2010, Centro di ricerche economiche e sociali per il Meridione, CRESM).
Al pari di Corrao, anche alcuni tra i principali protagonisti della ‘rinascita artistica’ di Gibellina, come Pietro Consagra (1920-2005), hanno difeso con vigore quanto fatto. Intervistato a seguito del crollo della chiesa di Quaroni, Consagra ammonì contro la «criminalizzazione del Meridione» e respinse le critiche di coloro che ritenevano che «una città del sud non potesse permettersi il lusso di avere a disposizione tutti quegli artisti», ricordando come, per altro, gli interventi artistici furono fatti con fondi privati (T. Serrao, La nostra arte fu un regalo per il Belice, «La Repubblica», 18 ag. 1994, p. 16). Con argomenti simili a Corrao e Consagra, i difensori di Gibellina hanno insistito sul valore civile e culturale della ricostruzione e della sperimentazione artistica. Opponendo alle critiche dei detrattori la qualità delle opere d’arte e di architettura, essi argomentano che le sperimentazioni di Gibellina ne hanno fatto un esempio unico al mondo, e rappresentano un modello di riscatto ed elevazione culturale e sociale per la popolazione negletta della valle del Belice (Cristallini, Fabbri, Greco 2004; Camarrone 2011).
Nel corso degli anni, alcuni contributi accademici hanno provato ad ampliare l’orizzonte di analisi, abbracciando l’intera valle del Belice. Gli architetti Antonio De Bonis, Giuseppe Gangemi e Agostino Renna (1979) hanno esaminato la pianificazione urbanistica e territoriale nella valle criticandone l’astrattezza dal contesto storico-sociale. Anche Augusto Cagnardi (1981) ha tratto dall’insieme dei piani urbanistici prodotti dopo il 1968 un giudizio altrettanto critico nei confronti della cultura architettonica e urbanistica responsabile. Negli stessi anni uno studio sociologico diretto da Aldo Musacchio (Stato e società nel Belice, 1981) evidenziava le trasformazioni generate dal terremoto e dall’intervento pubblico nei paesi del Belice, rivelando come si fosse prodotta una paradossale evoluzione delle strutture sociali ed economiche della zona. Negli anni Novanta Teresa Cannarozzo (1996), Vincenzo Guerrasi e Anna Maria La Monica (1997) hanno studiato non solo le caratteristiche dei piani urbanistici nel Belice, ma il processo di pianificazione e i suoi risultati, ribadendo le forti critiche degli studi precedenti. Una monografia del sociologo Michele Rostan (1998) evidenziava invece gli esiti modernizzatori del terremoto sull’economia di Santa Ninfa. Nei primi anni Duemila, infine, uno studio comparativo di Judith Chubb (2002) metteva in luce le caratteristiche dei processi decisionali istituzionali e il rapporto tra Stato e comunità locali.
Come suggerito da questi contributi il paesaggio fisico e sociale del Belice è più articolato delle schematiche contrapposizioni cristallizzate nel giudizio su Gibellina. Trasferimenti, sperimentazioni urbanistiche e trasformazioni sociali hanno caratterizzato la storia dell’intera valle e delle sue comunità, e una pluralità di attori, istituzionali e non, hanno contribuito a questa storia e ai suoi contraddittori esiti. Nell’immediato dopo-terremoto il futuro della valle del Belice alimentò una competizione tra le ambizioni di autonomia della Regione Sicilia e le prerogative di intervento rivendicate dallo Stato a scapito dei tentativi di partecipazione della popolazione locale. Nella ricostruzione si riversarono le aspettative di un’intera stagione di intervento pubblico e pianificazione, animata dall’idea che solo un’attenta organizzazione del territorio e delle sue forme, della popolazione e delle sue attività, delle risorse e dei loro usi poteva garantire uno sviluppo armonioso e mettere fine al secolare svantaggio del Mezzogiorno. In questo contesto una parte della cultura architettonica e urbanistica italiana trovò (o credette di trovare) nel Belice un terreno ideale di sperimentazione delle proprie teorie sulla funzione guida dell’urbanistica nella pianificazione per lo sviluppo. Di fronte a fallimenti e promesse mancate, d’altra parte, la popolazione rispose in modi creativi e imprevisti, contribuendo a un’importante riconversione agricola e a varie iniziative di sviluppo locale. Nel tentativo di risignificare luoghi e comunità profondamente trasformati, infine, istituzioni e organizzazioni locali hanno da poco cominciato a raccogliere e diffondere memorie e racconti del terremoto e della ricostruzione, nonché a intervenire sulle tracce fisiche del sisma. La peculiare geografia fisica e culturale della valle è il prodotto di queste stratificazioni, influenze e interventi.
Il seguito di questo saggio si divide in quattro paragrafi. Il primo racconta del terremoto, delle sue conseguenze immediate e della risposta di autorità e popolazione locale. Il secondo dei tormentati anni del dopo-terremoto: le proteste popolari e le mancate promesse, le trasformazioni dell’architettura istituzionale della ricostruzione, e infine le nuove leggi, l’avvio della ricostruzione edilizia e la commissione parlamentare d’inchiesta. Il terzo propone una mappa contemporanea delle tracce e delle storie del terremoto e della ricostruzione e analizza le diverse politiche culturali che ne strutturano la formazione. L’ultimo paragrafo, infine, offre alcune considerazioni conclusive.
La valle del Belice è un territorio dai confini incerti, che prende il nome dal fiume che la attraversa, uno dei maggiori corsi d’acqua siciliani sebbene sottoposto alla discontinuità di portata tipica dei regimi torrenziali. Sin dal declino di Selinunte, certo almeno a partire dal 1° sec. d.C., la zona è stata storicamente priva di un centro urbano di spicco. Già nella prima età moderna, l’intera area è stata caratterizzata, al contrario, dalla presenza di insediamenti medi e piccoli, separati da vasti latifondi, in cui risiedeva una popolazione composta principalmente da braccianti, piccolissimi proprietari e affittuari. La maggior parte di questi centri rispondeva al modello delle agrotowns: densi centri di popolamento con caratteristiche urbane, ma privi di funzioni amministrative, politiche ed economiche della città e abitati prevalentemente da una popolazione di contadini. La regione è una delle porzioni del territorio isolano più emblematiche per la storia del latifondo cerealicolo, al centro delle varie ondate di lotte contadine dai fasci siciliani in poi, e oggetto, negli anni tra le due guerre, di vari progetti di bonifica integrale e modernizzazione agricola.
Il terremoto che colpì quest’area nel 1968 fu in realtà quello che i sismologi chiamano una sequenza o periodo sismico (cfr. Marcelli, De Panfilis 1968). Le prime scosse si registrarono nel pomeriggio di domenica 14 gennaio 1968, mentre in alcuni paesi del Belice si svolgevano le elezioni municipali. A seguito delle prime scosse, alcuni ufficiali di polizia vennero inviati nella zona da Trapani e Palermo, e quelli già presenti sul posto per sorvegliare le elezioni ebbero l’ordine di restare. Una parte della popolazione, spaventata dalle tre scosse del pomeriggio, decise di passare la notte all’aperto assistita dagli ufficiali. Questa circostanza contribuì a ridurre di molto il numero delle vittime. Le scosse più devastanti avvennero infatti la notte tra il 14 e il 15 gennaio, alle 2,20 e di nuovo intorno alle 3 di notte. Quando giunse la prima delle due più devastanti scosse, molti erano già all’aperto, immediatamente seguiti da altri abitanti impauriti, e tuttavia più di 300 persone morirono comunque sotto le rovine. I paesi di Gibellina, Salaparuta, Poggioreale e Montevago furono i più colpiti, ma danni gravissimi si registrarono anche a Santa Margherita, Santa Ninfa, Partanna, Vita e almeno altri otto paesi della zona. Già difficilmente raggiungibile per carenza di strade carrabili, l’epicentro dei terremoti fu completamente isolato per almeno due giorni. L’assenza di una collaudata organizzazione dei soccorsi causò gravi ritardi e disfunzioni, incrementando l’impatto dei terremoti sulla popolazione. I danni e le difficoltà nei soccorsi furono aggravati dalle scosse successive. Almeno fino alla fine di gennaio si registrarono nuovi sismi di forte intensità, che provocarono altri crolli e, il 25 gennaio, si contarono due nuove vittime tra i pompieri impegnati nelle operazioni di soccorso.
Nei giorni successivi alle prime scosse si verificarono imponenti movimenti di popolazione, sia all’interno della zona del disastro (verso l’aperta campagna o verso i maggiori centri limitrofi) sia all’esterno. Sin dalle prime ore, molti profughi dai paesi più colpiti affluirono nei centri maggiori della costa, come Castelvetrano, Trapani, Palermo, Agrigento, in cerca di assistenza medica o semplicemente in fuga dai centri abitati pericolanti o in rovina. Le autorità favorirono esplicitamente tali movimenti e ne diressero il flusso verso destinazioni a lungo raggio. Dal 20 gennaio 1968 le ferrovie dello Stato emisero biglietti gratuiti alla stazione di Palermo a tutti i superstiti del Belice che ne avessero fatto richiesta. Le prefetture di Palermo, Trapani e Agrigento, inoltre, rilasciarono passaporti con procedure d’urgenza ai residenti della zona; il prefetto di Agrigento scrisse il 14 febbraio 1968 di aver rilasciato 2409 passaporti (Relazione del 14.02.1968, Archivio storico della Protezione civile, Ministero dell’Interno, Direzione generale Protezione civile e servizi antincendio, 112, b. 14, Terremoto in Sicilia gennaio 1968, f. 16 varie). Migliaia di profughi, così, si diressero verso nord raggiungendo le città industriali, Torino e Milano sopra tutte, e in molti casi valicando le frontiere verso Svizzera, Germania e Francia. Alcuni, infine, partirono alla volta di Australia e Stati Uniti.
Si trattava nella maggioranza dei casi delle tradizionali destinazioni dell’emigrazione siciliana, cui la valle del Belice aveva dato un notevole contributo già negli anni precedenti il terremoto (cfr. Pennino, Pennino, Carbone 1979). Secondo i calcoli di una speciale unità della Polizia ferroviaria posta a sorveglianza dei flussi migratori presso la stazione di Roma Tiburtina, tra il 20 gennaio e il 6 febbraio 1968, almeno 30.000 profughi siciliani erano transitati da Roma (Ministero dell’Interno, Direzione generale della Protezione civile, Comunicazione nr. 15, Roma 6.02.1968, Archivio storico della Protezione civile, Ministero dell’Interno, Direzione generale protezione civile e servizi antincendio, 112, b. 5).
Gran parte dei cittadini italiani apprese la notizia dai media solo qualche giorno dopo. Pochi conoscevano l’ubicazione della valle del Belice se non la sua stessa esistenza. Stampa, cinegiornali e televisione diedero ampia copertura dell’evento, sottolineando la condizione di arretratezza di quell’angolo d’Italia. Nonostante il miracolo economico i superstiti e le rovine del Belice sembravano dimostrare la persistenza di un’Italia del sottosviluppo, arcaica e poverissima. Questa condizione di povertà venne ricondotta in modo pressoché unanime alle carenze della politica e delle istituzioni repubblicane sino a quel momento, e fu indicata da molti come la vera causa del disastro. Se i terremoti di gennaio avevano potuto mietere così tante vittime e provocare così tanta distruzione – si argomentava – era perché i paesi e le case del Belice erano stati costruiti con tecniche rudimentali e materiali poverissimi. La catastrofe, scriveva Giulio Goria su «Paese sera», ha colpito
la parte più povera abbandonata e indifesa dell’Italia meridionale […]. Dove le case avevano strutture in cemento armato non si sono avute vittime, sono morti quelli nelle case di tufo. E le case di tufo sono l’enorme maggioranza perché a Montevago, Gibellina, Salaparuta, Partanna, Santa Ninfa, Salemi il cemento armato non è mai arrivato. E questa è una responsabilità ben precisa alla quale nessuno può sfuggire (L’Italia delle case di tufo, «Paese sera», 20 genn. 1968, p. 2).
Questa interpretazione motivò anche le risposte delle autorità. Se il sottosviluppo era stato la causa vera del disastro, le autorità non potevano limitarsi alla semplice ricostruzione materiale delle case e dei paesi distrutti: si dovevano piuttosto promuovere politiche di sviluppo per far emergere la valle dalla sua tragica e secolare condizione di ‘arretratezza’. I primi ad agire furono i parlamentari dell’Assemblea regionale siciliana: le discussioni tra i partiti politici in merito alla ricostruzione della valle del Belice cominciarono solo tre giorni dopo i sismi del 15 gennaio. Data l’emergenza e l’alto numero di disegni di legge presentati, venne predisposta una commissione legislativa apposita per discutere tutto ciò che attenesse al terremoto. L’obiettivo di questa commissione era di redigere un testo unico che potesse essere approvato senza ulteriori discussioni dal parlamento regionale. Ciò avrebbe dimostrato all’opinione pubblica la capacità di tutte le forze politiche di superare le divisioni di fronte al disastro e di operare insieme per il bene comune. Tutte le trattative tra le forze politiche sul testo da approvare, perciò, si svolsero proprio in seno a questa commissione che rappresentava un formidabile spaccato per comprendere le ragioni e gli obiettivi dei legislatori.
La gran parte della discussione (Archivio storico del Parlamento di Sicilia, Commissione speciale terremoti, 21-27 genn. 1968) si concentrò su una serie di articoli di legge proposti dal gruppo parlamentare del Partito comunista italiano (PCI). Questi articoli disciplinavano in particolare l’aspetto urbanistico territoriale della ricostruzione attraverso l’introduzione di uno strumento di pianificazione che, nelle intenzioni dei proponenti, doveva rappresentare una positiva novità: il piano comprensoriale. Tale piano avrebbe dovuto abbracciare un territorio più ampio del tradizionale piano regolatore urbanistico, estendendosi a più nuclei urbani e al territorio da essi condiviso. Nelle intenzioni dei proponenti, questo strumento avrebbe dovuto, da una parte, garantire il procedere ordinato e coerente degli interventi di ricostruzione e, dall’altra, consentire di subordinarli tutti a un’unica finalità. Quella, per l’appunto, di porre le basi per lo sviluppo socioeconomico della valle del Belice:
Il piano comprensoriale dovrà definire la destinazione di uso e le norme per l’utilizzazione del territorio ed in particolare: a) stabilirà i centri che dovranno in parte o in tutto essere trasferiti; b) conterrà le previsioni per l’impianto, lo sviluppo e la trasformazione degli insediamenti abitativi e produttivi, disciplinando le destinazioni d’uso e le relative norme; c) stabilirà il sistema delle infrastrutture, gli impianti e le attrezzature pubbliche e di uso pubblico nonché il complesso delle opere di nuova costruzione necessarie alla trasformazione ed allo sviluppo dell’ambiente economico e sociale; d) stabilirà i tipi edilizi in stretto rapporto con le caratteristiche economiche e sociali della zona e secondo le locali necessità del lavoro e dello sviluppo produttivo, nonché in relazione all’osservanza di norme tecniche di edilizia per le località sismiche; e) stabilirà i perimetri delle zone di interesse paesistico e storico-artistico, le relative modalità di utilizzazione e le eventuali prescrizioni speciali d’uso; f) definirà programmi e fasi di attuazione (art. 3 del d.l. 22 genn. 1968 nr. 168).
I deputati della Democrazia cristiana (DC) espressero alcune perplessità rispetto alla proposta del PCI. Le perplessità non erano legate al contenuto o alle ambizioni del piano comprensoriale, quanto piuttosto all’opportunità o meno da parte delle autorità regionali di intervenire su una materia quale la pianificazione urbanistica e territoriale postsisma. Secondo il PCI lo statuto regionale garantiva ampiamente questa facoltà, mentre secondo la DC si trattava di una materia che andava lasciata alle autorità centrali. Nonostante le perplessità dei deputati democristiani, a ogni modo, la commissione finì per licenziare un testo che includeva il piano comprensoriale. La volontà di giungere all’approvazione unanime, tenacemente perseguita dalla DC per offrire un’immagine di coesione agli occhi dell’opinione pubblica, offrì alla pattuglia comunista la forza contrattuale necessaria per piegare le resistenze. Il 27 gennaio, così, l’assemblea regionale approvò la l. reg. 3 febbr. 1968 nr. 1 per la ricostruzione. La legge introduceva il piano comprensoriale per consentire allo stesso tempo, e con la stessa procedura istituzionale, pianificazione territoriale e programmazione economica per lo sviluppo.
Si trattava del primo intervento legislativo sulla ricostruzione, precedente qualsiasi iniziativa in merito da parte delle autorità nazionali. Ciò creò esplicite tensioni con il Ministero dei Lavori pubblici, retto dal socialista Giacomo Mancini (1916-2002), che vedeva minacciate le proprie prerogative da quella che giudicava essere un’illegittima ingerenza regionale. Sin almeno dal disastro di Messina e Reggio Calabria, l’intervento in caso di calamità naturali era, infatti, tradizionale prerogativa del Ministero dei Lavori pubblici. Sebbene lo statuto regionale siciliano del 1946 attribuisse facoltà di pianificazione urbanistica alle autorità regionali in nome dell’autonomia isolana, riconosceva allo stesso tempo la competenza delle autorità nazionali in caso di eventi eccezionali. In aggiunta a tali questioni di gerarchia istituzionale, d’altra parte, vi erano ulteriori motivi di frizione. L’entourage del Ministero dei Lavori pubblici stava elaborando in quegli anni un ambizioso piano di riforma territoriale finalizzato a correggere gli squilibri del recente sviluppo economico, i cui risultati principali sarebbero confluiti nel cosiddetto Progetto 80, e considerava la ricostruzione della valle del Belice un terreno di sperimentazione ideale per quelle ambizioni di pianificazione e programmazione economica, e un’opportunità per dimostrare l’efficacia e l’importanza della partecipazione socialista nel Centrosinistra. L’iniziativa regionale rischiava di tarpare le ali a questo progetto precludendo ogni spazio di intervento al Ministero.
La soluzione al potenziale conflitto istituzionale tenne impegnati i tecnici del Ministero per quasi un mese. La prima legge nazionale per la ricostruzione, così, giunse solo alla fine di febbraio sotto forma di decreto legge (d.l. 22 febbr. 1968 nr. 12). Il decreto riprese il medesimo principio informatore della legge regionale: la ricostruzione andava accompagnata a un vasto e organico intervento di pianificazione su larga scala e programmazione economica per lo sviluppo. Questa volontà fu espressa in particolare nell’art. 59 del decreto:
La Cassa per il Mezzogiorno, il Ministero dei Lavori pubblici e [...] la Regione siciliana, promuoveranno, nell’ambito delle leggi vigenti, una serie di provvedimenti destinati a favorire la rinascita economica e sociale dei comuni [colpiti dal terremoto]. Il Ministero delle Partecipazioni Statali sarà sentito onde accertare la possibilità di intervento degli enti a partecipazione statale sia nel campo delle infrastrutture, sia nel campo delle iniziative produttive. Il complesso dei provvedimenti sarà approvato dal CIPE [Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica] nell’ambito delle procedure di revisione del piano di coordinamento degli interventi ordinari e straordinari per il mezzogiorno.
La valle del Belice, esempio di ‘sottosviluppo’ e ‘arretratezza’ che ancora persistevano in tante parti dell’Italia del miracolo, doveva divenire, in modo speculare e opposto, l’esempio della capacità delle istituzioni repubblicane di vincere quelle condizioni. A tale scopo, il decreto mobilitava l’intero apparato della programmazione economica e dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, stabiliva i primi fondi per la ricostruzione di infrastrutture, edifici pubblici ed edilizia popolare, sussidi per i privati ed esenzioni fiscali, e istituiva l’Ispettorato generale per le zone terremotate. L’Ispettorato, localizzato a Palermo e posto sotto le dirette dipendenze del Ministero dei Lavori pubblici, avrebbe avuto il compito di gestire l’allocazione dei fondi pubblici e supervisionare l’intero processo di ricostruzione. La legge, infine, stabiliva le prerogative del Ministero rispetto a quelle rivendicate dalla regione definendone la competenza esclusiva per i ‘programmi di trasferimento’: la pianificazione urbanistica e infrastrutturale per quei paesi che fosse stato necessario trasferire integralmente o in parte per ragioni di stabilità geologica, come stabilito dalla normativa successiva al terremoto del 1908.
L’approvazione del decreto in Parlamento divenne l’occasione di eclatanti manifestazioni di protesta dei superstiti. All’avvio del dibattito parlamentare, un migliaio di abitanti del Belice raggiunse Roma in treno e si accampò in piazza Montecitorio. Così come la regione e il Ministero, chiedevano che la ricostruzione divenisse occasione di sviluppo economico per la valle, ma pretendevano anche di avere voce in capitolo sui piani di ricostruzione e su investimenti e localizzazione degli interventi per lo sviluppo (Appello delle popolazioni terremotate, «Pianificazione siciliana», 1968, 3, 4, p. 4). La protesta ottenne una certa visibilità sulla stampa e sulle televisioni nazionali. I superstiti del Belice erano stati sino a quel momento rappresentati come vittime silenziose dalla stampa che ne aveva insistentemente sottolineato l’arretratezza, la povertà e l’arcaicità. Di fronte a Montecitorio, tuttavia, stava una comunità di soggetti consapevoli e portatori di precise richieste nei confronti delle autorità: un programma di edilizia pubblica antisismica, un piano di interventi per lo sviluppo agricolo e industriale e la partecipazione delle comunità locali alla ricostruzione. Durante i giorni del sit-in, una delegazione di superstiti del Belice venne ricevuta da vari membri delle istituzioni, incluso il ministro dei Lavori pubblici Mancini. La delegazione ottenne da tutti rassicurazioni circa la volontà di accompagnare ricostruzione e sviluppo. Raccogliendo una delle richieste della popolazione, nella versione finale della l. 18 marzo 1968 nr. 241, l’articolo 59 fu modificato inserendo una data limite per l’elaborazione del piano di sviluppo.
Dietro queste proteste e rivendicazioni stava una lunga stagione di lotte nella zona colpita dal sisma. A partire dai primi anni Sessanta alcuni collaboratori del sociologo e attivista Danilo Dolci (1924-1997) avevano promosso la nascita di comitati popolari nei paesi della valle del Belice e organizzato numerose dimostrazioni (L. Barbera, La diga di Roccamena, 1964). Queste iniziative erano finalizzate a stimolare un programma di sviluppo locale centrato sulla realizzazione di una diga sul Belice, di una rete di irrigazione e di varie infrastrutture come scuole e ospedali per migliorare la qualità di vita della popolazione. I comitati, inoltre, rivendicavano già allora il diritto a una partecipazione attiva nel disegno di piani di sviluppo, basandosi sull’assunto che le competenze e le conoscenze locali erano insostituibili nell’individuazione delle reali necessità del territorio, e andavano perciò incorporate nella pianificazione istituzionale. Queste rivendicazioni di metodo e di merito, affinate fino all’elaborazione di un Piano democratico di sviluppo (nel numero speciale di «Pianificazione siciliana», 1967, 2), assumevano un’importanza ancora maggiore all’indomani del terremoto e fornivano alle comunità locali strumenti e conoscenze precise da cui partire per rivendicare un ruolo attivo nel processo di ricostruzione. Tuttavia, nonostante queste competenze e a dispetto di validi argomenti, la voce delle comunità del Belice fu poco o per nulla ascoltata dalle autorità.
Nel 1968 praticamente tutti gli attori erano concordi nel ritenere che l’unica risposta possibile al terremoto fosse un piano di ricostruzione che trasformasse radicalmente la struttura territoriale, economica e sociale dell’intera zona. L’architettura istituzionale disegnata a tal fine dalle leggi regionale e nazionale si basava sulla coesistenza di due principali strumenti di pianificazione: da una parte, il piano comprensoriale di competenza regionale che unificava più paesi e includeva il territorio e le risorse che questi paesi condividevano; dall’altra, i cosiddetti piani di trasferimento considerati di esclusiva competenza ministeriale. Questi piani di trasferimento ministeriali erano pensati per i paesi per i quali si giudicava indispensabile il trasferimento totale o parziale in altra sede, e includevano infrastrutture e disegno urbanistico generale. In aggiunta, il coordinamento tra questi due livelli e tra i livelli inferiori (come i piani urbanistici comunali e i piani di fabbricazione) sarebbe stato assicurato da un’ulteriore piattaforma: il piano di coordinamento territoriale, introdotto alla fine del 1968 dalla Regione Sicilia con decreto presidenziale (25 ott. 1968 nr. 147). Il Piano di coordinamento territoriale nr. 8 avrebbe coperto l’intera area del disastro e l’avrebbe inserita in un più vasto programma di ristrutturazione territoriale e sviluppo economico per la Sicilia occidentale.
Tanto il Ministero che la regione affidarono il compito di redigere la maggior parte di questi piani, incluso il piano di coordinamento territoriale nr. 8, all’ISES (Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale). L’ISES era nato dalle ceneri del GESCAL (Gestione Case per i Lavoratori) e sino a quel momento aveva gestito alcuni programmi di edilizia popolare e la ricostruzione del quartiere di Villaseta ad Agrigento a seguito della frana del 1966. L’assegnazione all’ISES dell’intera pianificazione per il Belice non fu pacifica. Così come accaduto al momento dell’approvazione della legge per la ricostruzione, i comitati popolari cercarono di far sentire la propria voce, e sottoposero un piano alternativo alle autorità (Piano di sviluppo democratico per le valli Belice, Carboi, Jato, 1968). Questo piano, redatto sotto l’egida di Dolci dall’architetto Giuseppe Carta e dall’economista Marziano Di Maio, mirava alla realizzazione di una ‘città-territorio’ nella valle del Belice, ovvero una rete di insediamenti capaci di integrarsi tra loro in una struttura con funzioni urbane, senza però determinare una concentrazione di popolazione e abitato in un solo centro. Il piano per la ‘città-territorio’, per il resto, incorporava la maggior parte delle proposte storiche dei comitati, in particolare la costruzione di una diga sul Belice e di una serie di impianti per la trasformazione dei prodotti agricoli, e le integrava con le nuove necessità scaturite dal terremoto, ovvero la ricostruzione antisismica degli abitati e delle infrastrutture. Alla fine del 1968 venne organizzata dalle autorità una riunione per esaminare le proposte fatte sino a quel momento dai vari organismi coinvolti. Parteciparono funzionari del Ministero dei Lavori pubblici, l’Ispettore generale per le zone terremotate Luigi Corona, il direttore dell’ISES Fabrizio Giovenale (1918-2006) e l’estensore del piano dei comitati del Belice, Carta, che espose le caratteristiche salienti del Piano di sviluppo democratico. Questo, secondo Giovenale, non teneva conto «delle effettive situazioni geomorfologiche e insediative della zona e delle infrastrutture e servizi esistenti o in corso di realizzazione». Inoltre, a suo avviso, il piano ISES era «più democratico». L’Istituto avrebbe fatto precedere la relazione del piano da «una fitta rete di consultazioni (sia pure del tutto informali) a livello delle strutture amministrative comunali e della popolazione». Ciò, a detta di Giovenale, non sarebbe stato fatto «in apprezzabile misura» dai comitati, contraddicendo dunque la proclamata democraticità del loro piano di sviluppo (Ministero dei Lavori pubblici, Verbale della riunione della sottocommissione per il coordinamento dei piani comprensoriali tenutasi il 12 ottobre 1968 a Palermo, allegato A alla relazione dell’ispettorato del 21 novembre 1968, ASPC, MLLPP, Div. III, busta Atti vari Terremoto gennaio 1968).
In realtà, il piano dei comitati era frutto di un lungo processo di elaborazione. Il piano, come già ricordato, riprendeva in gran parte proposte, come quelle per la costruzione di una diga sul Belice e per la creazione di un esteso sistema di irrigazione, che erano state al centro delle lotte popolari sin dal 1962. Nel corso di quelle mobilitazioni, supportate attivamente da molti amministratori locali, si era formata una rete di attivisti e comitati estesa all’intera valle. Attraverso pubblicazioni, convegni e assemblee, questa rete di cittadini, attivisti e amministratori, con la collaborazione di professionisti in vari campi, aveva elaborato un articolato progetto di modernizzazione agricola e riforma del territorio unito a precise e circostanziate richieste alle autorità per servizi pubblici e infrastrutture civili. Il piano di sviluppo democratico del dopo-terremoto, perciò, era radicato in consultazioni, studi e proposte quasi decennali. Ciò nonostante, a partire da quella riunione e dallo sbrigativo giudizio di Giovenale, i comitati e i loro rappresentanti vennero esclusi da qualsiasi partecipazione formale al processo di pianificazione. Il modello della città-territorio elaborato dai comitati fu nominalmente ripreso dall’ISES nella redazione del piano di coordinamento territoriale. Nella visione dell’ISES, tuttavia, si faceva spazio a una riconfigurazione del territorio molto più radicale, combinata con un ambizioso programma di sviluppo dei settori secondario e terziario da realizzarsi tramite investimenti delle partecipazioni statali (Renna, De Bonis, Gangemi 1979).
Il piano ISES incorporava in primo luogo i trasferimenti di abitati che rappresentavano l’elemento centrale dell’incarico ricevuto dal Ministero dei Lavori pubblici. Nel quadro del riassetto del territorio e della pianificazione su larga scala, tuttavia, l’ISES considerava i trasferimenti solo come uno degli elementi di disegno più ampio, si trattava invece di qualcosa di molto di più, tanto per la valenza simbolica che per le conseguenze concrete di tali scelte. La decisione di trasferire alcuni abitati, anticipata dalla legislazione regionale e nazionale, era stata supportata dalle perizie geologiche di due membri dell’Istituto nazionale di geofisica, inviati su sollecitazione del Ministero dei Lavori pubblici nel luogo del disastro. Liliana Marcelli e Mario De Panfilis, questo il nome dei due geologi, dopo aver condotto un sommario lavoro di ricerca sul campo, conclusero che «i paesi di Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Montevago, hanno subito una distruzione totale e di essi non rimane ora che un informe ammasso di macerie, di travi contorte e di muri sbriciolati. […] Sarà opportuno ricostruire [i paesi predetti] trasferendoli in località vicine ma topograficamente e geologicamente più idonee» (M. De Panfilis, L.Marcelli, Relazione sismologica sui terremoti di Sicilia iniziatisi il 14 gennaio 1968, dattiloscritto, Roma, 9 aprile 1968, pp. 6-7, ASPC, MLPP, Div. III, b. 1 Terremoti 1968 - Classificazioni zone sismiche).
L’elenco delle località venne ufficializzato qualche settimana più tardi da un decreto del presidente della Repubblica (30 maggio 1968). La lista delle località, tuttavia, si estese nei mesi e anni successivi. Oltre a Gibellina, Salaparuta, Poggioreale e Montevago, anche Santa Ninfa, Partanna, Vita, Santa Margherita, Salemi, Camporeale, Menfi, Contessa Entellina, Sambuca di Sicilia, Calatafimi vennero inclusi nella lista di paesi interessati dai trasferimenti. In queste ultime località solo alcune parti degli abitati distrutti sarebbero state ricostruite in situ mentre le altre sarebbero state abbandonate, e l’edificato corrispondente sarebbe stato realizzato in altri punti del territorio comunale.
Sebbene la necessità di rilocalizzare i paesi distrutti fosse stata presentata come necessaria e inevitabile già poche settimane dopo il disastro, la concreta attuazione di tale disegno si rivelò piena di ostacoli. Scartata quasi immediatamente l’ipotesi di una conurbazione unica, in molti casi fu possibile identificare aree adeguate in prossimità dei vecchi abitati: in particolare a Montevago e in tutti i paesi a trasferimento parziale. Diversamente, nel caso di Salaparuta, Poggioreale e soprattutto Gibellina, l’identificazione dei siti per il trasferimento totale fu molto più complessa. A detta dei documenti ufficiali le stesse ragioni geologiche che sconsigliavano la ricostruzione in situ impedivano di trovare aree adeguate in prossimità degli abitati distrutti (Ispettorato generale per le zone terremotate, Trasferimento degli abitati e Situazione dei lavori affidati all’ISES, s.d. ma aggiornato fino al 1973, Archivio storico della Protezione civile, Ministero dei Lavori pubblici, Divisione 3a, b. 3, Trasferimento di abitati terremoto ‘68). Le dimensioni particolarmente ridotte di Salaparuta e Poggioreale resero possibile identificare aree a valle dei centri abbandonati. La localizzazione di Gibellina invece rimase incerta per alcuni anni e gli abitanti si opposero vigorosamente ad alcune delle soluzioni prospettate in un primo momento. Solo nel 1972 si stabilì definitivamente dove sarebbe sorta la nuova Gibellina: a 18 km dal vecchio centro, la zona era situata nel comune di Salemi e in prossimità dell’autostrada Palermo-Mazara, l’infrastruttura in costruzione che sarebbe divenuta il principale asse viario della nuova valle del Belice.
In attesa di ricostruire i paesi distrutti, la popolazione venne alloggiata in baraccopoli, distribuite in vari punti della valle ricalcando quanto più possibile la distribuzione geografica dei vecchi paesi. La vita nelle baraccopoli assunse ben presto contorni assai tristi. Da una parte, la sistematica sottostima del fabbisogno reale produsse, almeno nei primi tempi, condizioni di sovraffollamento e promiscuità ritenute inaccettabili dalle stesse istituzioni che ne erano responsabili. Dall’altra, le caratteristiche fisiche delle baracche e i materiali scelti – per la maggior parte lamiere ed eternit – nonché la scarsa qualità della realizzazione di alloggi e campi costrinsero gli abitanti a condizioni di vita degradanti. Già nel luglio del 1968 un servizio del quotidiano siciliano «L’ora» denunciò il pessimo stato delle baraccopoli. Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia (1921-1989) contribuì con un reportage in cui non esitò a paragonare le baraccopoli ai «più efferati ed abbietti campi di concentramento» (Sono stato nei ‘lager’ della valle del Belice, «L’ora», 9-10 luglio 1968, p. 7). Nel corso degli anni gli abitanti raccontarono di infiltrazioni e muffe, mancanza di acqua corrente e temperature insopportabili in estate e inverno a causa dello scarsissimo isolamento termico. In alcuni casi gli esposti degli abitanti portarono anche alla denuncia delle ditte appaltatrici (Ministero dei Lavori pubblici, Direzione generale Servizi speciali, Trapani, Indagini per irregolarità commesse nella costruzione di opere per terremotati della Sicilia 1968, 10.07.1971, Archivio storico della Protezione civile, Ministero dei Lavori pubblici, Divisione 29, Affari generali, b. 27, corrispondenza 1970).
La prima fase dei lavori pubblici per i paesi e i quartieri nuovi si concentrò sulle cosiddette opere di urbanizzazione primaria: fognature, acquedotti, pavimentazione stradale, linee elettriche e telefoniche, illuminazione pubblica. Ciò avvenne a scapito delle case vere e proprie, creando il paradosso di aree urbanizzate ma prive di abitazioni. L’ISES rivendicò con orgoglio questa scelta rispetto agli errori commessi nei quartieri popolari del dopoguerra, quando molti complessi di edilizia pubblica vennero realizzati in zone ancora prive di allacci alle reti idriche ed elettriche. Il presidente dell’ISES Elio Capodaglio (1923-2012), tuttavia, ammoniva già nel 1972 che l’urbanizzazione promossa dall’ISES sarebbe risultata del tutto inutile qualora le istituzioni non avessero rispettato l’impegno preso nel dopo-terremoto e promosso iniziative di sviluppo economico e industrializzazione: «se non si realizzeranno presto ed in numero congruo i relativi posti di lavoro […] otterremo il risultato di aver speso inutilmente ingenti somme di denaro pubblico» (L’ISES nella valle del Belice: la ricostruzione dopo il terremoto del gennaio 1968, «Quaderni di edilizia sociale», 1972, 6).
Costretti in baracche insalubri e memori di una lunga stagione di mobilitazioni e lotte, gli abitanti inscenarono svariate forme di protesta e disobbedienza civile supportate dagli attivisti del Centro studi di Dolci. Alla fine del 1969, i comitati popolari organizzarono un evento di protesta a Roccamena intitolato giudizio popolare, in cui venivano simbolicamente processati e condannati esponenti delle istituzioni giudicati colpevoli di non aver mantenuto le promesse fatte agli abitanti della valle. Il giudizio popolare di Roccamena segnò una rottura tra Dolci e Lorenzo Barbera, suo principale collaboratore nel Belice, ma non implicò la fine delle mobilitazioni. L’anno successivo venne lanciata una campagna di disobbedienza civile basata sul rifiuto di pagare bollette e tasse. La protesta fu seguita da un nuovo viaggio a Roma che, come il precedente del 1968, si concluse con incontri ufficiali con rappresentanti delle istituzioni e nuove promesse. La più eclatante protesta fu il rifiuto della leva obbligatoria da parte di numerosi giovani della valle. L’atto di disobbedienza provocò dure reazioni da parte delle autorità e portò all’incarcerazione di molti attivisti, tra cui Vito Accardo, tra gli iniziatori della protesta, e lo stesso Barbera. Il movimento contro la leva, tuttavia, continuò nonostante gli arresti. Così ha raccontato lo stesso Accardo:
In ogni comune si era costituito un comitato, quindi i giovani che partecipavano in prima persona erano decine, e in tutti i comuni erano centinaia. La maggior parte naturalmente erano animate da questo interesse a non fare il servizio militare per non allontanarsi dalle famiglie che vivevano precariamente nelle baracche. Ma piano piano venne fuori un minimo di coscienza più attenta: e qua se si fanno le case, anche se ci fanno le case magari due a famiglia, magari ci fanno le strade, magari ci fanno l’autostrada come poi è stata fatta, magari ci fanno le piazze […] ma poi noi di cosa campiamo, d’aria? (Videointervista a V. Accardo, Le terre che tremarono, 29 maggio 2009, CRESM).
Queste lotte furono fra gli eventi più significativi del movimento nazionale contro la leva. L’approvazione della l. 15 dic. 1972 nr. 772 per il servizio civile ne fu una emanazione e diede ai residenti in età di leva la possibilità di svolgere il servizio civile nella valle, così come richiesto dai giovani renitenti. Le proteste di quegli anni, tuttavia, avevano obiettivi più vasti, e si scagliavano sia contro i ritardi nella ricostruzione sia, come ricordato nel passaggio sopra citato, contro la visibile assenza di politiche di sviluppo e investimenti pubblici nella zona.
Nonostante tali investimenti fossero esplicitamente menzionati nella legislazione postdisastro e fossero essenziali all’intero disegno di pianificazione territoriale dell’ISES, apparve chiaro molto presto che nessuno degli organismi competenti, dalla Cassa per il Mezzogiorno al Ministero delle Partecipazioni statali, aveva davvero l’intenzione di investire nella valle del Belice. La scadenza del 31 dicembre 1968 imposta dall’articolo 59 agli organismi competenti per presentare i piani di sviluppo era passata invano. Solo la Regione siciliana, ai primi di gennaio 1969, presentò alcune abbozzate proposte fondamentalmente incentrate sulla realizzazione di un’autostrada tra Palermo e Mazara del Vallo (Regione siciliana, Presidenza, Proposte di provvedimenti per favorire la rinascita economica e sociale dei comuni terremotati Art. 59 della legge 18-3-1968 n. 241, 1969). La posizione delle autorità nazionali venne chiarita l’anno seguente. Nel corso di apposite riunioni, infatti, si stabilì il principio che nessun intervento speciale sarebbe stato effettuato nella valle al di fuori della pianificazione economica ‘ordinaria’: vale a dire nessuno (Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, Piano di interventi a favore dei comuni siciliani colpiti dal terremoto ai sensi dell’articolo 59 della legge 241/1968, 23 luglio 1969, Archivio storico della Protezione civile, Ministero dei Lavori pubblici, Divisione 3, b. 4, Atti vari Terremoto gennaio 1968).
Nel 1970-71, in realtà, il cosiddetto Pacchetto Sicilia-Calabria varato dal CIPE includeva il finanziamento di alcuni impianti industriali nella zona del Belice, della cui realizzazione venne incaricato l’ENFIM, un gruppo industriale a partecipazione statale. Questo progetto, tuttavia, venne accantonato già nel 1973, e una simile sorte toccò a un piano di industrializzazione sostenuto direttamente dalla Regione siciliana (Senato della Repubblica 1981, p. 374, pp. 393-94). Lo stesso piano di coordinamento territoriale redatto dall’ISES, che organizzava ricostruzione edilizia e investimenti per lo sviluppo, giaceva negli uffici della regione in attesa di un’approvazione ufficiale che non sarebbe mai arrivata. Nel 1973, a sancire definitivamente il naufragio di ogni ambizione, l’ISES stesso venne soppresso mentre i comitati popolari e le reti organizzative che li supportavano si scioglievano ufficialmente (L. Barbera, La disgregazione della solidarietà e delle lotte popolari, «Casabella», dic. 1976, p. 10).
Alla metà degli anni Settanta era chiaro a tutti che i grandiosi piani del dopo-terremoto avrebbero difficilmente potuto realizzarsi e che, anzi, allo stato attuale la stessa ricostruzione edilizia sembrava avviarsi verso uno spettacolare fallimento. Nel 1975 un’inchiesta interna del Ministero dei Lavori pubblici mise in evidenza in modo inequivocabile le molte lacune della ricostruzione:
La situazione generale, sulla base dei risultati al momento conseguiti ed in rapporto ai tempi tecnici di esecuzione, genera motivi di profonda perplessità. Sembra infatti del tutto sproporzionato, così come sono le cose attualmente, il rapporto tra le opere di urbanizzazione primaria e quelle di edilizia, sia abitativa che sociale. […] La scelta delle aree dei nuovi insediamenti e le progettazioni di tutte le opere programmate hanno comportato, quasi dovunque, un eccessivo arco di tempo. […] A distanza di oltre sette anni dal verificarsi del sisma si è ancora lontani dalla soluzione dei problemi fondamentali e dal raggiungimento degli obbiettivi prestabiliti (G. Abbati, F. De Rossi, Rapporto-accertamento tecnico amministrativo e proposte per l’utilizzazione di fondi disponibili per opere di competenza dell’ispettorato generale per le zone colpite dal terremoto del gennaio del 1968 in alcuni centri delle provincie di Agrigento, Palermo e Trapani, 26 gennaio 1976, Archivio storico della Protezione civile, Ministero dei Lavori pubblici, Divisione 3a, b. 8).
La relazione si chiudeva con l’auspicio di una nuova legge che riformasse i meccanismi della ricostruzione a cominciare dal finanziamento ai privati e dall’erogazione dei fondi. Prendendo atto dell’inefficacia dei meccanismi adottati, in effetti, nel 1976 una nuova legge provò a ridisegnare l’architettura istituzionale del finanziamento e della distribuzione di risorse e potere decisionale. Il dato più significativo della l. 29 aprile 1976 nr. 178 fu l’abbandono dell’approccio centralista della legislazione precedente (cfr. Chubb 2002). La normativa del 1968 aveva attribuito il controllo pressoché esclusivo dei fondi a un organo decentrato del Ministero dei Lavori pubblici, l’Ispettorato generale per la ricostruzione delle zone terremotate, salvo consentire una caotica coesistenza di livelli di pianificazione e di autorità responsabili concorrenti. La nuova legge del 1976, invece, faceva dei comuni gli attori principali della ricostruzione e stabiliva una nuova linea di finanziamento diretta all’edilizia abitativa.
Grazie ai nuovi fondi e alla riforma dei processi decisionali, alla fine degli anni Settanta vennero completate le prime abitazioni in muratura e fu possibile trasferire i primi gruppi di famiglie dalle baraccopoli ormai fatiscenti in vere e proprie case. Inoltre venne stabilita una Commissione d’inchiesta parlamentare con il compito d’indagare sulla ricostruzione presieduta dal senatore DC Luciano Dal Falco (1925-1982), che si insediò nella sua forma definitiva nel 1979. Data la complessità dell’architettura istituzionale della ricostruzione e il numero di attori coinvolti, la mole di materiale da raccogliere e consultare era enorme, così come il numero di persone da interpellare. I risultati della Commissione furono resi pubblici nel 1982, e dipinsero un quadro di incertezze decisionali, conflitti di competenze e corruzione diffusa, ma puntarono soprattutto il dito sulle mancate promesse di industrializzazione. Nella valle del Belice, recitava la relazione di maggioranza, «non è stato realizzato assolutamente nulla nel campo delle iniziative produttive» (Senato della Repubblica 1981, p. 403). Questo, secondo la maggioranza dei commissari, avrebbe vanificato l’intero disegno della ricostruzione, creando il paradosso di infrastrutture senza alcuna struttura da sostenere. A tredici anni dal terremoto, concludeva amaramente la relazione, la Commissione non poteva «esimersi dal rilevare il perpetuarsi delle condizioni di arretratezza dell’economia locale, che fanno della Sicilia occidentale una delle zone più depresse dell’Italia» (p. 417).
Mentre la Commissione licenziava quelle pagine amare, prendeva slancio la trasformazione di Gibellina Nuova in ‘città d’arte’ sotto gli auspici del sindaco Corrao. Si trattò di un’iniziativa unica nel suo genere che nessuna delle altre municipalità del Belice volle imitare. Sebbene le vicende di Gibellina continuassero a catalizzare l’attenzione della stampa e dividere la comunità di architetti e urbanisti italiani lungo linee di frattura profonde, trasformazioni non meno vistose anche se meno note si stavano compiendo nell’intera valle. Prendevano forma 14 nuovi paesi lungo le linee progettate dagli architetti e urbanisti dell’ISES, accompagnando la popolazione verso forme di vita urbana inedite quanto a modelli di consumo, relazioni sociali e culturali. Nella nuova valle del Belice i mucchi di letame ai bordi dei villaggi raccontati dalle inchieste di Dolci e Barbera erano stati sostituiti da un moderno sistema di fognatura, le fontane pubbliche dall’acqua corrente in ogni abitazione, le stanze affollate con il pavimento in terra battuta da villette a schiera. L’automobile dominava incontrastata la mobilità, e l’autostrada, completata alla fine degli anni Settanta, connetteva i paesi della valle al resto dell’isola con una rapidità un tempo impensabile.
Anche il paesaggio e l’economia rurale si stavano trasformando profondamente. Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, grazie ai soli finanziamenti per lo sviluppo mai stanziati per la valle, la diga sul Belice fu finalmente realizzata. Si trattò di una vicenda oscura e controversa, e una fonte confidenziale interna al Ministero dei Lavori pubblici confermò nel 1976 i sospetti di infiltrazioni mafiose nella gestione dell’appalto milionario (Lettera manoscritta a L. Barbera [firmata ‘Giulio’], Milano 10.1.1976, Archivio Dolci-Barbera, CRESM Gibellina, f. II/19).
La realizzazione della diga, d’altronde, fu costellata da una drammatica serie di omicidi di mafia tra cui spicca quello del giornalista Mario Francese. Francese fu ucciso nel 1979 per aver denunciato con dovizia di dettagli il coinvolgimento dell’emergente clan dei Corleonesi nell’appalto per la diga in un reportage a puntate su «Il giornale di Sicilia». La diga e la connessa infrastruttura per l’irrigazione, sebbene completate con gli usuali ritardi e appunto macchiate da tragici omicidi di mafia, diede comunque slancio a un processo di conversione agricola già avviato prima del terremoto. Grazie anche alla nuova disponibilità d’acqua, la sostituzione delle secolari colture cerealicole con la vite e l’ulivo accelerò ulteriormente, accompagnandosi a una profonda revisione dei rapporti di produzione e delle economie agricole (Crescimanno, Fardella, Tudisca 1993).
Alla fine del 20° sec., grazie a questi interventi e trasformazioni, la valle del Belice presentava un volto radicalmente mutato. Nuovi paesi, nuovi quartieri, nuove infrastrutture e un nuovo paesaggio agricolo avevano cancellato o almeno mitigato quegli elementi di ‘arretratezza’ e ‘sottosviluppo’ su cui insistette la stampa all’indomani del terremoto e che la Commissione parlamentare d’inchiesta riconosceva ancora all’inizio degli anni Ottanta. Questo nuovo paesaggio rappresenta plasticamente la profonda frattura che il terremoto ha significato per quel territorio e per le comunità che lo abitano. Per quanto profondamente e irrimediabilmente differente, tuttavia, la valle del Belice di oggi è anche densa di tracce materiali del passato e di storie e rappresentazioni della trasformazione vissuta (Topography of trauma, 2012). Da una parte, le città e i quartieri nuovi in cui l’assenza di riferimenti al passato è iscritta nelle forme stesse dell’urbanismo e nella materialità degli edificati, dall’altra, i paesi e i siti abbandonati, oggetto dei trattamenti più diversi. Da un lato, le commemorazioni da parte degli attori locali, i ‘musei’ e ‘centri’ della memoria e i numerosi racconti degli abitanti, dall’altro, i silenzi da parte delle istituzioni che più hanno contribuito alla ricostruzione.
Burri concepì il suo Cretto come un’estrema risignificazione delle rovine in cui la trasformazione irrimediabile del centro distrutto e abbandonato avrebbe dovuto paradossalmente ancorarne il senso al momento passato e alla memoria del sisma. Per quanto importante e significativa, tuttavia, questa non rappresenta che una delle pratiche di manipolazione delle rovine che rivelano una molteplicità di atteggiamenti nei confronti delle tracce del passato. Un caso speculare e opposto è quello delle rovine di Montevago, paese che ha subito lo stesso destino di Gibellina, ovvero il trasferimento completo. Il sito abbandonato, situato all’ingresso del nuovo paese, è indicato da una segnaletica stradale del tipo riservato alle attrazioni turistiche. Le rovine di Montevago sono attualmente utilizzate come deposito di materiali di costruzione o, in alcune aree, come discarica a cielo aperto. Il paese nuovo, così, nonostante la prossimità territoriale con il vecchio sito, sembra intrattenere una relazione ambigua con le rovine. Diversamente accade a Poggioreale. I ruderi di Poggioreale (fig. 3) si raggiungono dalla stessa strada provinciale che conduce al Cretto di Burri, tra i bellissimi oliveti e i vigneti che ormai ricoprono gran parte della superficie agricola della valle. L’ingresso è protetto da un cancello per impedire l’accesso ai veicoli e una targa illustra la storia del luogo prima del terremoto, enumerando le caratteristiche architettoniche e i monumenti ospitati dal paese, con solo un brevissimo accenno al sisma del 1968 e all’abbandono successivo. Varcato il cancello, un lungo rettilineo sterrato divide due file di case in rovina con usci divelti, tetti crollati e proliferare di erbe infestanti. Le strade del villaggio sono spesso interrotte da cumuli di macerie, ma in gran parte percorribili a piedi.
Nel corso degli anni le suggestive e scenografiche rovine di Poggioreale hanno guadagnato una certa popolarità tra fotografi e documentaristi. Turisti, curiosi, e in alcuni casi emigranti di ritorno nella valle per brevi visite hanno frequentato più o meno clandestinamente le rovine per anni, nonostante il divieto di accesso posto inizialmente dal comune (M. Pintagro, Nel Belice il turismo delle macerie, «La Repubblica Palermo», 16 genn. 2009, p. XIV).
Il divieto è stato rimosso da pochi anni e nel 2010 Poggioreale vecchia è stata inserita nel Viaggio della memoria: un percorso turistico-culturale proposto da una rete di associazioni ed enti locali attraverso alcuni siti significativi per la storia della valle del Belice e del terremoto. Il percorso di recupero del centro distrutto sembra non fermarsi qui. Nel 2013 è stato avviato un progetto di ristrutturazione parziale del vecchio centro promosso dal comune di Poggioreale nuovo con finanziamenti del governo regionale. Il progetto mira a trasformare Poggioreale in un Parco della memoria, con strutture residenziali e ricreative ricavate dalla ristrutturazione degli edifici in rovina (P. Nicita, La sfida al terremoto, «La Repubblica Palermo», 16 genn. 2013, p. VII). Al di là del successo o meno di questo esperimento, su cui non è ancora possibile esprimersi, è evidente che a differenza di Montevago, le rovine di Poggioreale vecchio sono oggetto di un processo di riappropriazione e risignificazione in un contesto profondamente mutato.
Le rovine di Santa Margherita Belice (fig. 4) sono state fatte oggetto di un trattamento ancora diverso. Santa Margherita fa parte dei dieci comuni a ‘trasferimento parziale’, ovvero quelli in cui solo una parte del centro abitato fu abbandonata. Il sito della vecchia Santa Margherita, in realtà, è stato abbandonato quasi del tutto, ma gran parte della ricostruzione è avvenuta in aree limitrofe. Santa Margherita è forse il centro che godeva di maggiore popolarità tra quelli colpiti dal terremoto a causa del legame con lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957). Nella piazza principale del vecchio paese, accanto alla chiesa madre, sorgeva il palazzo Filangeri-Cutò in cui lo scrittore Tomasi di Lampedusa trascorse le estati dell’infanzia e della giovinezza e che servì da ambientazione alle vicende del celebre romanzo. Palazzo Filangeri-Cutò fu quasi completamente distrutto dal terremoto, ma è stato recentemente ricostruito recuperandone la facciata originale. Al suo interno sorge il Museo del Gattopardo che promuove il legame di Santa Margherita con lo scrittore e l’opera. Prospiciente il palazzo, una lapide celebra i 400 anni della fondazione di Santa Margherita, posta nel 2010 sotto gli auspici della comunità di immigrati di Santa Margherita a New York.
La piazza dove sorge palazzo Filangeri-Cutò segna anche il confine tra la nuova e la vecchia Santa Margherita. Da una parte, si stende il nuovo abitato realizzato su una zona relativamente pianeggiante secondo le linee moderniste dei progettisti ISES; dall’altra, si inerpica su una collina il vecchio abitato distrutto di Santa Margherita. In una zona di confine tra il vecchio e il nuovo limitrofa alla piazza alcuni edifici recentemente ristrutturati o ricostruiti si alternano ad altri ancora in rovina. Una parte della popolazione, così, si sta riappropriando delle rovine che sono state abbandonate per decenni, reincorporando nella ‘città nuova’ una parte della ‘città morta’ (fig. 4). All’interno della chiesa madre di Santa Margherita, collocata a fianco di palazzo Filangeri-Cutò, sono organizzate ed esposte le memorie del terremoto e della ricostruzione. Anche la chiesa madre è stata ricostruita di recente, incastonando elementi architettonici sopravvissuti al terremoto in una struttura contemporanea. Nel 2007 su iniziativa dell’amministrazione comunale la chiesa è stata trasformata in un Museo della memoria del terremoto. Il palazzo Filangeri-Cutò e il nuovo Museo del Gattopardo, la presenza delle rovine e la progressiva rinascita della città vecchia, la lapide degli ‘emigrati margheritesi’ e il Museo della memoria costruiscono un poligono in cui non solo si incontrano fisicamente il passato e il presente urbano di Santa Margherita, ma anche memorie e politiche della memoria molto diverse tra loro.
Il Museo della memoria è dedicato al recupero e alla trasmissione di quella che i responsabili chiamano la ‘memoria civica’ del terremoto. Secondo il curatore del museo, non si poteva
affidare alla Storia l’immagine e l’identità della nostra terra del Belìce attraverso una abusata idea legata ai giudizi negativi, allo spreco, allo scandalo, al sospetto, all’indignazione. Questo Museo vuole praticare e trasmettere l’esercizio della memoria per testimoniare della grandezza e della dignità della gente del Belìce che ancora oggi, dopo aver perso le case, le cose, gli affetti, rischia di perdere i segni dell’anima e della propria Memoria Collettiva (T. Bonifacio, La memoria collettiva quale valore civile, in Museo della Memoria: ricostruire, custodire e comunicare la memoria civile della valle del Belìce, 2007, p. 7).
A una narrazione percepita come esterna che insiste sugli sprechi e sui fallimenti della ricostruzione, il Museo vuole dunque opporre la memoria dei sopravvissuti, rivendicata come necessaria componente di una riappropriazione culturale da parte degli abitanti e del recupero di un’identità minacciata. Il Museo è di fatto un’esposizione fotografica permanente divisa in sezioni tematiche e accompagnata da didascalie. L’esposizione si apre con una sezione di immagini dei paesi prima del terremoto, continua con i giorni del terremoto e le operazioni di soccorso, e si conclude con le vicissitudini e le proteste dei superstiti nelle tendopoli e baraccopoli della valle. Al termine, il visitatore può visionare un breve video che ripropone la medesima narrazione con filmati e foto d’epoca. Vale la pena notare l’uso ostensivo dell’accento tonico sulla ‘i’ di Belìce in tutti i documenti del Museo, e che si ritrova nella maggior parte dei documenti su iniziative ‘memoriali’ nella valle. Questa grafia, infatti, nasconde un’interessante storia culturale. La pronuncia sdrucciola del nome Belice si affermò all’indomani del terremoto nei media nazionali a scapito della pronuncia locale che, al contrario, poneva l’accento sulla seconda sillaba. L’uso della pronuncia originaria, perciò, ha lo scopo di rivendicare e contribuire alla ricostruzione di un’identità locale che si ritiene sia stata messa in discussione dal terremoto. Secondo un docente e amministratore locale, «recuperare la memoria, l’identità, il valore dell’appartenenza, significa innanzitutto riappropriarsi dei nomi, ed è per questo che ogni buon siciliano deve dire Belìce» (F.S. Calcara, Bèlice o Belìce: le ragioni di un nome, «CastelvetranoSelinunte», giornale online, 2 giugno 2012).
La ‘memoria civile’ promossa dal Museo di Santa Margherita è concentrata sulle peripezie umane dei superstiti e sulla nostalgia di un passato perduto. Altri attori locali hanno proposto narrazioni differenti. Qualche anno dopo l’apertura del Museo di Santa Margherita, a Gibellina è stato inaugurato l’EpiCentro della memoria viva. Principale promotore e sede fisica del centro è il Centro ricerche economiche e sociali per il Meridione (CRESM), nato nel 1973 su iniziativa di Barbera e Paola Buzzola dalle ceneri dei comitati popolari del Belice, e attore importante nella promozione dello sviluppo locale. Non a caso, l’EpiCentro della memoria viva ha come scopo principale quello di rievocare le mobilitazioni popolari promosse da Dolci e dal suo gruppo nella valle del Belice prima e dopo il terremoto.
Già nel 1980 Barbera aveva raccolto e pubblicato una serie di testimonianze di abitanti del Belice attraverso cui raccontava le mobilitazioni nella valle dal 1967 fino ai primi anni Settanta (Barbera 1980). L’EpiCentro ha ripreso lo spirito e le intenzioni di quella raccolta, ampliando notevolmente il quadro temporale e le voci narranti e proponendo un’esposizione multimediale in cui foto e testi si integrano ad altri media che richiedono il coinvolgimento attivo del visitatore. L’esposizione si apre con un video della Marcia per la Sicilia occidentale del 1967, la più eclatante iniziativa dei comitati popolari prima del terremoto, e continua con fotografie, audio d’epoca e documenti d’archivio che partono dalla fine degli anni Cinquanta. A testimoniare le intenzioni militanti dell’iniziativa, l’allestimento è stato preceduto da una serie di assemblee nei comuni colpiti, finalizzate a riattivare memorie e narrazioni degli anni del terremoto e della ricostruzione. In quel contesto, e in particolare grazie al lavoro di un laboratorio di produzione audiovisuale, sono state raccolte interviste ai protagonisti delle lotte di allora o a figure in vario modo connesse a quelle vicende. Queste interviste offrono punti di vista anche radicalmente divergenti. Nell’insieme, tuttavia, restituiscono una narrazione poliedrica e vivace della lunga stagione di mobilitazione nella valle del Belice pre e postsisma. La stessa esposizione si è aperta con successo alla raccolta narrazioni individuali. Al termine del percorso i visitatori possono contribuire alla raccolta di testimonianze in un gabinetto appositamente allestito. L’iniziativa ha così consentito di dar vita a un ‘archivio orale’ in continua espansione.
La ‘memoria viva’ del CRESM è molto diversa dalla ‘memoria civile’ del Museo di Santa Margherita. Il Museo della memoria è costruito intorno a una narrazione ben precisa. I curatori dell’EpiCentro di Gibellina, al contrario, pur costruendo anch’essi una traccia narrativa forte, hanno fatto della raccolta di memorie individuali uno dei perni della struttura. Anche il passato che si vuole recuperare, d’altra parte, è molto diverso da un caso all’altro. Alla storia di un patrimonio perduto e di una sofferenza condivisa come rifondazione di un’identità comunitaria, si contrappone la storia di una mobilitazione radicale e di una protesta popolare di lunga durata. Tanto l’EpiCentro quanto il Museo, a ogni modo, sono specchio di una rielaborazione del passato che è in pieno svolgimento e che accomuna la maggior parte degli attori, istituzionali e non, della valle del Belice. Narrazioni ‘memoriali’ come quelle del Museo e dell’EpiCentro sono sostenute dalla volontà di recuperare e diffondere la conoscenza di elementi del passato per farne il perno di una rinnovata identità culturale. La ricostruzione di un’identità comunitaria e la risignificazione del passato, tuttavia, non sono le uniche ragioni dietro le iniziative in corso o in progetto. La rivitalizzazione dei luoghi del terremoto e della ricostruzione, così come la produzione di racconti, obbediscono anche alla volontà di utilizzare il passato e le memorie come elemento di promozione di turismo culturale. La maggior parte delle iniziative attuate o in progetto sono state finanziate e promosse grazie a fondi europei o regionali per lo sviluppo, e vengono proposte dagli attori locali come attrazioni per i visitatori. Di fronte al fallimento dei progetti di industrializzazione del dopo-terremoto, dunque, la promozione di un’identità culturale legata al terremoto sembra diventare una risorsa economica da valorizzare.
L’esempio più eclatante di ciò è il già citato Viaggio nella memoria, il percorso di turismo culturale nei luoghi del terremoto promosso dal CRESM, dalla Fondazione Orestiadi, e da varie amministrazioni comunali e associazioni locali (Fondazione per il Sud, Provincia regionale di Trapani), Legambiente Sicilia, Rete museale e naturale Belicina, Comune di Santa Margherita di Belice, Comune di Poggioreale, Comune di Santa Ninfa, Comune di Gibellina. Nel Viaggio nella memoria trovano posto molte sfaccettature e narrazioni anche contrastanti. I siti enumerati nella mappa proposta ai visitatori vogliono essere rappresentativi di tale molteplicità, e includono tanto il Cretto che le rovine di Poggioreale, tanto il Museo della memoria quanto l’EpiCentro di Gibellina, ma anche alcuni siti che testimoniano la storia più antica della valle. E tuttavia le geografie contemporanee del passato sono in continua evoluzione. Tanti siti, come Montevago, continuano a restare nell’ombra. Altri, come la diga Garcia, cominciano lentamente a emergere nelle nuove mappe del presente. La popolazione lottò per la costruzione della diga sul Belice per decenni e la positiva trasformazione del paesaggio agricolo e dell’economia rurale della valle del Belice è dovuta anche a quella diga. Allo stesso tempo, la sua costruzione è macchiata da una scia di omicidi di mafia culminati con l’assassinio di Francese ed è un capitolo importante nell’ascesa dei Corleonesi. Nell’estate 2013 la diga è stata dedicata proprio al giornalista ucciso dalla mafia e una targa in marmo è stata apposta sulla facciata del centro di amministrazione e controllo della diga (Agenzia ANSA, Mafia: diga Garcia dedicata al cronista Mario Francese, 24 giugno 2013). La diga Francese si è aggiunta alle mappe delle memorie antimafia. Non è ancora certo quale sia il suo posto nelle mappe della valle del Belice.
Nonostante le sofferenze e le distruzioni, l’anno del terremoto si era aperto con grandi speranze per il futuro della valle. Leggi regionali e nazionali promettevano grandi piani di investimento e sviluppo. Una ricostruzione illuminata avrebbe accompagnato la valle verso un futuro di modernità e benessere. I pianificatori dell’ISES avevano immaginato la creazione di un nuovo modello di urbanesimo che avrebbe anche orientato al meglio i programmi di sviluppo economico dello Stato e della Regione siciliana. Alla fine del secolo, il paesaggio di rovine e trasformazioni, di memorie e oblio della valle racconta una storia diversa. I nuovi paesi e quartieri e l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo sono le uniche tracce del nuovo urbanesimo a scala territoriale immaginato dall’ISES. La diga Francese, d’altra parte, è l’unico vero investimento per lo sviluppo che sia stato fatto e che abbia prodotto frutti sul lungo periodo, a dispetto della tragica storia di mafia che si cela dietro la sua realizzazione. Poco resta nella valle del Belice, insomma, dei grandiosi progetti di modernizzazione e sviluppo agitati da politici e pianificatori nel 1968 e all’inizio creduti possibili da molti superstiti.
Ciò nonostante, qualsiasi giudizio sull’evidente discrepanza tra progetti e risultati non dovrebbe prescindere da un’adeguata contestualizzazione. I progetti di industrializzazione, riforma del territorio e modernizzazione urbana elaborati all’indomani del terremoto erano pienamente coerenti con le pratiche del tempo. Nel 1968, l’apparato istituzionale dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno era al suo apice e la cultura della pianificazione economica e territoriale era diffusa trasversalmente tra le forze politiche nazionali. Non c’è da stupirsi che, di fronte alla devastazione e alle condizioni economiche e sociali del Belice al momento del terremoto, si immaginasse di intervenire con tutti gli strumenti a disposizione e nel segno di una radicale visione di riforma economica, urbanistica e territoriale. Resta piuttosto da interrogarsi sul perché, nonostante l’abbondanza di strumenti a disposizione e le vaste sintonie politiche e culturali, tali strumenti e visioni abbiano fallito in modo così evidente. Certamente ciò è in parte dovuto alla crisi della programmazione economica e dell’intervento straordinario tout court. La ricostruzione del Belice si trovò sul crinale temporale che separò l’ascesa e il declino strutturale dell’investimento pubblico e delle politiche di intervento straordinario nel Mezzogiorno venendone inevitabilmente condizionata. Se nel 1968 le aspettative sul potenziale della programmazione erano all’apice, già dal 1973 tutta la cultura della pianificazione territoriale ed economica entrò in crisi e molti ambiziosi piani di investimento formulati solo pochi anni prima vennnero seriamente ridimensionati.
Ai limiti della congiuntura, tuttavia, si aggiunsero alcune condizioni peculiari al caso. Una di queste è stata sicuramente il mancato rapporto con la popolazione locale, che pure possedeva competenze e conoscenze potenzialmente preziose per orientare la ricostruzione e le politiche di sviluppo. La popolazione e le istituzioni locali furono messe al margine dei processi decisionali almeno sino alla riforma legislativa del 1976, e i saperi e le competenze locali non furono presi in considerazione nel dibattito sugli investimenti produttivi. L’esame dei processi decisionali, d’altronde, dimostra senza alcun dubbio l’assenza di una reale volontà di investimento nella valle del Belice da parte delle istituzioni nazionali e regionali a dispetto delle promesse fatte sotto la luce dei riflettori. La valle del Belice era stata esclusa dai piani di investimento preterremoto, in quanto considerata non suscettibile di sviluppo, e questa valutazione orientò le scelte del CIPE e degli enti di sviluppo anche dopo il terremoto. Le promesse fatte dalle autorità nel 1968, e su cui gli urbanisti dell’ISES basarono i loro piani, finirono così per essere soltanto velleitarie, quando non ciniche, dichiarazioni di intenti, non sostenute da condizioni reali di possibilità.
Il dibattito su Gibellina e sul Belice ha spesso trascurato questi elementi limitando l’analisi a scelte urbanistiche o di politica culturale, che tuttavia assumono un senso diverso se inserite in un quadro più ampio. Numerosi attori locali sono attualmente impegnati nel recupero e valorizzazione di luoghi e memorie che vanno ben oltre Gibellina e la sua involontaria funzione metonimica. Qualora ci si soffermi ad analizzare più da vicino i racconti e i progetti di memorie, o gli usi delle tracce materiali del terremoto, emergono importanti differenze. Il rapporto della popolazione locale con le tracce e le storie, d’altronde, è ancora più complesso e per molti aspetti difficile da decifrare, come dimostrato, per es., dal rapporto dinamico intessuto dall’abitato di Santa Margherita con le rovine della città vecchia. La geografia di tracce e storie del terremoto e della ricostruzione apre prospettive diverse da quelle ormai cristallizzate nel dibattito pluridecennale sul Belice. Da una parte, le iniziative locali riaprono uno spazio narrativo che fuoriesce dai confini tracciati intorno allo scandalo della corruzione, allo spreco e ai fallimenti di pianificatori e istituzioni, provando in vario modo a fare delle vicende degli abitanti la chiave di una rinnovata identità culturale. Dall’altra, la rivitalizzazione delle tracce del sisma e della ricostruzione prova a stimolare lo sviluppo economico locale, in risposta alle mancate promesse di sviluppo dello Stato.
Di fronte all’attivismo degli attori locali risalta ancora di più il silenzio di quelle istituzioni che più contribuirono a determinare il corso degli eventi nel dopo-terremoto, a cominciare dalla Regione siciliana e dalle autorità statali. Con la sola eccezione dei materiali della Commissione parlamentare d’inchiesta, né la regione né le autorità governative hanno contribuito alla produzione di memorie pubbliche del terremoto. Ciò è sicuramente parte di una più generale incapacità delle autorità di articolare una memoria pubblica delle catastrofi sismiche. Vi sono inoltre le evidenti difficoltà legate al caso specifico del Belice, dove si è consumato lo scacco di un’importante stagione di interventi pubblici, programmazione economica e pianificazione territoriale. Laddove le comunità del Belice possono raccontare storie di dolore, resistenza, o riconciliazione, le autorità possono difficilmente sfuggire alla narrazione di un fallimento.
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