Bellezza
Il termine indica la qualità di ciò che appare o è ritenuto bello; è un derivato dell'aggettivo bello, a sua volta dal latino bellus, "carino, grazioso", propriamente diminutivo di bonus, "buono". La connessione tra l'idea di bello e quella di bene, suggerita dalla radice etimologica, rinvia a una concezione della bellezza come ordine, armonia e proporzione delle parti che trovò piena espressione nella filosofia greca. In seguito, la nozione di bellezza si è distinta dal concetto di bene e si è andata sempre più trasformando in categoria estetica autonoma, caratterizzata dalla capacità del bello di essere percepito dai sensi. Le nozioni di bello e di bellezza svolgono una funzione in molteplici contesti e abbracciano un campo semantico estremamente vasto, a seconda dei contenuti, delle modalità e degli ambiti culturali in cui si forma e si esprime la valutazione. Contributi interessanti per dare una risposta alla domanda 'cosa troviamo bello' sono forniti dalle ricerche di psicologia dell'arte che indagano sui meccanismi biologici, sui processi percettivi e sulle motivazioni psicologiche che regolano l'attrazione.
Noi tutti sappiamo che può diventare materia di apprezzamento estetico qualunque cosa abbia un significato personale o sociale: paesaggi, singoli animali, soggetti religiosi, eventi storici, persone che si amano, si ammirano o si detestano, composizioni di oggetti e prodotti commestibili. Molte cose si possono considerare interessanti, ma solo alcune sono intrinsecamente attraenti. Per indicarle e spiegarle, occorre guardare alla nostra struttura biologica e mentale. Ci sentiamo impoveriti se la bellezza di un viso o di un corpo non riesce a darci una profonda emozione, e troviamo difficile valutare se ci emoziona di più il ricordo di un volto visto un tempo, l'inconsapevole aderenza a modelli soggettivi o l'imperativo biologico. Quest'ultimo elemento merita di essere sottolineato, sia perché è osservabile anche negli animali, sia perché è il meno accessibile alla nostra coscienza e quindi il più sorprendente.In linea di massima, possiamo affermare che l'attrazione visiva serve ad avvicinarci agli altri, o per lungo tempo, come nel caso dell'interesse del bambino per la madre, o per un periodo variabile, come nella reciproca passione tra innamorati.
È bene partire dai bambini perché le argomentazioni hanno qui la massima evidenza e le implicazioni un chiarissimo carattere biologico. I bambini possiedono propri modelli visivi di bellezza: preferiscono volti di donne attraenti. Bambini di due o tre mesi, messi di fronte a due fotografie femminili, si soffermeranno più a lungo sul volto di maggior fascino (Langlois 1987). Tale reazione è immediata ed evidentemente innata: un bambino reagisce allo stesso modo sia che abbia una mamma graziosa, sia che ne abbia una meno bella. E i criteri sono assolutamente universali: i bambini operano tali distinzioni anche tra volti di uomini, di donne di razza diversa dalla propria e di altri bambini. Va notato che piccoli e adulti concordano su ciò che è bello: in considerazione di ciò, per definire un viso attraente ci rifacciamo alla definizione di un adulto.Se i bambini distinguono tra le facce degli adulti, questi ultimi fanno altrettanto con quelle infantili. Che siano genitori o no, essi si soffermeranno più a lungo su fotografie di bambini carini, dotati cioè di fronte, occhi e pupille grandi e, per il resto, di lineamenti minuti e delicati. La faccia 'ideale' di un bambino è in qualche modo l'opposto di quella di un adulto, ed è questo che accentua il richiamo biologico: i tratti infantili suscitano, infatti, nell'adulto lo stimolo ad accudire e ad allevare. L'attrazione, a quanto sembra, da una parte favorisce l'affetto del bambino per la madre, dall'altra rafforza il legame e l'istinto protettivo della madre e del padre nei confronti del bambino. Le cose si fanno più complesse nel mondo degli adulti. In genere, consideriamo l'attrazione un meccanismo di selezione del partner e riteniamo che abbia un fine biologico. Uno scopo, comune a tutte le specie, è il bisogno di trovare individui robusti in grado di sopravvivere alla competizione e di trasmettere ai discendenti i loro geni. In certe specie la robustezza è chiaramente visibile e si manifesta, soprattutto nei maschi, nella grande corporatura; essa verrebbe così a essere una componente dell'attrazione. Ma si è notato che la corporatura non è affatto l'unica qualità in grado di esercitare un fascino. Perfino in classi distanti da quella dei Mammiferi, come gli Insetti, la simmetria ha un valore altrettanto rilevante. La ragione non è estetica, ma biologica, perché la simmetria - non solo dell'intero corpo, ma anche delle sue parti insignificanti - è, per gli Insetti, una chiara manifestazione di robustezza. Così, anche le macchie sui baffi del leone, se sono disposte simmetricamente, indicano vitalità (Watson-Thornhill 1994) ed è presumibile che vengano notate dalle leonesse e che esercitino un fascino su di loro.Negli esseri umani la simmetria ha un'importanza analoga, ma si sono tratte conclusioni diverse sul suo scopo biologico. In effetti la simmetria è stata considerata il prodotto secondario di un processo visivo più sostanziale, volto a identificare gli esemplari più tipici della specie.
Alcune ricerche sull'attrazione esercitata dal volto umano inducono a ritenere che siano i tratti centrali o intermedi a essere attraenti e che è possibile crearli in laboratorio unendo insieme un certo numero di facce individuali. In genere le persone interpellate preferiscono questi visi agli originali imperfetti che ne sono alla base (Langlois-Roggman 1990). Da questi risultati si è portati a concludere che la preferenza per i valori intermedi ha per la specie un'utilità che va al di là del bisogno individuale di trovare un partner robusto, essendo finalizzata a restringere il patrimonio genetico e a escludere quanto più possibile varianti potenzialmente nocive. Ma prima di giungere a tali conclusioni, bisognerebbe anche ricordare che gli studi hanno a volte dimostrato come una faccia individuale piaccia di più di quella ottenuta operando una media (che in altre ricerche risulta la più facilmente soggetta a essere dimenticata). Ciò induce a pensare che il processo di selezione mascheri alcune qualità umane più vicine a un ideale che a una media. Per dirla in termini meno astratti, il viso attraente, ma medio, è come quello della ragazza della porta accanto, desiderabile, ma banale, mentre esiste un ideale più alto che è possibile sognare, anche se difficile da incontrare. L'effettiva esistenza di un ideale è dimostrata da una piccola modifica al metodo descritto.
Studiando un vasto campione di facce, possiamo elaborare una media tanto dei tratti più comuni quanto di quelli più attraenti. In quest'ultimo caso, la media specifica così ottenuta eserciterà un'attrazione maggiore rispetto a quella generale. Si può andare oltre: possiamo costruire una faccia ancora più ideale, accentuando le differenze tra la media generale e la media specifica e il risultato che otterremo sarà ancor più attraente (Perrett-May-Yokishawa 1994). Possiamo concludere che esiste tra i visi un'attrazione esercitata tanto dalla media, che potremmo chiamare 'archetipa' (Martindale 1988), quanto dall'ideale. Per comprendere il significato di una tale affermazione è naturalmente necessario un ulteriore approfondimento: per es., specificare meglio le caratteristiche dell'astrazione, studiare l'aspetto ideale maschile, separare i bisogni riproduttivi dagli altri, analizzando tra l'altro i criteri della bellezza anche tra i gay e le lesbiche e così via.È possibile specificare ulteriormente i meccanismi dell'attrazione in riferimento alle differenze tra i sessi: la forza, per es., è considerata una componente dell'attrazione esercitata dal volto maschile e non da quello femminile. Possono esserci almeno due tipi di uomini attraenti: quelli 'carini' e quelli 'rudi'. Alle donne piace nei maschi un mento marcato, mentre agli uomini nelle femmine uno delicato. Entrambi i sessi prediligono occhi grandi e zigomi sporgenti. Sia nelle donne, sia negli uomini gli occhi grandi possono indicare giovinezza e fragilità e gli zigomi sporgenti maturità; ma le donne piacciono di più quando sono giovani e gli uomini quando sono maturi (Cunningham, Barbee, Pike 1990).
È evidente che i parametri dell'attrazione non sono unici, ma molteplici, e che possiamo imbatterci in un'ideale fusione, che appare diversa per ciascun sesso, di fanciullezza e maturità, qualità che, tra parentesi, hanno un carattere non intermedio, ma spesso estremo.Vorremmo avere una comprensione almeno altrettanto buona della bellezza dell'intero corpo, ma la nostra conoscenza è ancora tutt'al più parziale. Nonostante i consensi che riscuotono i concorsi di bellezza, le pubblicità dei costumi da bagno e le riviste per soli uomini, la nostra conoscenza del corpo femminile non va oltre gli aspetti più ovvi e banali, e ancora minore è quella del corpo maschile. Restano ancora da effettuare serie ricerche in proposito, vuoi perché il corpo femminile è stato sempre nascosto agli occhi altrui o circonfuso da un'aura celestiale, vuoi perché quello maschile ha fatto la sua pubblica comparsa solo per un breve periodo, nell'antica Grecia, vuoi perché il nostro puritanesimo rende difficili gli studi sul corpo nelle università. Non mancano davvero studi su come abbellire o addirittura alterare il corpo con i vestiti, ma essi riguardano un campo del tutto diverso (Rudofsky 1974).
Uno studio sull'attrazione esercitata dal corpo femminile (Wiggins-Wiggins 1969) merita comunque di essere citato perché ci permette di analizzare la rilevanza della personalità del maschio che l'osserva e lo giudica. Una complessa analisi delle preferenze maschili per i diversi tipi di donna ha permesso di individuare varie categorie di osservatori. Di esse, tre sono indicative: la prima, che raggruppa soggetti gioviali, socievoli ed efficienti, preferisce il genere 'reginetta del college', con grande seno, natiche contenute e gambe di medie proporzioni; la seconda, rappresentata dal tipo ascetico, conciliante e altruista ('apollineo'), preferisce donne con seno e gambe di dimensioni contenute e natiche piccole; c'è infine lo stereotipo a tutti familiare, l'esibizionista sicuro di sé, fumatore e bevitore, fortemente identificato con la figura paterna, che ama le donne dal seno opulento e ammette spontaneamente di leggere riviste per soli uomini. Studi tipologici di questo genere possono contribuire a evidenziare i bisogni personali appagati da una particolare immagine femminile. Il terzo tipo, quello più maschile, sembra attirato dal seno prosperoso non perché questo suggerisca l'idea del nutrimento, ma perché concorre a esaltare e rafforzare la propria mascolinità. Questa conclusione non è definitiva, ma indica le ampie possibilità insite in uno studio più approfondito dell'argomento.Tali ricerche non escludono l'esistenza di un unico ideale condiviso dalla maggior parte degli esseri umani; la verità è che non lo si è cercato (forse perché nessuno ha fornito una convincente trattazione evolutiva). Ci sono tutte le ragioni per credere che sia ancora possibile arrivare a comprendere meglio l'amore della nostra specie per la bellezza, così profondamente soffocato dal senso di colpa e imbalsamato sotto i vestiti.
Se la psicologia moderna non è all'altezza del compito, non resta che guardare alla storia antica dove troviamo un atteggiamento verso il corpo che appare strano alla sensibilità moderna: la bellezza del corpo è intesa come materia di proporzioni matematiche, da assaporare in termini formali anche quando fa appello alla nostra passione. È paradossalmente proprio il corpo a introdurci nella trattazione della bellezza della forma astratta.
La fortuita conservazione di un reticolo a quadri sovrapposto a figure a grandezza naturale nei bassorilievi egizi rivela un antico canone matematico dell'ideale fisico: il corpo è composto di parti in rapporti fissi tra loro. Siamo lontanissimi dalla capacità dell'uomo del Pleistocene di osservare il corpo nel suo stato naturale, non idealizzato e perfettamente funzionale (Duhard 1991) e dalla maestria degli artisti cicladici di darne una raffigurazione completamente astratta (Doumas 1983). Ci troviamo invece qui in presenza di uno dei due sistemi inventati dagli antichi egiziani che ordinano e regolano nel momento in cui rappresentano e descrivono. Il primo dei due sistemi (Iversen 1955) risale alla XII dinastia e si basa su un'altezza complessiva di 18 quadrati; l'altro più tardo, che viene ad affiancarsi al precedente a partire dalla XXVI dinastia, si fonda su un'altezza di 21 quadrati. Non sappiamo se questi canoni servissero a stabilire soltanto una corretta proporzione oppure anche un'ideale di bellezza e sensualità, come in seguito in Grecia, ma è certo che essi erano alla base delle misure architettoniche e del suolo: l'unità di misura era il cubito, sia il cubito 'piccolo' (la lunghezza dell'avambraccio dal gomito interno fino alla punta del pollice) sia quello 'reale' (l'avambraccio fino all'estremità del dito medio). A causa dell'implicita semplicità dei rapporti adottati, il sistema più antico si avvicinava maggiormente alle proporzioni attuali del corpo umano, un paradosso tipico dell'antico Egitto, dove il conflitto tra la figura osservata e la forma geometricamente calcolabile, benché parte di un unico sistema di conoscenza, era risolto a favore della geometria.
Possiamo supporre che i greci conoscessero il canone egizio, ma, almeno dalle loro rappresentazioni figurative, appare chiaro che essi crearono sistemi propri e che li usarono per esprimere finalità morali ed estetiche più complesse (Clark 1959). Il grande Policleto (5° secolo a.C.) è stato il principale assertore di quel tipo di proporzione ed equilibrio chiamato simmetria o 'commensurabilità delle parti'. In un suo famoso trattato, noto con il titolo di Canone, ha descritto come conferire simmetria al corpo umano nella scultura (Pollitt 1972). Il Canone non ci è pervenuto, ma dalle opere di Policleto e dalle loro copie si intuisce quanto i suoi calcoli debbano essere stati esatti, eleganti e raffinati. La figura è colta in un atteggiamento in bilico tra la posizione eretta e quella in movimento, e le parti che la compongono si articolano in un sistema che sembra definitivo, tanto soddisfacente è la soluzione da lui offerta al problema della proporzione. Il suo canone geometrico, qualunque esso sia, è più intuito che concepito con chiarezza e non può non sorprendere l'affermazione di Policleto che un'opera ben fatta è il risultato di numerosi calcoli, eseguiti con assoluta esattezza. Dal nostro punto di vista è irrilevante che altri scultori greci abbiano mostrato, rispetto a Policleto, una maggiore indipendenza dai calcoli matematici, che alcuni artisti abbiano alterato le sue proporzioni e che l'uomo vitruviano, ridefinito da Leonardo da Vinci, sia il prodotto di un sistema e di una sensibilità ancora diversi.
Ciò che preme a chi studia le origini psicologiche dell'arte è che il nostro più profondo e appassionato interesse per il corpo coincide facilmente, e a volte è perfino subordinato, a un sistema parallelo di forme e proporzioni concettuali e matematiche. Non siamo in grado di dire cosa venga prima, ma sappiamo che tra l'uno e l'altro può intercorrere un nesso impercettibile.Veniamo, dunque, inesorabilmente sospinti verso un sistema astratto di proporzioni. Di tutti i rapporti aritmetici in grado di suscitare un senso estetico, la sezione aurea è quella più famosa ed elegante. Essa si basa solo su due grandezze diverse, a e b, il cui rapporto equivale a quello che intercorre tra la grandezza maggiore e la loro somma: a:b=b:(a+b). La sezione aurea è l'espressione ideale dell'unità all'interno della differenza, e rivela la sua sintonia con la natura, comparendo nella spirale logaritmica della conchiglia e nel rapporto fra le spirali, in senso orario e antiorario, del girasole (Lawlor 1982). La possiamo rendere graficamente con un rettangolo i cui due lati sono in rapporto aureo. La questione per gli psicologi è se l'eleganza matematica si accoppi con l'eleganza visiva e ne risulti potenziata, se, insomma, l'intuito confermi il calcolo.
Gli storici dell'arte hanno creduto di vedere la sezione aurea in molte sculture e pitture, ma per riuscire a individuarla hanno dovuto tracciare sulle figure linee di ogni tipo, che a un osservatore imparziale appaiono del tutto arbitrarie. Il padre dell'estetica sperimentale, G.Th. Fechner (1897), non si è invece lasciato scoraggiare da questi giochi di prestigio e si è posto la domanda se, potendo scegliere liberamente, si sarebbe comunque considerato il rettangolo della sezione aurea come il più bello in assoluto. Questo è ovviamente diventato il metodo standard dell'estetica psicologica ed è stato messo in pratica. L'infaticabile Fechner ha continuato le sue ricerche domandandosi se alla sezione aurea sarebbe ugualmente andata la preferenza tra linee incrociate, linee divise da un punto, ellissi e altre figure. Egli è arrivato perfino a calcolare la frequenza con cui tale sezione ricorre tra i rettangoli oggi di uso corrente: quadri, carte da gioco, biglietti da visita, pagine di libri ecc. Ma, ahimè, i risultati sono stati qui meno omogenei: i rapporti dei lati di un rettangolo sembrano rispondere più all'uso pratico dei vari oggetti che non all'attrazione esercitata dalla sezione aurea. Dai risultati delle ricerche di Fechner si può trarre un chiaro insegnamento: sebbene la sezione aurea abbia una sua effettiva bellezza non se ne può supporre un uso universale o anche solo frequente. Certamente esercita il suo fascino nel caso in cui si accorda a uno scopo pratico, ma a dirci quando usarla sarà l'intuito, il mestiere, l'arte, e non la scienza.
È possibile analizzare i rapporti estetici dal punto di vista opposto. Partendo dalle forme che appagano il nostro senso estetico, possiamo cercare di darne una descrizione matematica. Il matematico americano G.D. Birkhoff (1933) ha adottato questo metodo nel suo studio sulla qualità delle forme semplici nelle arti visive e musicali, partendo dall'assunto matematico che la qualità (o la misura estetica) di un'opera è il rapporto tra il suo principio ordinatore e la sua complessità. L'assunto sembra a tutta prima giusto, in quanto la complessità, intesa come il numero degli elementi che costituiscono un oggetto estetico, deve essere in qualche modo subordinata a un principio ordinatore e quanto è maggiore il grado di ordine, tanto più soddisfacente è il risultato. Per verificare l'assunto, occorre tradurlo in una formula abbastanza rigorosa, e Birkhoff ha provveduto a farlo con una certa audacia. Supponiamo di guardare un vaso cinese: possiamo calcolare i rapporti fra le sue diverse larghezze (la bocca, il collo, il diametro più ampio e la base), le altezze delle sue varie parti (il collo, la distanza dal punto più ampio all'estremità superiore e inferiore), l'angolo delle sue curve e così via. Diamo un punteggio alto ai rapporti semplici e uno basso a quelli complessi, dividiamo per il numero degli elementi presi in considerazione e aspettiamoci valori più elevati per i vasi la cui bellezza è inequivocabile. Ma abbiamo così stabilito un metro di misura della qualità estetica? Agli incessanti sforzi di Birkhoff di saggiare tutti i limiti della sua teoria dobbiamo una conclusione più pertinente: siamo costretti ad ammettere che la sua formula ha un valore limitato, perché quando egli costruisce nuovi vasi su pure basi matematiche, il risultato non risponde necessariamente alle attese. Non si può, però, essere troppo severi: Birkhoff aveva ragione nell'avvertire la qualità di questi vasi e nel mettere in rilievo che essa è un fatto puramente formale. Ma resta ancora il dubbio se sia riuscito a descrivere la forma in modo adeguato e se ciò sia mai possibile facendo ricorso a formule matematiche (per una revisione della formula di Birkhoff, v. Eysenck 1981).
Quando parliamo della forma dobbiamo tener conto anche del colore e porci la stessa domanda: ci sono colori più attraenti di altri? I numerosi studi in proposito di H.-J. Eysenck (1981) suggeriscono una risposta inequivocabile. Indipendentemente dal sesso, dalla razza e dall'origine etnica, l'ordine di preferenza dato a sei colori (tre primari e tre secondari) risulta essere questo: azzurro al primo posto, poi, in successione, rosso, verde, viola, arancione, giallo. Qualunque sia in questi colori la proprietà a cui reagiamo - la luminosità, la lunghezza d'onda o altro ancora - l'attrazione che essi esercitano è universale e radicata nella natura umana. E se qualcuno dovesse obiettare che i colori sono in genere visti e percepiti non singolarmente, ma in gruppo, c'è una risposta altrettanto chiara: sono preferite le combinazioni cromatiche complementari, quelle cioè formate da colori ai punti opposti della scala cromatica.
Ma l'interesse dello psicologo per la forma può essere molto più complesso, come dimostra l'analisi percettiva della forma condotta da R. Arnheim (1974). Egli non s'interroga sul godimento o sugli oggetti, ma sulla distribuzione delle forze entro un campo visivo e sul loro effetto globale rispetto alla percezione. Partendo dall'assunto della psicologia della Gestalt, secondo cui tutti i processi percettivi mirano ad assumere una struttura organizzata, e dal corollario per il quale tale struttura tende a semplificarsi, per quel che permettono le condizioni, Arnheim è in grado d'individuare i processi che governano il godimento estetico che si trae dalla forma. In altre parole, per Arnheim il piacere estetico coincide con il piacere che deriva dall'equilibrio delle forze visive. Egli può così spiegare, per es., la 'giustezza' della collocazione del rosone nella facciata della cattedrale di Notre Dame di Parigi, o l'armonioso movimento in avanti e indietro di un cavallo e di un cavaliere in un dipinto di H. de Toulouse-Lautrec, o la distribuzione delle tensioni in un quadro di P. Cézanne.
Arnheim va oltre la questione dell'equilibrio, per quanto importante possa essere, arrivando ad analizzare la nostra percezione della figura, dello spazio, della luce, del colore, e perfino dell'espressione, sulla base della tendenza alla semplicità nell'organizzazione visiva. L'espressione o il significato sono definiti in termini visivi piuttosto che emozionali: il senso intrinseco o l'attrazione degli oggetti in sé stessi, in quanto corpi o volti belli, conta assai poco perché l'organizzazione è tutto. Come esempio possiamo mettere a confronto due nature morte, una di Cézanne, l'altra di P. Picasso. L'accentuazione dei contorni degli oggetti evidenzia nella prima un sereno equilibrio, nell'altra un'irrequieta agitazione, e ci fa comprendere dove risieda il vero fulcro dell' espressione.Il merito di Arnheim è di aver riformulato i termini della discussione: siamo passati dall'analisi dell'attrazione degli oggetti e dal calcolo delle sue misure matematiche, all'attenzione per il processo percettivo. Lo studio di Arnheim, per quanto rilevante in sé stesso, concorre anche a riportare la bilancia in equilibrio, introducendo la dimensione fenomenologica e interiore in ciò che abbiamo finora analizzato in modo oggettivo ed estrinseco. Questo processo, come vedremo, culmina in un fermo e rigoroso riconoscimento della sfera soggettiva, vale a dire nello studio del ruolo svolto dalla personalità. Ma Arnheim, da parte sua, non intende enfatizzare la dimensione soggettiva: i suoi processi di percezione, seppure interiori, conducono a una chiara e trasparente concezione che si potrebbe definire oggettiva.
Una diversa concezione dei processi interiori può lasciare molto spazio alla dimensione soggettiva, anche se solo in modo implicito. Si tratta di una teoria che dà forte risalto al livello individuale di tensione. Gli oggetti artistici, in quest'ottica, diventano attraenti o interessanti per l'effetto che esercitano sul livello di tensione, alzandolo o abbassandolo a seconda delle circostanze. Questa concezione tiene conto dei diversi cambiamenti di gusto di cui tutti noi facciamo esperienza nel tempo e delle differenze di senso estetico tra vari osservatori. (Va anche notato che tale teoria viene applicata alle opere d'arte e non alle figure biologicamente attraenti). Sebbene il suo principale esponente sia lo psicologo sperimentale D.E. Berlyne, i lettori che hanno familiarità con la psicologia riconosceranno le radici di tale teoria nel risalto che in S. Freud assume la riduzione della tensione individuale.
Per Berlyne (1971), un oggetto artistico diventa interessante quando porta la nostra tensione al livello ottimale, e metro di misura di tale azione stimolante può essere tanto la novità quanto la complessità dell'oggetto. La novità attenua la noia e la complessità eccita le nostre facoltà percettive e cognitive: in entrambi i casi il risultato è lo stesso.Nonostante la sua linearità e il numero dei suoi sostenitori, è difficile dimostrare tale teoria: la novità e la complessità, che notoriamente sfuggono a ogni definizione, sembrano troppo facilmente soggette all'influsso dei cambiamenti del contesto generale. Ma la teoria conserva comunque un certo valore, che risulta evidente soprattutto quando si studiano persone il cui livello di tensione ci è noto in precedenza. Individui abitualmente o momentaneamente irrequieti vanno alla ricerca di un'arte distensiva, mentre persone tranquille sono attratte da un'arte eccitante. E nell'ambito della pittura emerge di norma la tendenza a preferire un'arte rasserenante, o poco problematica: le raffigurazioni realistiche o impressionistiche sono in genere le più popolari.
Nella sua ricerca dei principi che regolano l'attrazione, la psicologia dell'arte non può non tendere a un riconoscimento della sfera soggettiva e individuale. Come abbiamo visto, l'attrazione universale esercitata dal volto umano, e quella probabilmente altrettanto universale prodotta dalla forma armoniosa, non valgono per l'opera d'arte complessa: nell'arte l'attrazione risulta da una combinazione di stati interni e di qualità esterne. Viene così a essere introdotta e rivendicata la varietà individuale, espressa con assoluta chiarezza nel concetto di personalità, che è qualcosa di più di uno stato interiore, è piuttosto una struttura stabile, ha radici nella storia individuale di ciascuno, capace di agire e reagire in un certo modo.Non tutti intendono la personalità come una struttura; spesso il termine è usato per indicare semplicemente qualsiasi differenza individuale. Possiamo inglobare senza difficoltà le due accezioni e correlare alcune delle differenze più semplici a variabili che abbiamo già esaminato. È, dunque, possibile mettere in rapporto l'estroversione o l'introversione, che secondo Eysenck sono alla base della personalità, con scelte estetiche che dimostrano come gli estroversi preferiscano le fotografie luminose e solari, l'arte moderna (ribelle e dissidente) e i colori brillanti - tutti oggetti estetici stimolanti -, mentre gli introversi sono attratti da quanto non ha tale carattere.
Alla base di queste preferenze ci sarebbe l'effetto stimolante: gli estroversi, probabilmente meno stimolati nel loro intimo, cercano all'esterno una molla più forte, mentre gli introversi, già sufficientemente stimolati, se ne ritraggono.Si sono studiate molte altre differenze individuali, ed è difficile stabilire se certune siano più importanti di altre; tuttavia, a fondamento di alcune di esse sembra esserci l'antitesi inibizione-espressione. Si può affermare che la coscienza, o il Super-Io, è più forte nelle persone inibite, mentre è più debole in quelle espressive, ed è quasi universalmente accertato che i soggetti inibiti amano l'arte meno stimolante ed espressiva. Va notato che le conclusioni, tanto di Eysenck quanto di altri studiosi (Machotka 1979), suggeriscono una visione quasi fisiologica delle differenze individuali.La teoria della personalità può scegliere però un indirizzo molto più funzionale: un indirizzo cioè assai più vicino alla pratica clinica e all'ottica psicodinamica, che riconduce le radici delle scelte estetiche alla dottrina psicanalitica. In questa visuale la personalità si configura, in sostanza, come un'interazione dinamica tra i nostri bisogni e le nostre difese, tra i nostri impulsi e le nostre numerose possibilità d'inibirli. I gusti estetici, da questo punto di vista, possono servire a soddisfare i propri impulsi o a salvaguardare le proprie difese, o, più probabilmente, a stabilire un compromesso individuale tra questi due poli.
Espressa in tali termini, la concezione psicodinamica della personalità non è incompatibile con quella sostenuta da Eysenck, ma è, in realtà, più complessa. Se teniamo conto del fatto che le difese dell'Io sono molte e che la loro configurazione definisce l'individualità della persona, allarghiamo considerevolmente la nostra comprensione del gusto estetico. N. Holland (1975), in un attento studio su cinque individui, ha dimostrato che il modo in cui ciascuno di essi reagisce a una breve storia riflette intimamente le strutture difensive del proprio Io. La lettura fornita, con tutto il disinteresse per alcuni aspetti della storia e l'eccessiva attenzione per altri, è parte integrante del modo in cui ciascuno di essi pensa, sente e reagisce normalmente. Sembrano davvero esserci tante storie quanti sono i lettori.Una forte attenzione alla personalità può far nascere in alcuni l'idea di una soggettività caotica nell'approccio all'arte. Ma non è esattamente così: assumendo un punto di partenza leggermente diverso - per es. cercando ciò che unisce le persone interessate a certi aspetti dell'arte - emerge un chiaro ordine all'interno della soggettività. Lo dimostra il nudo nell'arte: l'attrazione che esercita segue un chiaro modello anche quando è studiata da un punto di vista psicodinamico.
La chiarezza nasce dal contrasto: se si scelgono come soggetti di studio individui che mostrano marcate antinomie nelle loro preferenze - nel nudo, dove, per es., c'è chi predilige l'idealizzazione e chi la rifiuta, chi ama pose pudiche e chi esibizioniste - riscontreremo un modello psicodinamico perfino nella metodica clinica.Alcuni di questi modelli, infatti, sono stati individuati (Machotka 1979). Si nota un interesse al nudo idealizzato in soggetti che accettano gli schemi di comportamento loro imposti dai genitori e che sono sensibili al benessere del proprio corpo. Nel nudo idealizzato vengono così a personificarsi la virtù umana e l'integrità fisica, e l'interesse che se ne prova serve ad ampliare la propria usuale strategia di idealizzazione. La preferenza per i nudi esibizionisti è volta a ribadire il rifiuto attivo delle proibizioni concernenti la sessualità e l'esposizione fisica, mentre la predilezione per i nudi pudichi conferma l'accettazione di tali divieti. L'interesse per i nudi sentimentali aiuta a far fronte alla paura della perdita d'amore e all'incapacità di sopportare stati depressivi, mentre il rifiuto del sentimentalismo rappresenta un'attiva esplorazione della sfera della sofferenza e dell'angoscia, al fine di padroneggiarle meglio.Questi non sono che alcuni esempi fra un grande numero di modelli, sufficienti però a illustrare la conclusione suggerita dagli studi psicodinamici: inclinazioni estetiche forti e pressoché esclusive rafforzano il proprio stile difensivo o imitativo. Niente lo dimostra più chiaramente dell'interesse per il nudo in quanto tale (Machotka 1979). Esso è particolarmente presente in persone inibite nell'espressione degli affetti e nella sfera dell'intimità, ma che considerano il sesso un simbolo di rivolta contro l'inibizione. In questo modo tali soggetti sopravvalutano la rappresentazione simbolica di ciò che desiderano, ma che non riescono a raggiungere.Gli studi sulla personalità hanno contribuito alla conoscenza di ciò che è attraente nell'arte e hanno messo in rilievo il modello di bisogni e d'inibizioni presente nell'osservatore.
Va, comunque, notato che tali modelli sono visibili solo in individui con un ristretto numero di preferenze e non sappiamo ancora quali potrebbero essere in persone con gusti più ampi ed estesi. Tali studi concorrono peraltro a unire l'universale al particolare: se concepiamo l'universale attraverso bisogni biologici e strutture mentali comuni, cogliamo il particolare in virtù del suo rapporto con la personalità.
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