BELLINI, Giovanni, detto Giambellino
Nacque a Venezia attorno al 1427, stando al Vasari, che lo dice morto novantenne nel 1516.
La questione ha dato luogo peraltro a differenti opinioni, fondate su interpretazioni contrastanti dei documenti. Il Fiocco (1949), infatti, propone che il testo del Vasari sia mteso letteralmente e che Giovanni sia il primogenito di Iacopo Bellini, nato peraltro al di fuori del matrimonio con Anna Rinversi, da cui nel 1429 sarebbe poi nato Gentile. Che Giovanni sia figlio naturale di Iacopo apparirebbe confermato dal fatto che Anna nel testamento del 1471 cita soltanto Gentile. Per la tesi contraria, a favore della primogenitura di Gentile, si ricorda invece l'iscrizione nella pala del 1460 per la cappella Gattamelata al Santo di Padova (perduta), dove Iacopo si firmava con i figli nominando per primo Gentile; inoltre, il Frizzoni (1884) scoprì un manoscritto di Francesco Negro, anteriore al 1521, in cui Gentile è definito "maggiore di età" di Giovanni. La questione della nascita del B. deve pertanto essere lasciata aperta, ancorché appaia probabile il fatto che fosse figlio naturale, e come tale disconosciuto dalla moglie legittima di Iacopo.
Poco rilevanti sono i documenti relativi alla biografia del Bellini. Compare come testimonio per il notaro Giuseppe Moisis il 2 apr. 1459, ed abita a S. Lio; nel 1460 la firma sulla pala Gattanielata conferma l'attività comune col padre e col fratello; il 24 apr. 1470 assume l'impegno di dipingere il Diluvio universale per la Scuola di S. Marco, ma non esegue l'opera; il 28 ag. 1479, partendo Gentile per Costantinopoli, gli subentra nel compito di restaurare e rinnovare le pitture del salone del Maggior Consiglio in Palazzo ducale: dipende probabilmente da tale sua attività la nomina a pittore ufficiale della Signoria assunta il 26 febbr. 1483 col godimento della "senseria" del Fondaco dei Tedeschi e esenzione da obblighi verso la Fraglia dei pittori. Il 30 giugno 1483 Gaspare Trissino di Vicenza gli fa pagare una Resurrezione per il duomo della città; nel 1484 è confratello della Scuola Grande di S. Marco; il 30 luglio 1485 garantisce la dote della moglie: abita a S. Marina; nel 1488 lavora con Gentile ai dipinti nella sala del Maggior Consiglio; riprende quel lavoro nel 1492; dal 26 nov. 1496 fino al 1502 tiene un fitto carteggio con Isabella Gbnzaga, a proposito di un quadro che doveva dipingere per lo "studiolo" di Mantova; dopo una discussione sulla scelta del soggetto che Isabella vorrebbe fosse tratto dalla mitologia, alla fine il pittore riesce a fare accettare la sua proposta per una Madonna col Bambino, s. Giovanni e s. Gerolamo, consegnata soltanto nel luglio 1504. Nel 1505 il Bembo tratta in nome di Isabella per ottenere un secondo dipinto, mai consegnato; nel 1506 il Dürer scrive al Pirckheimer che l'unico pittore di genio a Venezia è il B.; nel 1507 egli torna a dipingere nel Maggior Consiglio, insieme con Vittore Belliniano e con il Carpaccio e s'impegna a terminare la Predicazione di s. Marco ad Alessandria (Milano, Brera), rimasta interrotta alla morte di Gentile, dal quale eredita i libri di disegni di Iacopo. Il 4 luglio 1515 s'impegna a dipingere il Martirio di s. Marco per la Scuola omonima, che fu interrotto dalla morte. Il 29 nov. 1516 M. Sanuto annota nei suoi Diarii che il B. era morto quella mattina, quando "cuxi vechio come l'era, dipenzeva per excellentia".
Il B. appartiene alla stessa generazione di Mantegna, di Bartolomeo Vivarini, di Antonello da Messina: la prima grande generazione del Rinascimento a nord di Firenze. Mentre, giovanissimo, si apriva al primi rudimenti dell'arte, ebbe a maestri non soltanto il padre Iacopo e il grande Antonio Vivarini, ma anche i famosi toscani, presenti a Venezia e a Padova, dal Lippi ad Andrea del Castagno, da Paolo Uccello allo stesso Donatello. Singolare e felice coincidenza, che gli offrì d'un tratto la possibilità di aprirsi alle nuove voci dell'umanesimo figurativo, superando i limiti ormai angusti di una tradizione gotica, che a Venezia tardava a morire.
Non è facile rintracciare i segni di tali inizi nelle primissime opere del B., di data incerta ma di unanime attribuzione. Il suo capitolo giovanile è anzi tuttora un problema aperto nella sua storiografia critica, sempre ardua per l'eccezionale vitalità poetica del personaggio. In ogni caso, poiché indubbiamente si debbono porre gli inizi del B. in un'epoca attorno al 1445, cioè praticamente avanti lo stesso Mantegna (che già prima di sposare nel 1453 la sorella del B., Nicolosia, ne era diventato compagno d'arte), possiamo ritenere con fondamento che prime sue opere siano quelle, di assai incerta fatiura, ma spesso firmate, in cui ancora non è traccia evidente della vicinan za del Mantegna. Ci riferiamo alla Madonna nel Museo Malaspina di Pavia, ancora ispirata aprototipi di Iacopo, e al S. Gerolamo di Birmingham (Barber Institute of Art) di una schematica castigatezza, che rammenta da vicino le predelle di Iacopo, del tipo di "quelle di Padova e del Correr. Né si può negare alla Madonna Malaspina quel tanto di soave disegno vivariniano, che può ben rintracciarsi anche in opere come la S. Orsola e le compagne delle Gallerie di Venezia, che, se pur è discutibile nella sua autografia, è forse derivata da un prototipo belliniano anteriore all'anno 1450, aderente a quello spirito e a quel linguaggio.
Certo, la grande scoperta del B. fu Padova, centro allora di artisti rinnovati nell'ambiente dei toscani e degli stessi padovani, come lo Squarcione e il Pizzolo. Non è ancora stata reperita una sufficiente documentazione filologica e critica, per poter stabilire l'esatto percorso di questa fondamentale seconda stagione belliniana, che si svolge nel sesto decennio del secolo in parallelo a quella del suo coetaneo Mantegna dal 1448 (affreschi degli Eremitani) fin verso il 1459 (pala di S. Zeno e partenza da Padova). Par logico che nel catalogo del B. vengano comunque prima, a partire dal 1450, opere come la Madonna Davis del Metropolitan Museum di New York, o la Madonna Kessler del Rijksrnuseum di Amsterdam: entrambe donatelliane nella tipologia e nella plasticazione a rilievo energico, sottolineate da luministiche profilature. Padovano è anche il motivo del Cristo in Pietà sul sarcofago, motivo che il B. incomincia forse a trattare nella tavola della Carrara di Bergamo, per svilupparlo fino alla redazione del Correr, con i due angioletti donatelliani che trovano immediato confronto in quelli bronzei, allora in corso di esecuzione sull'altare del Santo a Padova. Ciò che occorre notare subito, in queste. prime opere, e in particolare nella Pietà Correr, è un inedito senso del colore, risolto in profondità spaziali, risonante nella vastità di cieli tersi, fino a comprendere in sé l'eco di una dolente partecipazione umana. Per la prima volta un vero senso umanistico entrava così a ravvivare la tradizionale fastosità dell'arte veneziana, ancor troppo memore di preziosismi tardobizantini, filtrati attraverso la costante tradizione del mosaico marciano, e in cui lo stesso Iacopo era certo rimasto invischiato. Né d'altra parte si nota nel B. quella fanatica esposizione di armamentario "rinnovato", a carattere più archeologico che rinascimentale, che si riscontra nella maggior parte dei giovani padovani dopo il 1450, seguaci dello Squarcione e di Donatello, come lo Zoppo, il Pizzolo, lo Schiavone, il Crivelli. Persino lo stesso Mantegna, a cui innegabilmente ora il B. si va avvicinando, appare ispirato ad un mondo spirituale e formale del tutto differente. E questo un fatto che appare indiscutibile, proprio in quelle opere come la Trasfigurazione e la Crocifissione del Correr di Venezia, e la Orazione nell'Orto di Londra (nella National Gallery), ascritte in passato allo stesso Mantegna, ma in sostanza profondamente lontane dalla sua professorale archeologia. Nella Trasfigurazione è l'ombra che cala nell'ora del tramonto su uno sfondo di paesi e di fiumi serpeggianti; nella Orazione nell'Orto l'emergere favoloso di un castello turrito sul crinale del monte, contro il cielo tinto di viola. Sono tutti motivi di linguaggio che ci riportano ancora una volta in quel particolare clima di natura espressa in colore, e come tale partecipe di umane sensazioni, che ormai è il timbro inconfondibile del Bellini. Con l'Orazione nell'Orto di Londra arriviamo anche ad una probabile datazione, importante soprattutto perché è una delle prime recuperate dalla filologia belliniana. L'Orazione è infatti assai analoga a quella - pure conservata nella National Gallery di Londra - che il Mantegna dipinse, derivandola dalla predella di S. Zeno, probabilmente verso il 1459. Eccoci dunque arrivati alla fine del decennio fondamentale del B., in pieno e documentato parallelismo col geniale cognato padovano.
Persino l'osservazione dei disegni belliniani, per lo più ascrivibili a questo decennio, ci documenta tale avvicinamento, ma insieme la fondamentale distanza dal Mantegna. Molti di questi disegni sono stati espunti solo recentemente, e a fatica, dal catalogo mantegnesco. tanto grande è la loro somiglianza tecnica con quelli del padovano. Eppure basta considerare i due fogli delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, con Ia Pietà e S. Giovanni, o quello con i Quattro santi di Chatsworth, o il S. Giacomo di Donnington Priory, derivato dall'affresco mantegnesco degli Eremitani, per ritrovare, anche nellalinea grafica, quel fluido costruttivo di colore che ormai organizza la forma, non più in sola funzione di integrazione cromatica di un profilo, ma in tutta la sua autonomia.
Giunge certamente per questa via, il B., attorno al 1460, al capolavoro che chiude il suo primo fondamentale decennio, la Pietà di Brera a Milano.
L'ormai sperimentato tema del Cristo morto si amplia in una vera e propria "sacra conversazione", ove il dialogo dei tre personaggi si accorda su un metro di patetismo struggente. È la composizione stessa a suggerire tale alternativa di disperazione e di rassegnato abbandono, nel moto accentrante della Madre che abbraccia Gesù, mentre lo sguardo di Giovanni sfugge a destra, allargando la sensazione dello spazio silenzioso e immoto. Si serve ancora, è ben vero, il B., della linguistica "padovana" nel dettaglio minuzioso delle luci, sfilate una a una in oro buono con capelli sottili, lungo la capigliatura di Giovanni o la corona di spine del Redentore: ma insieme campisce con autorità i rossi, turchini e verdi scuri delle vesti, quasi a riequilibrare con un "largo" plasticamente cromatico i precedenti grafismi. L'intonazione di stile che ne promana è quella di una sottile e sensibile personalità figurativa, in cui il sentimento più profondo e delicato emerge con la franca e solenne chiarezza di una serenità umanisticamente rattenuta, di fronte al dolore e alla irreparabilità del fato.
È, un tema, questo del Cristo, che il B. evidentemente predilige in questi anni attorno al '60, come poi spesso gli accadrà di fare con altri "temi": infatti lo ritroviamo nel Cristo del Louvre, non lontano per misura formale e spirito umano dal linguaggio della Pietà di Brera, e ancora nella Pietà del Poldi Pezzoli di Milano, forse di poco anteriore nonostante lo schema arcaico, ma ricchissima di sensibilità coloristica nel paesaggio lontanante. Infine avviciniamo a questo momento anche il Sangue di Cristo di Londra (Nat. Gall.), in cui la figura umanistica del Redentore domina sulla scena di un paese dove ormai si sono annullate le usuali archeologie padovane.
Per il decennio 1460-70 un altro tema carissimo al B. è ampiamente sviluppato: quello della Madonna col bambino. Uscendo ormai dagli schemi ancora "padovani" della Madonna della collezione Lehman (New York), A margine del sesto decennio, troviamo la Madonna Frizzoni, del Correr e quella, monumentale e soave, sul trono col bambino dormiente, delle Gallerie di Venezia. La Presentazione al Tempio della Pinacoteca Querini Stampalia di. Venezia ci pare completi questo gruppo, per le evidenti analogie nel disegno, ormai ammorbidito, e nel colore più lirico e musicalmente disteso. La Presentazione è notoriamente una copia di quella del Mantegna, oggi a Berlino Dahlem (Staatliche Museen), che la più recente letteratura tende ragionevolmente a datare verso il 1464. Mai come in quest'opera, che è dichiaratamente copiata, appare la sostanziale opposizione spirituale e stilistica dei due artisti: rigorosa e ferma l'una, chiusa nella cornice geometrica, quanto l'altra, ambientata in una calma luce radente, è libera da freni razionalistici. Non a caso si collocano nell'opera belliniana le aggiunte di due personaggi laterali, che forse, insieme con gli altri tre, trasformati di fisionomia rispetto al modello mantegnesco, ci ritraggono tutta la famiglia dei B., con Anna, Nicolosia, Iacopo, Gentile e Giovanni.
Verso la metà del decennio si, datano i Trittici della Carità (Venezia, Gallerie) e il Polittico di s. Vincenzo Ferreri (Venezia, S. Zanipolo), opere fondamentali per la storia artistica del Bellini. I quattro trittici con lunetta decoravano gli altari di quattro cappelline della chiesa della Carità a Venezia, assegnate a privati, secondo i documenti, fra il 1460 e il 1464; di essi non tutto spetta certamente al Bellini. Oltre alla imposizione di valersi del fondo oro tradizionale e della forma a polittico, toccò certamente al B. di subire la collaborazione di aiuti, relativamente estranei al suo linguaggio, ma piuttosto di formazione muranese. A lui spetta probabilmente soltanto il trittico di S. Sebastiano, s. Giovanni Battista e S. Antonio Abate - cuiil paesaggio di fondo continuo nelle tre tavole dà un'inedita unità spaziale - oltre alle lunette della Trinità, della Pietà e della Madonna.Nelle altre tavole il suo intervento dovette limitarsi ai disegni, come prova anche la presenza di schizzi di sua mano nel retro del S. Gerolamo e del S. Ludovico (Pallucchini, 1959). Quale che sia stato il suo impegno in questa opera di bottega, forse terminata a contraggenio (entro il 1471, data di consacrazione di tutti gli altari), nelle tavole migliori è facile riscontrare un particolare e nuovo interesse per la plastica monumentale delle figure. Sembra quasi che il B., in quel decennio, sia venuto a contatto con le rinnovate forme della scultura veneto-padovana, dopo il decisivo soggiorno di Pietro Lombardo a Padova (1464-67). Una evidenza plastica a tutto tondo, un che di bronzeo nelle teste scorciate di sott'insù e nella robusta anatomia dei personaggi, una glittica sottigliezza nei profili angelici dalle chiome sfilate in trucioli d'oro, spesso cangianti su sfondi più scuri che esaltano la luminosità intrinseca della materia, caratterizzano anche l'altro capolavoro del settimo decennio, il polittico di S. Zanipolo (S. Vincenzo Ferreri fra S. Cristoforo e s. Sebastiano; in alto, Angelo annunciante, Cristo morto e Annunciata; in predella, tre Storie di s. Vincenzo Ferreri).Anche in questo caso i documenti riguardano solo la costruzione dell'altare e non l'esecuzione delle pitture, ma sono sufficientemente indicativi per proporre una datazione intorno al 1464. A queste date vanno avvicinate certamente due opere molto simili al polittico di S. Zanipolo, e cioè la Testa del Battista di Pesaro (Museo Civico) e la plastica Pietà di Berlino Dahlem (Staatliche Museen).
Le predelle del polittico di S. Zanipolo, date al B. dalla critica più recente, costituiscono un singolare esempio nel genere "narrativo", utile altresì a farci intuire quelle che erano le qualità dei teleri del palazzo ducale, perduti nell'incendio del 1577. L'architettura spaziale di queste predelle è singolarmente avanzata per un veneziano del settimo decennio e mostra quanto avesse fruttificato nel B. la conoscenza dei pittori toscani presenti a Padova, e forse anche degli scultori, specialmente se pensiamo ai rilievi a "stiacciato" di Donatello al Santo. Anche i caratteri stilistici degli edifici sono nettamente "rinascimentali", e la cosa presenta singolare interesse in una Venezia ove quegli esempi dovevano ancor molto scarseggiare: ulteriore testimonianza di un continuo "aggiornamento di gusto" che caratterizza l'opera del Bellini.
A una classicità ancor più dichiarata s'ispirano i modi di un'altra predella che ornava un tempo l'altare di S. Giovanni Evangelista alla Carità: le Storie di Drusiana, della collezione del principe Ruprecht di Baviera a Lentstetten (Baviera). Queste importantissime pitture sono datate con sicurezza entro il periodo 1468-71, e confermano quindi indirettamente la collocazione del polittico veneziano di S. Zanipolo a metà decennio, risultando alquanto più avanzate nello sviluppo della concezione spaziale e del colore. Gli aggruppamenti delle figure, giocati su tipiche "angolature" di profili e di faccia sono venuti acquistando una libertà inventiva ed un'agilità di collocazione spaziale da far supporre altre nuove esperienze, e probabilmente una svolta capitale nella cultura artistica del B.: la conoscenza cioè del linguaggio di Piero della Francesca - sembrerebbe - specialmente nello stile delle opere di Urbino. Come Giovanni abbia potuto attingere tali esperienze, non è documentabile. Ma si deve tener conto che attorno al 1470 egli dovette compiere un viaggio a Pesaro, terra natale della matrigna Anna, dove si trova una delle sue opere più alte: la pala della chiesa di S. Francesco ora nel Museo Civico di Pesaro (la cimasa, con la Pietà, è alla Pinacoteca Vaticana). Anche la pittura ferrarese, con gli esempi del Tura e del Cossa, è ben presente nell'articolato svolgimento delle Storie di Drusiana: e si ricorderà in particolare che se il B. intraprese il viaggio attorno al 1470, ebbe già certamente modo di ammirare gli affreschi del palazzo di Schifanoia a Ferrara, e di venire persino a contatto con forme di pittura "narrativa 4 quali attorno a quegli anni si manifesteranno nella predella di E. De Roberti sotto l'altare Griffoni.
Inserita nel contrappunto più articolato della tradizione toscano-ferrarese, la pittura del B. sembra finalmente raggiungere la piena maturità di sviluppo. Già nella predella di Drusiana, e poi definitivamente nella Incoronazione della Vergine nel Museo Civico di Pesaro, il suo registro pittorico sembra allargarsi ad inusitate sonorità.
La plastica delle figure si fa monumentale e grandiosa, perdendo ogni residuo del grafismo padovano che ne aveva caratterizzato gli esordi; il timbro del colore si approfondisce, vibrando sui toni bassi fino a colorare le ombre, già prima affidate in prevalenza al chiaroscuro tratteggiato, e alzandosi in squilli cromatici in cui la luce gioca parte di protagonista, con cangianti arditi, accentuazioni fredde, incisività espressive. La struttura stessa della pala di Pesaro presenta novità sensazionali, non solo per la storia del B., ma per tutta la pittura veneta e oltre. Il gruppo della Incoronazione della Vergine sta al centro, circondato dai quattro solenni santi protettori, su un trono la cui spalliera forata incornicia un paesaggio luminoso. Attorno, una sontuosa cornice dorata e intagliata rivela senza dubbi la paternità dell'artista, e inquadra a sua volta, nel basamento e nei pilastrini, una serie di piccoli dipinti, a mo' di predella, e di santi, inseriti uno sull'altro come negli antichi pilieri degli altari veneti tradizionali. Ogni riquadro, peraltro, ed ogni figura, sembrano a loro volta staccarsi dal piano della cornice, e si ambientano in una loro propria spazialità, fatta di sapienza prospettica, ma soprattutto di colore. Si tratta di figure di santi a cavallo contro paesaggi solcati da nubi chiare evelate, anacoreti in solitudine su prati verdissimi, fra arbusti appena fioriti; scene di martirio in complesse articolazioni compositive; figure isolate entro geometriche dimensioni di spazio, palpitanti sempre di commosse espressioni cromatiche.
Molto discussa è stata la datazione di quest'opera fondamentale, ma si può ormai dire che gli studi più recenti si orientano prevalentemente attorno a una data fra il 1470 (precisato dal Pallucchini, 1959, con sottili argomentazioni sulla derivazione che lo Zoppo ne diede nella pala di Pesaro del 1471, conservata negli Staatliche Museen di Berlino Est) e il 1473 (precedentemente proposto dal Longhi, 1946); entrambe le proposte concordano con l'avvicinamento alla predella di Drusiana da noi indicato.
Rimane incerta a questo punto molta della circostante cronologia del B., per l'altezza eccezionale del raggiungimento poetico nella pala di Pesaro, ed è discusso se appunto di poco la preceda o la segua un'altra pala, purtroppo perduta, che l'artista compì in quel tempo nella chiesa di S. Zanipolo a Venezia, con la Madonna in trono circondata da santi e da angioli suonatori. In ogni caso, fu questa la composizione che ebbe maggior successo a Venezia, per molti decenni ` e dette lo schema tipico della grande pala d'altare fin oltre il principio del Cinquecento.
Si entra così nell'ottavo decennio, con poche date sicure: il 1474 del ritratto di Joerg Fugger della coll. Contini Bonacossi di Firenze, e il 1479 come termine ultimo della Resurrezione di Berlino Dahlem (Staatliche Museen). Entro queste date ci è possibile ricostruire uno dei decenni più decisivi del B., perché nel 1475-76 sappiamo presente a Venezia Antonello da Messina, tanto importante per il successivo sviluppo della cultura figurativa veneziana.
Si è discusso a lungo quale sia stato, nel B., l'influsso di Antonello, portatore della cultura pierfrancescana assorbita nell'Italia centrale, e insieme mediatore di forme fiamminghe, presenti a Napoli e forse anche direttamente conosciute a Milano durante un comune soggiorno con Petrus Christus. Certo, sappiamo che nel 1475il B. non poteva trovare nuova né l'una né l'altra lezione, avendo potuto conoscere Piero persino direttamente durante il viaggio nella Marche, così come i fiamminghi, di casa a Venezia, dove nel primo Cinquecento sono documentate collezioni di pitture "ponentine". Comunque, la forza persuasiva di Antonello, con le squadrate volumetrie della sua pala di San Cassiano e del suo S. Sebastiano, o la sua incisiva potenza di ritratto non poterono essere senza peso sul B., ancorché già avviato su quella strada. Non si nega certo qualche ragione alla tesi più ardita di una preminente influenza belliniana su Antonello (Coletti, 1949), ma sostanzialmente si deve ricondurre il problema ad una visione più ampia, senza isolare il B., contrariamente al vero, in una situazione di antagonismo di fronte al nuovo venuto, già largamente presentito, vorremmo dire, nelle precedenti esperienze.
Il Joerg Fogger della collezione Contini, datato 1474, è la riprova di una certa qual comune impostazione del problema, sia da parte del B. sia da parte di Antonello. Al veneziano resta sempre un più largo margine di colore, inteso in una sentimentale declinazione, immerso in una spazialità più sperimentale, di valore più inerente al tempo reale e alla quotidiana esistenza. Soavemente individuale è anche l'altro Ritratto di giovane del Barber Institute di Birmingham, assai prossimo di data, che ci ricorda anche, nella delicata grafia, la Pietà della National Gallery di Londra e quella del Museo di Rimini: una serie di opere in cui sembra emergere un particolare momento lirico, di sognata melanconia. I colori bassi e stemperati e le ricercate eleganze lineari nei profili, composti contro gli sfondi scuri., creano raffinate silhouettes che trovano calzante analogia soltanto nei rilievi della contemporanea scuola lombardesca, ormai affermata nella cultura architettonica e plastica veneziana.
Un altro termine cronologico sicuro ci sembra, nonostante la imprecisione del documento che accenna solo a una figura, la data 1475 riferita alla S. Giustina nella coll. Bagatti-Valsecchi di Milano.
Questa immagine di raffinatissimo fascino eterna. in un ritratto indimenticabile la misteriosa, assorta dolcezza d'una fanciulla veneziana e conferma l'inclinazione a una calma elegia, intorno alla metà dell'ottavo decennio. Naturale ne sorge anche il ricorso ad uno degli schemi tipici dell'iconografia belliniana: la Madonna col Bimbo. Come spesso accade, molte somiglianze d'impostazione compositiva legano queste figure, ma il dialogo fra la Madre e il Bambino sa sempre rinnovarsi, in una tensione umana penetrante e immediata: dalla Madonna di Rovigo (Accademia dei Concordi) a quella simile di Verona (Museo Civico), da quella di S. Maria dell'Orto a Venezia a quella di Berlino Dahlem (Staatliche Museen), da quella lumeggiata a fili d'oro della Carrara di Bergamo a quella di Brera, soffusa della soave malinconia della S. Giustina. Per tutte, la datazione entro l'ottavo decennio è accettata dalla critica.Lo scorcio del decennio vede anche affermarsi un nuovo interesse per la natura, cui non può essere estranea la suggestione della letteratura umanistica in volgare e in'latino, che veniva trovando in quegli anni i suoi tipograff, principi nella città della laguna. Una petrarchesca melanconia pervade infatti il paesaggio che si apre dietro il Cristo risorto di Berlin Dahlem, opera fondamentale, databile con certezza fra il 1475 e il 1479. Sopra alle figure del primo piano, che si potré bbero dire ispirate ai rilievi del Bellano o a quelli di Pietro Lombardo, si spalanca un imprevisto paesaggio di collina veneta, con fiumi e torri, castelli e nuvole in cielo, mentre la figura di Cristo ascende leggera e trasparente. Simile nello spirito appare il capolavoro di questo momento, la Trasfigurazione di Napoli (Museo Naz. di Capodimonte): un'elegia di purissimo valore georgico, dove Cristo e gli Apostoli si immergono nella calda luce di un tramonto, contro un paesaggio disteso in lucide armonie spaziali, dosato fra equilibrate campiture di verdi primaverili e limpide concavità siderali. Non si può forse, ancora chiamare "naturalismo", questo del B. verso il 1480, ma piuttosto un canto panico e solenne, in cui il rapporto fra l'uomo e la natura corre sul filo di un arcano sentimento, risolto interamente in puro colore.
Siamo certamente verso il 1480 anche con il S. Gerolamo Contini di Firenze, e il S. Francesco della coll. Frick di New York, due tavole di singolare perfezione nell'accuratissima rifinitura, ricche di infiniti particolari nello sfondo che echeggia antiche città (Ravenna, Rimini, Pesaro), o nei dettagli naturalistici, cristallini nella trasparenza atmosferica, quasi accecanti nella varietà dei colori.
Poco dopo, quasi si fosse placata questa entusiastica "scoperta del paesaggio" (e sia pure di un paesaggio belliniano, cioè prefabbricato e irreale nella rappresentazione dei luoghi, ancorché "naturale" nella resa atmosferica del colore), vorremmo porre il S. Gerolamo di Londra (Nat. Gall.) e il Crocifisso della Gall. Corsini di Firenze: entrambi più pacati e distesi, in una larga vibrazione di colore.
Il nono decennio inizia con l'assunzione (1479) del compito di pittore "storico" della Repubblica in Palazzo ducale dopo la partenza per l'Oriente di Gentile. Pur avendo perduto tutto questo materiale di straordinaria importanza per la storia dell'arte veneziana, dai documenti si recupera qualche indicazione. Sappiamo infatti che Giovanni terminò la Vittoria navale contro Ottone, iniziata da Gentile, e lo stesso sembra sia accaduto per la tela con la Pace fra il Doge e il Barbarossa (Sansovino, 1581). Ma l'attività in Palazzo ducale dovette riuscire pesante e forse ingrata al B., intollerante di limitazione nei soggetti e desideroso della più ampia libertà d'invenzione. Nel 1482, infatti, la Signoria gli ordinò perentoriamente di terminare la Vittoria navale, ancora incompiuta; e alla fine del 1492 è evidente che la Signoria risolse almeno in parte i suoi rapporti con i Bellini (nel frattempo era rientrato Gentile), assumendo altri pittori per la decorazione della sala del Maggior Consiglio, fra i quali Alvise Vivarini e alcuni dei più noti collaboratori di Giovanni, come il Dalle Destre, il Marziale e il Bissolo (Ludwig, 1905). È evidente quindi che almeno nel primo lustro del nono decennio il B. fu molto occupato per Palazzo ducale, ed è probabile che soltanto nella secondametà del decennio egli sia potuto, ritornare ad una piena attività, secondo le sue tradizioni di bottega. A questo periodo appartengono numerose opere, fra cui molte datate e di singolare rilievo.
L'insufficiente documentazione relativa alla grandiosa pala di S. Giobbe (Madonna con Bambino in trono fra santi e angeli musicanti), ora alle Gallerie di Venezia, non ci permette una datazione indiscutibile. Peraltro riteniamo sia da accettare l'opinione prevalente, che l'avvicina all'anno 1489, in cui già risulta in situ, secondo il Sabellico (Paoletti, 1929), contro i tentativi recenti di sovvertire la cronologia, spostandola indietro di oltre un decennio (Coletti, 1949). Pevidente che una tale incertezza riflette quella di situare nella storia del B. l'influsso di Antonello e le sue conseguenze, sicché il problema della pala di S. Giobbe si riduce sostanzialmente a una prova di. controllo di tale situazione filologica e ancor più stilistica. Ma abbiamo già detto che l'incontro dei due grandi artisti va ridimensionato, svuotandolo del significato polemico di dare e di avere che gli si è voluto attribuire, e restituendo ad entrambe le culture figurative rappresentate da Antonello e dal B. una parte di merito nella rispettiva formazione stilistica. Con tutto ciò la pala di S. Giobbe è uno dei raggiungimenti capitali del B. maturo, e segna il punto in cui il suo stile, dopo le esperienze pierfiancescane, sembra quasi voler rientrare nel grande alveo della tradizione più propriamente veneziana., 1 quasi a costituire un prototipo che poi dovrà servire di esempio per molti decenni. C'è infatti nella struttura della sacra conversazione, attorno al trono della Madonna adorata dagli Angeli, sotto la nicchia di un'abside lombardesca, un esplicito riferimento alla musicalità dei mosaici maréiani; nell'iconografia dei grandi santi, assorti nell'atmosfera dorata., un'eco delle solenni figure uscite dai tradizionali polittici, anche se fuse in armonie nuove di colori distesi, velati con cangianti trasparenze, ordinati in plastico susseguirsi di volumi.
Questa religio da conservatore illuminato del B. approda entro il nono decennio a una serie eccezionale di capolavori, cui va riconosciuto, il carattere unitario già individuato nella pala di S. Giobbe, e cioè quello di una sontuosa "venezianità" nella invenzione compositiva e nel colore. Ecco così la Madonna degli alberetti delle Gallerie di Venezia, datata 1487, cui possono far corona la Madonna di Alzano, alla Carrara di Bergamo e, forse di poco posteriori, quella di Glasgow (Corporation Art Galleries) e quella della coll. Harewood di Londra, seguite da quella del Louvre (n. 1158) e da molte altre. È pressocché comune a questa ripresa del tema carissimo della Madonna l'ambientazione contro una tenda, che isola un ampio paesaggio; duplice così risulta Filluminazione, per cui il primo piano spicca plasticamente per la luce radente, mentre nel fondo prevale l'atmosfera diffusa della visione lontana.
Questa particolare attenzione al "lume", che arricchisce plasticamente le forme, si riscontra anche in un altro capolavoro datato nel 1488, la Madonna e santi dei Frari a Venezia. Qui, alla maniera degli antichi trittici, il B. isola, in una cornice a edicola di disegno rinascimentale, la Madonnà al centro, su un trono rialzato, e le due coppie di santi ai lati, separati da pilastrini. Ma indubbiamente la visione spaziale è unitaria, e profondamente moderna: infatti essa ci dà come la "sezione" di un'abside di chiesa lombardesca (nello stile della chiesa dei Miracoli di Venezia, per esempio, terminata appunto nell'anno 1489), all'altezza dell'arco trionfale. Nella nicchia absidale, scintillante di mosaico d'oro, in un continuum spaziale che si affonda prospetticamente illusivo dietro i pilastrini scolpiti, si apre il passaggio ai due ambulacri laterali; una luce radente entra dall'esterno a sinistra e avvolge le figure in un medium animatissimo, ricco di vibrazioni pulviscolari.
Ci par questa la caratteristica nuova del colore belliniano verso l'ultimo decennio del secolo: una progressiva liberazione dagli interessi eminentemente plastici, che fin allora l'avevano caratterizzato, per raggiungere una sintesi suprema di forme entro uno spazio vibrante, continuamente rinnovato da un'esperienza puntualissima, di fronte al moto della luce. Già rivela questo processo stilistico la grande pala con la Madonna col Bambino, angeli e santi e il doge Agostino Barbarigo nella chiesa di S. Pietro Martire a Murano, (datata 1488), per la luce scandita che sembra rientrare dal paesaggio crepuscolare di montagne e castelli e rendere più animata e credibile la sacra conversazione del doge Barbarigo con la Vergine e i santi. Tutta la pittura cinquecentesca del Palazzo ducale continuerà poi a esaltare questo "dialogo fra i massimi poteri", del doge con la Divinità: sicché ancora una volta il B. appare geniale precorritore e inventore inesauribile di forme nuove, in costante contatto con la realtà contemporànea.
Il tema della sagra conversazione è trattato in un'altra pittura di grande rilievo, che si data al principio dell'ultimo decennio: l'Allegoria degli Uffizi. Qui i personaggi sacri si muovono quasi a capriccio. entro un paesagg. io più che fiabesco, espressione figurativa di quella caratteristica "arcadia" letteraria dell'ultimo Quattrocento, il cui capolavoro sarà la Hypnerotomachia Poliphili di Marcantonio Colonna, edita presso Aldo Manuzio nel 1499 e illustrata con xilografie, in cui molte volte è stata intravista la mano dello stesso Bellini. Indubbiamente la cultura che sarà poi rappresentata dal Bembo e da Giorgione sui primissimi anni del nuovo secolo, era già intimamente familiare al B. in questo scorcio del Quattrocento. Si deve forse a ciò la sua temuta intrattabilità nell'accettare le prescrizioni dei committenti, di cui è esplicito riflesso nella lettera dei Bembo a Isabella Gonzaga (10 genn. 1505), dove si legge che "ha piacere che molto signati termini non si diano al suo stile, uso, come dice, di sempre vagare a sua voglia nelle pitture..." (W. Braghirolli, Carteggio di Isabella d'Este..., in Archivio veneto, XII[1877], pp. 370-374).
L'Allegoria degli Uffizi propone, insieme con le simili Allegorie delle Gallerie di Venezia, il problema della visione naturalistica dell'ultimo B., quando già si annuncia l'evoluzione del gusto e della filosofia corrente, che determinerà il nuovo clima in cui cresce Giorgione. Come già il Cima e il Montagna in forme minori, la visione naturalistica dei B. raramente saprà liberarsi del sostrato culturale umanistico che la determina fin dagli esordi: sicché anche dove, nelle Allegorie diFirenze e di Venezia, giunge a superarlo apparentemente per la freschezza dell'invenzione coloristica, pure fra il mondo della natura e il mondo degli uomini (o degli dei), manterrà un sottilissimo diaframma, che soltanto i cinquecentisti sapranno infrangere.
Di certo, l'esigenza di ambientare sempre più integralmente i suoi personaggi entro un paesaggio naturale, costituisce il vero problema del B., sul principio del 1500. Ne abbiamo la prova nella maggior, parte delle, opere che si susseguono lungo il primo decennio: dal grandioso Battesimo di Cristo di S. Corona a Vicenza, databile fra l'anno 1500 e il 1502 (data di costruzione dell'altare), alla Sacra Conversazione già Giovanelli delle Gallerie di Venezia, a quella di S. Francesco della Vigna a Venezia (datata 1507), alle Madonne di Londra (1508, Nat. Gall.), di Detroit (datata 1509, Institute of Arts) e di Brera (dat. 1510), alla Pietà Donà delle Rose delle Gallerie. È questa una serie di opere tra le più alte del maestro, ispirate costantemente al motivo paesistico, che peraltro viene sempre a costituire uno "sfondo" alla figurazione sentianentale del personaggio, siano essi la dolce Madonna col bimbo dormiente di Londra, o quelle penetranti di Detroit e di Brera, o la Madre, stroncata dal dolore, della Pietà.Certo, in queste pitture il paesaggio viene ad assumere, nei suoi dettagli narrativi e di colore, una verità così piena, una partecipazione così lirica, da tradire ormai un interesse preponderante nell'artista. Breve sarà quindi il passo per Giorgione, che a quella natura dovrà presto sottomettere i suoi personaggi, m una. visione panica, che procede di pari passo colla coscienza del tempo.
Anche la maggior parte delle altre Madonne dipinte in questo primo decennio, escluse quelle che talvolta risentono dell'elaborazione commerciale della, bottega, si ambientano liberamente nel paese: ricordiamo quella Kress della National Gallery di Washington e quella della Galleria Borghese di Roma. Circola, in qualche modo, atmosfera reale attorno ai più recenti ritratti, situabili a cavallo-dei due secoli, come quelli, su sfondo di cielo, delle collezioni Kress e Mellon alla National Gallery di Washington, degli Uffizi, della Capitolina a Roma, o quello di Pietro Bembo a Hampton Court. Difficile una precisa datazione per questa materia, dove un punto fermo può venire soltanto dal ritratto del Doge Leonardo Loredan alla National Gallery di Londra, presumibilmente fatto all'atto della elezione nel 1501, capolavoro di incisiva finezza e insieme di sfumata psicologia.
Nel 1505, quando il B. data la pala con la Madonna e santi nella chiesa di S. Zaccaria a Venezia, Giorgione aveva presumibilmente già compiuto la sua Madonna di Castelfranco: sicché le due opere, possono assumere un significato, esemplare di contrapposizione. È evidente che il B. si preparava da tempo a sostenere, con pieno vigore poetico, la svolta dei tempi nuovi: e la riprova viene dal suo colorismo, continuamente aggiornato secondo moduli atmosferici, sfumato in penombre ricchissime, ammorbidito in larghe campiture tonali., La robusta struttura architettonica della pala di S. Zaccaria ci attesta la sempre più precisa coscienza del B. della necessità di allargare il registro della pittura, verso un effetto di unità spaziale e temporale. là quesfà la sottile ragione dell'effetto, grandioso e insieme solenne di questa pittura, così come delle altre che le si accompagnano in questi anni: la Madonna col bambino tra i santi Pietro e Paolo (firmata e datata 1505, Combury Park, Charlbury), la pala con Tre santi nella chiesa di S. Giovanni Crisostomo a Venezia (1513), l'Assunta di S. Pietro a Murano, la Nuda allo specchio (firmato e datato 1515, Vienna, Kunsthistorisches Mus.) e lo stesso supremo Festino degli Dei della National Gallery Washington (1514) È realizzando appieno il suo "classicismo", umanistico e profondamente conservatore, che il B. fa sentire la sua voce in una Venezia pronta ormai per Giorgione e Tiziano; tantoche ancora nel 1507 il Dürer poteva ben scrivere che l'unico "grande" pittore che operasse in Venezia era lui, Giambellino. Questa posizione orgogliosamente sicura non impedisce peraltro al B. di mostrarsi sensibile ai raggiungimenti più freschi della giovane scuola: ed ecco pitture come il patetico Cristo di Stoccolma (Museo Naz.), o il Cristo portacroce di Toledo (Ohio, Museum of Art, prototipo di innumeri altri), o addirittura la sua espressiva Ebbrezza di Noè del Museo di Besançon o il S. Domenico di Londra (Nat. Gall.), datato 1515. In quello stesso anno va posto il grandioso Martirio di S. Marco della omonima scuola veneziana (Venezia, Ospedale civile), terminato e firmato da Vittore Belliniano.
Con queste opere, e in piena attività ancorché vecchio ormai di oltre 85 anni, il B. moriva a Venezia il 29 novembre 1516, per essere sepolto, come già il fratello Gentile, nella tomba di famiglia lungo il muro meridionale della cappella di Sant'Orsola, a SS. Giovanni e Paolo.
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