BELLINI
. Celebre famiglia di pittori che inizia e suscita, dai primi decennî del '400 ai primi del '500, la nuova e gloriosa pittura veneziana. Iacopo nato, si crede, nei primi anni del sec. XV da Niccolò battistagno, morto nel 1470, già nel 1424 è ricordato come pittore e già uscito dalla casa paterna. Ebbe per maestro e vero padre nell'arte Gentile da Fabriano. Del culto di Iacopo per Gentile sono prove l'aver egli dato ad uno dei suoi figliuoli il caro nome; l'averlo proclamato suo precettore e pittor famoso; l'averne fatto il ritratto ricordatoci nel Cinquecento a Padova in casa Bembo. Poiché Gentile lavorò in Palazzo ducale alle storie della leggenda del Barbarossa dal 1408 al 1414, e non oltre, Iacopo lo avvicinò a Venezia che era ancor ragazzo, e deve averne tratta poi vera educazione seguendolo come garzone a Brescia e a Firenze. Un documento ci dice che, mentre Gentile stava dipingendo la famosa Adorazione dei Magi a Firenze, un Iacopo da Venezia pittore, suo garzone e discepolo, percosse certi ragazzi che tiravano sassi dentro la corte, e venne perciò processato e condannato. Un piccolo errore del notaio, che invece di Niccolò segna come Pietro il nome del padre di Iacopo, non deve togliere fede al soggiorno di lui giovane a Firenze. Nel 1429 aveva Iacopo casa a Venezia, in contrada di S. Geminiano, forse acquistata con la dote della doviziosa Anna da Pesaro, divenuta allora sua moglie. La Crocifissione dipinta nel 1436 nella cappella di S. Niccolò nel Duomo di Verona, era ricca di rilievi a stucco e dorature alla gotica e comprendeva più di quarante figure delle quali parecchie erano ritratti. Il prestigio ottenuto in terraferma mise Iacopo in onore a Venezia, e per il suo sestiere di S. Marco fu fatto decano della scuola di S. Giovanni Evangelista. Nel 1441 lo troviamo a Ferrara alla corte degli Estensi, dove, secondo un sonetto encomiastico che gli dedica Ulisse Aliotti, notaio e poeta veneziano, gareggia col Pisanello a ritrarre il giovane Lionello d'Este e vince la gara. Nei libri dei disegni di Iacopo alcuni studî sull'aquila estense e progetti o fantasie sui monumenti funebri per Niccolò III e per Borso d'Este, attesterebbero una sua lunga e varia attività a quella corte. Avendo bottega e scolari a Venezia, Iacopo mantenne però contatti con la terraferma di dominio veneziano, dove era attirato anche dagli studî antiquarî e copiava epigrafi romane con i loro ornamenti in quel di Monselice, di Este, di Montagnana e di Brescia. Frequentando Padova e gli studiosi d'antichità, assistette il precocissimo Andrea Mantegna nella ribellione allo Squarcione e forse gli fu consigliere agli Eremitani nell'affresco del Martirio di S. Cristoforo, più ampio e arioso degli altri, e dove si vuol ravvisare il suo ritratto. L'amicizia si saldò in parentela nel 1453, quando Iacopo ottenuto un sussidio dalla Scuola grande di S. Giovanni Evangelista, sposò la sua figlia Niccolosa al Mantegna. Mentre crescevano in tanto maggior sapienza accanto a lui i due figliuoli, Gentile e Giovanni, egli continuava a tenere la direzione della bottega, e le opere d'importanza erano fatte da lui, sia pure con la loro collaborazione. Nella cappella dei Gattamelata al Santo di Padova, la pala, poi distrutta, con la data del 1460 era detta, dall'epigrafe latina, di Iacopo B. padre e di Gentile e Giovanni figlioli. Collaborazione siffatta dovette giovargli non poco anche nelle sue grandi tele, prima per la Scuola grande di S. Giovanni Evangelista con le Storie della Vergine e di Cristo, poi per quella di S. Marco pure con la Passione e la cosiddetta Storia di Jerusalem; ma sino all'ultimo, cioè sino al 1466, fu lui solo, in proprio nome, come primo dei pittori veneziani di maggior prezzo, ad assumere opere e obbligazioni. Ricordato ancora come vivo il 17 gennaio 1470 e come già defunto il 23 novembre 1471, morì molto vecchio, venerato e amato dai due figlioli famosi; i quali, come dice il Vasari, pur vivendo ciascun per sé, si ebbero sempre in grande reverenza anzitutto per il ricordo del padre che li aveva incitati a nobilissima gara. Distrutte tutte le opere sue maggiori, quello che ci rimane di Iacopo è poca e povera cosa a confronto della sua importanza storica: il Cristo in croce, in tela, firmato, del Museo civico di Verona, piuttosto duro e volgare, ma abbastanza luminoso, per quel che la cattiva conservazione lascia giudicare; la Madonna col Bimbo, nella Galleria dell'Accademia di Venezia, firmata sulla cornice antica, pesante ma con certa sincerità popolaresca; la Madonna col Bimbo, nella galleria Tadini a Lovere, firmata, molto più bella, chiusa nel manto che pure scintilla d'oro; non firmata, quella che, rimessa in onore nel 1906 agli Uffizî a Firenze, suscitò viva ammirazione per la regale imponenza e la dolce intonazione sempre chiara dei colori; la Madonnina, dipoi trovata in una chiesetta presso Imola e passata a Brera, col nome e l'anno 1448; e finalmente quella già nella chiesa di Legnaro presso Padova, entrata qualche anno fa nella Galleria di Venezia, forse ultima per tempo, tanto è vicina alla dolcezza del Giambellino. Possiamo aggiungere con qualche incertezza: il San Girolamo, molto guasto, del Museo civico di Verona, un quadretto di Bassano e due di Bergamo col Martirio di una santa, avvicinati da ultimo, con poco fondamento, a Dello Delli; possiamo accogliere nel novero delle opere della sua bottega la grande ancona dell'Annunciazione a S. Alessandro a Brescia con storiette della vita della Vergine nella predella; mentre ci soffermiamo dubitosi davanti alla Madonna attribuita a lui al Louvre col devoto nel quale si vuol vedere ritratto Lionello d'Este, ma poco giova alla sua fama e a chiarire la sua incerta fisionomia. Le Madonne palesano il seguace di Gentile da Fabriano, minore di nobiltà, se si eccettui forse la Madonna fiorentina, minore assai nello smalto del colore, gustoso per sé ma di poche risorse e senza alcuno studio di rinnovatore naturalistico o classico. A confortarne la fama molto giovano invece i due libri dei suoi disegni, l'uno al Louvre e l'altro al British Museum, molto ammirati e pubblicati integralmente. Poiché trattano quasi gli stessi soggetti, si può credere che Iacopo abbia preparato i due libri a dar ricordo di sé ugualmente all'uno e all'altro dei due figliuoli. Nel libro parigino il tratteggio a penna rende il disegno evidente; nel londinese esso è invece a matita molle e pare svanito, ma tutto vi è più fine e arioso. Anzitutto si ammira l'ampiezza dell'aria a confronto delle figure, e le fabbriche alte e ardite che racchiudono scene popolose e cortili, tratti in parte dal vero, specialmente da Palazzo ducale, con scale e loggiati e altane venezianissime. Sappiamo da una lettera di Gentile Bellini al marchese Francesco Gonzaga del 1493, che Iacopo aveva fatto addirittura "el retracto de Venetia" e un altro particolarmente di piazza S. Marco che i figliuoli conservavano come rarità. Trionfano nelle sue architetture gli ornamenti del più fiorito gotico; cui vanno però commisti e spesso sovrastano grandiosi partiti architettonici romani, ricomposizioni e ampliamenti fantastici tratti da rovesci di medaglie e da rilievi e iscrizioni. Ampî e complicati i paesaggi, taluno con certi alberi nudi e contorti, in primo piano, da ricordare Piero della Francesca. Spesso Iacopo si sforza di trovar rigide simmetrie di composizioni, ma talvolta improvvisa grandioso e suggestivo come nella scena bellissima dei Funerali della Vergine e in quella della Crocifissione. Egli disegna leggiero, sfiorando la carta con fantastica freschezza che già merita il titolo di veneziana. Grande passione mostra per i cavalli che ritrae veri e pesanti, per le scene di torneo, per i fantastici combattimenti di guerrieri e draghi. Nessun disegno suo, pur tratto dal vero, può stare a confronto con gli studî del Pisanello, anzi si può dire che egli manchi di vigore, ma l'aria e la vita nessuno le rende meglio di lui: insomma prepara la nuova pittura veneziana.
Gentile, nato a Venezia circa il 1429 e morto a Venezia il 23 febbraio 1507. - Non si può precisare se Gentile, che sappiamo esserne stato il prediletto e l'erede, sia anche per età il maggiore dei figliuoli di Iacopo. Si crede che sia nato verso il 1429, perché di quell'anno abbiamo il testamento della madre sua Anna fatto per il primo suo parto, all'uso delle veneziane. Acuto osservatore, aderente, con limitate aspirazioni ideali, alla realtà, Gentile imparò anzitutto dal padre la pratica del ritratto somigliante e imponente. La prima opera che porta il suo nome e la data 1465 è la grande tempera delle gallerie di Venezia con la figura ieratica del primo patriarca, il Beato Lorenzo Giustiniani, luminoso di spiritualità nel profilo quasi scheletrico, e due angioletti inservienti e ai piedi in ginocchio due canonici, ritratti con verità pesante, ma non volgare. Conviene più a lui che al padre il ritratto, pure di profilo; bellissimo del vecchio doge Francesco Foscari (morto nel 1457), del Correr. Ben per tempo Gentile deve essersi fatto valere come ritrattista ufficiale e dobbiamo credere che, come tale, nel 1469 l'imperatore Federico III, in visita solenne a Venezia (sono le risorse dei ritrattisti) lo abbia nominato cavaliere. Verso il 1472 dipinse per la Scuola grande della Carità il ritratto del cardinale Bessarione, rubato e perduto, e insieme una coperta o scatola per la reliquia dello stesso Bessarione, oggi in una raccolta privata a Vienna, dove sono dipinte sommariamente la faccia del cardinale e quelle vigorose dei Guardiani della Scuola. A Berlino, al Kaiser-Friedrich Museum, una Madonna che porta scritto il suo nome e ha ritratti ai piedi due sposi a mani giunte, grossi, pesanti, segnati vigorosamente di profilo, e la Madonna sul trono marmoreo già della collezione Mond, ora della Galleria nazionale di Londra; nonché ivi pure, ma di non sicura attribuzione, l'Adorazione dei Magi, già della collezione Layard, mostrano che Gentile seguiva, fuori del ritratto, certa severa compostezza con caratteri prevalentemente veneziani, senza soggiacere all'imitazione del Mantegna. Questa, fra le opere sicure sue, si manifesta soltanto nei colossali sportelli dell'organo di S. Marco, segnati del suo nome, sui quali il Santo titolare si può dire copiato dal San Giacomo degli affreschi agli Eremitani; mentre il S. Teodoro vi è orrido, ed enormi sono il S. Francesco e il S. Girolamo, e tutta l'opera, di grande intento decorativo e da essere veduta da lontano, è assai più forte che gradevole. La commissione degli sportelloni, oggi nel museo della basilica, proveniva dai procuratori da cui dipendeva la chiesa. Era quindi un incarico, se non proprio spettante al pittore ufficiale, certo di avviamento a quella carica che poi Gentile ebbe ufficialmente nel 1474, per decreto speciale, col compenso a vita, come pensione, della senseria del Fondaco dei Tedeschi, naturalmente da appaltare ad altri. Il compito datogli allora di ravvivare e riparare, nella sala del Gran Consiglio "caduca e spegazzada", le figure delle storie del Barbarossa, fra le quali celebri quelle di Gentile da Fabriano e del Pisanello, può sembrare modesto; ma, essendo egli così a disposizione della Signoria, gli venivano conferiti, a cominciar dai ritratti, tutti i lavori ufficiali. Quando nel 1479 Maometto II, firmata finalmente la pace con Venezia, mandò un suo oratore ebreo a richiedere, insieme con un abile fonditore di bronzo, un buon ritrattista, l'incarico venne dato a Gentile con tutta solennità, scrivendosi nella deliberazione de mandato nostri Dominii e ad servendum nostro Dominio, e Marin Sanudo ne faceva ricordo nei Diarî. E perché l'ambita carica di pittore ufficiale rimanesse in famiglia, Gentile ottenne che sostituissero a lui il fratello Giovanni, con un decreto che impegnava per lui un'altra senseria. Partito il 3 settembre 1479, Gentile ritornava nel novembre dell'anno successivo. Del suo soggiorno a Costantinopoli si hanno notizie dirette nella Storia dei Turchi di Gian Maria Angiolello vicentino che risiedeva colà, e ricorda che il sultano volle da lui "Venezia in disegno" e, col proprio, molti altri ritratti, specialmente degli uomini più belli della corte, e mostra come Gentile con la perfezione dell'arte e con la sua bonarietà guadagnasse la confidenza del terribile turco.
Per incarico di Maometto, G. fece il ritratto di un derviscio: opera ammiratissima dal sultano soprattutto per l'abilità mostrata da Gentile nel ritrarre il vero, per cui ebbe la nomina a bey e ricchi doni, oltre alla lettera di lode per la Signoria ch'egli aveva chiesto.
Alcuni disegni di costumi turchi del British Museum, per l'avanti ritenuti del Pinturicchio, si possono credere di Gentile; mentre si è fatta invano ricerca dei molti quadri, e massime di lussuria, da lui dipinti secondo l'Angiolello, per i palazzi imperiali e dal successore di Maometto, osservantissimo del Corano, fatti subito vendere nel bazar. Ci resta, ed è gran cosa, passato dalla collezione Layard alla National Gallery, il ritratto famoso di Maometto II (con la data 25 novembre 1480, che possiamo credere del congedo), evocazione storica di tutta verità che rende, insieme con la grandezza dell'animo, la finezza della mente, la crudeltà beffarda e la depravazione sensuale del tiranno mostruoso ridotto allo stremo di sue forze, tutto con finezza di colori chiari e con luci oltre ogni dire mirabili. Della bella impresa e del titolo cavalleresco avuto e riconosciutogli a Venezia, Gentile fece ricordo nell'iscrizione latina sotto una delle grandi tele, quella raffigurante il papa e il doge che mandano ambasciatori all'imperatore, dipinta per il Gran consiglio con gran numero di ritratti e di vestiti sontuosi. Da tempo prevaleva a Venezia l'uso delle grandi tele sostituite agli affreschi, e già nel 1466 Gentile, agli stessi patti del padre, aveva dipinto per la Scuola grande di S. Marco i due "teleri" di Faraone che insegue gli ebrei e precipita in mare, e degli Ebrei nel deserto: ampie composizioni di racconto; ma non era facile persuadere i Signori veneziani a coprire con nuovi "teleri" le vecchie venerande storie in affresco del Barbarossa. Il successo orientale di Gentile, e più ancora l'ammirazione suscitata da Giovanni, determinarono l'inizio di quell'impresa, ben presto affidata interamente al Giambellino. Ma restò a Gentile, col vantaggio a vita della senseria, l'incarico del ritratto dogale: quello, ricordato nel 1487, del doge Marco Barbarigo, molti di Agostino Barbarigo nel lungo dogado e quelli della regina Cornaro, quando andò giovane sposa a Cipro, e quando ne ritornò vedova, come appare nel ritratto di Budapest.
Bruciate le grandi tele di Palazzo ducale, rimangono a darci idea di cotali visioni d'ambiente veneziano ravvivato da ritratti quelle dipinte da Gentile per le due Scuole di devozione di San Giovanni Evangelista e di S. Marco. Porta la data del 1496 la famosa Processione in Piazza, del 1500 la Croce caduta in canale, del 1501 il Terzo miracolo della Croce, tutte tele dalla Scuola dell'Evangelista passate all'Accademia. Il fervore di verità del ritrattista è qui portentoso: non solo rende l'esteriorità tipica e il carattere, di ciascuno dei confratelli, ma tutta la processione nel suo insieme e nel suo ritmo, tutta la Piazza con i fulgori dei suoi musaici, dell'oro che brillava sulla porta della Carta, con una minuzia non mai stanca che devotamente nella verità ricerca la bellezza, e tutto fonde in unità di visione. La tela della Croce che cade dal ponte di S. Lorenzo, meglio conservata, ci dà il senso della prospettiva aerea e della luminosità riflessa dell'acqua. Per la Scuola grande di S. Marco, alla quale sino da giovane era iscritto, e ne aveva avuto anche la presidenza, Gentile aveva promesso, nel 1492, di rifare le grandi tele dipinte dal padre suo e da loro due fratelli in gioventù e poi nel 1485 distrutte dall'incendio. Anzitutto aveva fatto progetto per le due grandi tele dell'Albergo con la Predica di San Marco in Alessandria e, davanti, sopra la porta, il Martirio del Santo; ma, avendo cominciato a lavorarvi solo nel 1504 o nel 1506, sorpreso dalla malattia, dolente di non veder compiuto nemmeno il primo dei due dipinti, faceva nel testamento precetto a Giovanni di finirlo, se voleva meritare in premio il libro dei disegni del padre. Visione d'Oriente, tutta bianchi splendori, la vasta tela oggi a Brera, è nata dai ricordi di Gentile, ma è fatta bella, specialmente nei ritratti, dal Giambellino, in arte di tanto superiore al fratello. Marin Sanudo, che come lutto pubblico ne segna nei Diarî al 23 febbraio 1507 la morte, e poi la sepoltura a S. Zanipolo, ricorda di Gentile l'impresa di Costantinopoli, ma conclude, "è restato il fratello che è il più eccellente pittor d'Italia".
Giovanni, nato nel 1429 circa, morto il 29 novembre 1516. Un'ombra di mistero circonda la nascita e la prima gioventù del Giambellino, che fu genio sommo della pittura veneziana del Quattrocento e uno dei maggiori d'Italia. Si è voluto farne modernamente un figlio naturale di Iacopo, per i seguenti motivi: l'abitare lontano dal padre e dal fratello, quegli a S. Geminiano, egli sino dal 1459 a S. Marina; il non essere egli nominato da Anna, madre di Gentile, nel testamento del 1470; e, terzo, l'essere negl'incarichi e negli onori sempre posposto al fratello, mentre non è provato che fosse di lui minore d'età, anzi vi è chi, come il Vasari, lo fa maggiore. In ogni modo è certo che col suo valore il Giambellino si conquista già nel giudizio dei contemporanei il primo posto altissimo e con la bontà si concilia l'amore di tutti. Nell'iscrizione (1460) sulla pala nella cappella di Gattamelata al Santo a Padova è nominato dal padre come suo aiuto, secondo dopo Gentile, e solo nel 1470, per quel che sappiamo, è incaricato in proprio nome di un importante lavoro per due tele (il Diluvio e l'Arca di Noè) dalla Scuola grande di S. Marco. Per tutta la giovinezza si direbbe, così, dominato dal padre e timido nell'affermare sé stesso. Solo nelle Madonne, piccoli incarichi di privata devozione signorile, poiché talune appaiono in tutto acerbe e giovanili, è dato ricercare il suo primo divenire. Per luminosità deliziosa di cielo e chiarità di colori va messa prima la Madonna, dal Frizzoni lasciata al Museo Correr, e subito dopo, per il più ampio orizzonte, la Madonna della raccolta americana Davis, poi la Madonna già dei Crespi. Queste prime Madonne, a mezza figura davanti al parapetto sul quale sostengono trepide la loro creatura, possono ricordare le iconi bizantine; le loro mani sottili con dita lunghissime, specialmente nella Madonna della raccolta Johnson a Philadelphia, e i leggerissimi panni tendono piuttosto a forme ideali che alla realtà. In tali prime manifestazioni ci sembra che nulla richiami Andrea Mantegna, il quale al tempo del parentado con i Bellini (1453) aveva già esplicato tutto sé stesso a Padova, tanto che si potrebbe credere che Iacopo, finché visse (1470), tenesse i figliuoli lontani da quell'attrazione, che in Giovanni si fa sentire poi nella Madonna del Museo di Berlino, grandiosa e massiccia e quasi pesante, e nella Trasfigurazione del Correr, dal paesaggio tagliato e composto con sovrana energia. A nostro parere, sono però unicamente dipendenze e imitazioni formali, mentre come sentimento il Giambellino è tutt'altro, e il nuovo spirito umanistico pagano non ha presa su lui. Una serie di quadri, che pur si hanno da ritenere giovanili, dal Giambellino dedicati alla Passione di Cristo, come quello del Preziosissimo sangue della Galleria di Londra, La Pieià degli Avogadori a Palazzo ducale, l'altra piccola Crocifissione del Correr, il Cristo sul sarcofago del Poldi-Pezzoli, il Cristo incamiciato del Louvre, ci mostrano cotesto suo fervore; che non è solo iconografico, ma viene espresso spiritualmente con le più delicate luminosità diffuse per i cieli luminosi come nella sua Preghiera dell'Orto alla Galleria di Londra, in tutto rispondente materialmente a quella ivi pure del Mantegna, ma di ben altro spirito. Coteste contemplazioni del dolore divino portano al capolavoro, compiuta espressione dell'animo del poeta cristiano: íl Cristo morto di Brera. Il B. vi gareggia per realismo con i popolari modellatori delle figure strazianti dei santi sepolcri, ma ne fa sublime, delicatissima pittura luminosa; egli sa veramente far piangere, come dice la sua iscrizione latina, ma di un pianto che lava l'anima e infonde dolcezza.
Pur essendo talvolta i due fratelli B. nominati (1471) come una sola ditta, il Giambellino teneva indipendente la sua bottega a S. Marina, dove probabilmente lavora con lui quel misterioso Lauro Padovano, suo consanguineo. Si spiega così, verso il 1470, la produzione di opere, come i quattro altari del coro dei monaci nella chiesa della Carità, ora ricomposti alla galleria dell'Accademia e la grande ancona con cimasa e predella di S. Vincenzo nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, opere nelle quali si sente lo spirito del B., ma quasi egli inventasse e disegnasse e altri, dipingendo e compiendo l'opera, la facesse pesante e rigida in senso mantegnesco. Improvvisamente il Giambellino è messo in onore dall'incarico nel 1479 di sostituire il fratello andato a Costantinopoli. Allora il compito che era di restaurare i famosi affreschi, diventa nel luglio 1480 l'incarico di dipingere e di rinnovare: ad renovandam Salam Maioris Consilii. Ben altri termini si usano allora verso di lui che non verso il fratello, scrivendosi esplicitamente nel 1482 pictor nostri dominii est appellatus e lodandolo e premiandolo pubblicamente, compensandolo, oltre la promessa della senseria, con ottanta ducati annui. Lo si vuole in fine privilegiato su tutti gli altri pittori, sì che niuno lo molesti con obblighi e contribuzioni di classe o fraternita. Così la grande impresa dei teleri con le storie famose, sia pure che Gentile ne dipingesse taluno, è sin dal principio affidata al Giambellino che per trent'anni vi diede il meglio di sé. Pur troppo l'incendio del 1577 ci ha tolti tutti quei capolavori, rievocazioni di fasto veneziano, quale doveva essere ad esempio il Ricevimemo di Alessandro III alla Carità e scene drammatiche potenti come la lodatissima Battaglia di mare a Salvore; né i pochi ricordi che ne abbiamo dagli scrittori, all'infuori dell'imponenza e della bellezza dei ritratti, valgono a darcene qualche idea. Completamente perduta è cotesta parte e il Giambellino non vive più per noi che come pittore sacro, pittore di meditazione anziché di azione, di dolcezza anziché di forza, e ai suoi quadri sacri dobbiamo ricorrere per seguire, sempre senza sussidio di date, il suo salire verso la perfezione e la gloria. Il grande altare con l'Incoronazione della Vergine a Pesaro, con le deliziose tavolette intorno, e la cimasa del Cristo deposto ora nella Vaticana, sembra sia stato dipinto qualche anno prima delle grandi pale veneziane: quella bruciata ai Ss. Giovanni e Paolo, e l'altra di S. Giobbe a Venezia che per fortuna rimane a mostrarci quel che valesse il Giambellino verso il 1480. Potente e benefico si era fatto valere su lui Antonello da Messina che, venuto a Venezia nel 1474, vi aveva portato e insegnato specialmente con la celebrata pala di S. Canciano non solo la perfezione tecnica del dipingere ad olio, ma ancora la geometrica squadratura delle figure, che già sentiamo nel Cristo morto portato dagli angeli del B., a Rimini, e nel consimile di Berlino, e a raggruppare le figure in composizione a piramide di grandiosa unità e di armonica rispondenza. Ma nella pala di S. Giobbe il B. circonfonde la potenza della forma di musicale dolcezza e converte l'imitazione in una forza nuova tutta sua creando una delle più alte e perfette manifestazioni del genio italiano. Giustamente si è notato che la pittura veneziana nell'usare in funzione prospettica il colore, continua ed esplica gli intenti di Piero della Francesca, già non estraneo al vecchio Iacopo B., e noi vediamo il Giambellino trarre da coteste risorse stilistiche, fatte delicate e fuse in morbidità aeree, elementi di nuova spiritualità. Nella Trasfigurazione della Pinacoteca di Napoli, ad esempio, la bianca veste del Cristo accentra la luce e si lega al paesaggio con rispondenze suggestive che si fanno sentire potentissime anche nel paesaggio, pur quattrocentescamente minuto, del San Francesco ora a New York. Alla pari che nelle grandi pale si dovrebbe continuare a seguire, misurandone a gradi l'ascesa, l'opera del Giambellino nelle Madonne, da quella tragica e primitiva di Brera alle due del Museo di Verona, a quelle della Galleria di Venezia col Bimbo in piedi benedicente, a quella di forme più gagliarde e monumentali nella Madonna dell'Orto e alle consimili di Berlino e dell'Accademia Carrara a Bergamo. Finalmente nel 1488, quando il Giambellino arriva sui sessant'anni, troviamo opere sue datate: il trittico famoso della sacrestia dei Frari, una delle opere sue più belle, e, con i graziosi angioletti, una delle più popolari, e la Madonna col Doge Agostino Barbarigo, per il monastero di S. Maria degli Angeli a Murano e ora colà a S. Pietro Martire, che prelude ai quadri votivi per l'elezione del doge a Palazzo ducale. Per la data che vi è scritta del 1487, andrebbe premessa la Madonna degli Alberetti, delle Gallerie già di casa Contarini, alla quale va posta vicina l'altra Madonna, bellissima del pari e meglio conservata, lasciata dal Morelli all'Accademia di Bergamo; ma l'una e l'altra mostrano tale larghezza di modellato, tale potenza d'arditi contrasti di colore, tale ariosità di paesaggio, che non sembrerebbero possibili prima di Giorgione. Nel 1493 il Giambellino a Palazzo ducale appare nel fervore dell'opera circondato da Cristoforo Caselli detto il Temperello parmigiano, da Lattanzio da Rimini, da Marco Marziale, da Vincenzo da Treviso, dal Bissolo e in quegli stessi anni alla sua bottega ha il Catena, il Rondinelli ravennate, il Boccaccino e il Tacconi cremonesi e Filippo Mazzola parmigiano, tutti pronti a ripetere, in suo e in proprio nome, ogni creazione del maestro, taluna delle quali a noi nota, come la Madonna che stende la mano sul devoto, solo per tali copie. Alvise Vivarini che nel 1488 vuole in Palazzo aver parte indipendente di contro ai fratelli B. e ottiene una delle grandi storie, finisce egli stesso coll'essere attratto nella sfera luminosa di Giovanni.
Preziose notizie, che rivelano l'indole riservata ed astratta e il singolarissimo carattere del grande maestro, ci dà Isabella d'Este nella ben nota corrispondenza e con le sue sfortunate richieste di quadri del Giambellino, iniziate nel 1496 anzitutto per lo "studiolo", prescrivendogli il soggetto mitologico alla pari del Mantegna, del Perugino e del Costa, poi accontentandosi di quadri che almeno rappresentassero "cosa antiqua e de bello significato", e ridotta infine ad accettare un Presepio, una Madonna col putto e San Giovannino ma con "qualche luntani ed altra fantasia", quadro che, dopo insistenze e litigi, il Giambellino effettivamente dipinge nel 1504 con molta cura, come scrisse, "massime per respecto de Andrea Mantegna". Vien fatto di pensare a quella Fantasia religiosa del B. degli Uffizî, con misteriose vedute di sfondo derivata da un poemetto francese del Trecento, nella quale il colore intenso con ombre morbide e fulgenti luminosità, specie nel paesaggio, diffonde altissima poesia. Il Bembo, pregato da Isabella d'intromissione presso il Bellini, sempre per averne opere, ne lumeggia bene la genialità scrivendo che voleva "l'inventione accomodata alla sua fantasia", "senza signati termini", uso come era "di sempre vagare nelle pitture, che quanto è in lui possano soddisfare a chi le mira". Da tali fantasie di sognatore derivano le tavolette preziosissime delle Gallerie veneziane, ornamento, a quel che pare, dello specchio di donna veneziana, delle quali, anche per i paesaggi di luminosa sommarietà, nulla si può pensare di più bello.
Mentre tanti dovevano essere i ritratti da lui dipinti (e ne aveva fatti, secondo la fede del sonetto del Bembo, anche soavissimi di donne), ben pochi sono quelli che restano, tra cui più degno di ricordo quello del Doge Loredan alla Galleria di Londra. Essendone státo ìl preparatore, egli accolse la novità della pittura nobilmente sensuale, morbida e tutta spirito di Giorgione e di Tiziano al principio del Cinquecento quasi come coronamento di un incessante progredire.
Negli stessi anni, verso il 1505, in cui Giorgione dipingeva la pala di Castelfranco, il Bellini ci dava quella di S. Zaccaria, dove la luce del sole entra nell'abside lateralmente aperta e suscita larghi contrasti d'ombra e preziosità di cangianti. Il vecchio maestro non giunge alla elevatezza creativa della pala di S. Giobbe, ma, rinnovandosi una volta ancora, sa elevarsi a bellezza nuova. Né basta: verso il 1510, nella seconda Madonna di Brera ricerca luminosità ancora più chiare con acutezze quasi stridenti di rossi e di azzurri; e nel Battesimo di Cristo a Santa Corona a Vicenza, nella Madonnina dell'alberetto della Borghese, nella Madonna coi santi lungo il fiume ora all'Accademia di Venezia, abbiamo tutto un gruppo di pitture chiarissime e luminose che rivelano un Bellini nuovo, purtroppo assistito e talvolta sopraffatto dagli aiuti. L'ultimo suo capolavoro, la pala dei Tre santi a San Giovanni Grisostomo del 1513, nel San Cristoforo e nel Sant'Alvise, protetti dalle rupi e dalla transenna marmorea, ha dolcissime morbidità d'ombra mentre vi sfolgora sopra in piena luce il San Gerolamo, con una nota di fuoco giorgionesca del manto rosso presso la tunica bianca.
Venezia amò ed onorò sino all'ultimo il suo grande artista; Alberto Dürer, già accolto gentilmente dal Giambellino nella sua prima venuta a Venezia del 1506, ritornando nel 1511, non trova da ammirare e da lodare che lui. Tiziano nel 1513 trovava difficoltà ad ottenere per sé posizione altrettanto privilegiata di pittore ufficiale. Marin Sanudo nota che la mattina del 29 novembre 1516 "se intese esser morto Zuan Bellin optimo pitor... la cui fama è nota per il mondo e così veccio come l'era dipingeva per excellentia". (V. tavv. CXXXVII a CXLV).
Bibl.: generale: I. Morelli, Notizie d'opere di disegno, ed. G. Frizzoni, Bologna 1884; G. Vasari, Le Vite, ed. G. Milanesi, III, Firenze 1878; C. Ridolfi, Le meraviglie dell'arte (Venezia 1648); ed. D. v. Hadeln, I, Berlino 1914; M. Boschini, La carta del navegar pittoresco, Venezia 1660; G. Gronau, Die Künstlerfamilie Bellini, Lipsia 1909; id., in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, III, Lipsia 1909 (con la bibl. precedente); A. Venturi, Storia dell'arte italiana, VII, i e iv, Milano 1911 e 1915; E. Cammaerts, Les Bellini, Parigi s. a.; B. Berenson, Venetian Paintings in America, New York 1916; D. v. Hadeln, Venetianische Zeichnungen des Quattrocento, Berlino 1924; P. Paoletti, La Scuola Grande di San Marco, in Rivista di Venezia, 1929, pp. 67-81, 128-311, 177-81.
Su Iacopo Bellini: C. De Mandach, L'importance de J. B. dans le développement de la peinture italienne, ecc., in Mélanges Lemonnier, Parigi 1913, pp. 52-70; L. Testi, Storia della pittura veneziana, II, Bergamo 1915, p. 143 segg.; L. Planiscig, Jacopo u. Gentile Bellini, in Jahrb. d. kunsthist. Samml. in Wien, n. s., II (1928), p. 41 segg.; C. de Mandach, Le symbolisme dans les dessins de L. B., in Gaz. des B.-A., VI (1922), pp. 39-60; L. Venturi, A mythological Picture by J. B., in The Burl. Mag., XLIX (1926), pp. 204-05; W. Arslan, Un probabile affresco di J. B., in Boll. d'arte, n. s., VI (1926-27), pp. 186-88; L. Venturi, Das Bildnis des Lionello d'Este von I. B., in Pantheon, III (1929), pp. 201-05; E. Rigoni, Iacopo Bellini a Padova nel 1430, in Riv. d'arte, XI (1929), pp. 261-65; L. Venturu, Contributi a I. B., in L'Arte, 1930, pp. 180-86.
Su Gentile Bellini: F. Sarre, The Miniature by G. B. found in Constantinople not a Portrait of Sultan Djem, in Burl. Mag., XV (1909), pp. 237-38; F. R. Martin, New Originals and Oriental Copies of G. B. in the East, ibid., XVII (1910), pp. 5-7; G. Fiocco, Un nuovo ritratto di G. B., in Dedalo, VI (1925-26), pp. 205-09; G. Gronau, A Venetian Senator by G. B., in Burl. Mag., LI (1927), pp. 264-67; A. Venturi, Ritratto del Doge Andrea Vendramin per G. B., in L'Arte, XXX (1927), pp. 1-2; A. L. Mayer, In den Bildnissen des G. B., in Pantheon, 1930, pp. 17-22.
Su Giovanni Bellini: D. v. Hadeln, Kopien eines verschollenen Originals G. B.'s, in Zeitschr. f. bild. Kunst, n. s., XXI (1910), pp. 139-41; id., Zwei Madonnenkompositionen des G. B., ibid., VII (1912), pp. 371-76; id., Zwei unbekannten Originale des G. B., ibid., XXXIII (1922), pp. 112-15; id., Ein verschollenes Altarbild des G. B., in Jahrb. d. preuss. Kunstsamml., XLV (1924), pp. 206-11; id., Two Portraits by G. B., in Burl. Mag., LI, 1927, pp. 4-7; id., Bellini's Madonna del Baldacchino, ibid., LIII (1928), pp. 270-76; B. Berenson, Le nouveau tableau de G. B. au Louvre, in Gaz. des Beaux Arts, VII (1912), pp. 371-76; id., Les quatres triptyques bellinesques de l'église de la Carità à Venise, ibid., X (1913), pp. 191-202; id., St. Justine of the Bagatti Valsecchi collection at Milan, in The Study und Criticism of Italian Art, III, Londra 1916, pp. 38-61; G. Frizzoni, A Plea for the Reintegration of a great Alter-piece, in Burl. Mag., XXII (1912-13), pp. 260-69; G. Cantalamessa, La Madonna di G. B. nella Galleria Borghese, in Boll. d'arte, VIII (1914), pp. 105-14; A. Symons, Notes on G. B., in Burl. Mag., XXXVII (1920), pp. 170-76; G. Gronau, Über Bildnisse von G. B., in Jahrb. d. preuss. Kunstsamml., XLIII (1922), pp. 97-105; id., Über eine Madonnenkomposition von G. B., ibid., XLV (1924), pp. 38-42; id., Una Pietà di G. B., in Cronache d'arte, III (1926), pp. 274-77; id., Le opere tarde di G. B., in Pinacotheca, I (1928-29), pp. 57-70, 115-31, 171-77; id., Spätwerke des G. B., Strasburgo 1928; id., Die Signatur des G. B., in Pantheon, III (1929), p. 221; G. Fiocco, Un'anconetta primitiva di Giambellino, in Rass. march., I (1922-23), pp. 41-45; A. Venturi, Giambellino. Nuove ricerche, in L'Arte, XXVII (1924), pp. 37-40; id., Cristo morto di Giambellino, ibid., XXVIII (1925), pp. 217-19; W. Suida, Works by G. B., in Burl. Mag., LI (1927), pp. 187-89; E. Tietze-Conrat, G. B.'s Gruppenbild von 1507, in Belvedere, VIII (1929), pp. 106-08.