CASTELLO, Bellobruno de
Vissuto tra il XII ed il XIII secolo, è uno degli esponenti più rappresentativi del mondo economico genovese, forse il più importante uomo d’affari dell’intera aristocrazia consolare, abile soprattutto sul piano finanziario. Come altri Castello anch’egli si imparentò con i della Volta, un’altra delle più potenti famiglie genovesi, sposando una figlia di Rubeo della Volta, dalla quale ebbe almeno un figlio, Baldovino.
La prima notizia sicura sul C. risale al 1182, quando lo troviamo impegnato in una serie di operazioni commerciali in qualità di finanziatore e di prestatore di ingenti somme di danaro. In quest’anno egli accordò un credito di 165 lire di genovini ciascuno ad un mercante di Asti e ad un commerciante di pelli; nell’anno 1184 investì 52 lire in una “societas” per il commercio in Sicilia. In questi documenti il C. appare come il finanziatore che accresce il proprio capitale, non con la personale pratica della mercatura, ma con il prestito e naturalmente con l’usura, sempre sottintesa e taciuta nei contratti medievali: che prestasse ad usura è provato e contrario da un atto notarile del 1182, in cui i convenuti precisano che il C. ha prestato “gratis et amore” una somma al suocero Rubeo della Volta.
La sua attività appare farsi più intensa a partire dal 1186 quando impegnò cifre considerevoli in alcune operazioni commerciali che avevano come meta Costantinopoli o Alessandria d’Egitto. Il 22 settembre consegnò in “accomenda” 100 lire a un certo Oberto Zeclieta diretto “causa mercandi” ad Alessandria d’Egitto e a Ceuta; il giorno dopo contrasse un nuovo contratto di “accomenda” per la cospicua somma di 320 lire da utilizzarsi nel commercio in Oltremare. Il 24 dello stesso mese concluse con il genovese Gandolfo Figallo una “societas”, nella quale investì un capitale di 200 lire da utilizzare a Costantinopoli, insieme con 200 bisanti masamotini impegnati in precedenza ad Alessandria d’Egitto sempre tramite il Figallo. Nel dicembre di questo stesso anno prestò a due francesi, Pierre de Digne e Gioffredo Claverius, 145 lire, in cambio di una partita di pellami.
In tutti questi contratti, oltre a fornire il capitale per le operazioni commerciali, il C., in qualità di “commendator”, stabilì anche l’itinerario del viaggio e l’ammontare dell’interesse, in genere la terza parte del lucro; nel contratto con il Figallo invece lasciò ampia libertà d’azione al socio e si accontentò della metà del lucro, detratti quei danari o quei beni che fossero stati dati al Figallo nel corso del viaggio come regalo personale.
Dopo il 1186 non si possiedono più notizie sull’attività econoniica del C. fino al 1190. Incerta è l’identificazione con quel Bellusbrunus de Castro il quale nel febbraio 1188 giurò con altri concittadini di osservare fedelmente ogni condizione del trattato di pace che, per la mediazione di Callisto III, sarà concluso con Pisa e che nel febbraio 1190 compare tra i consiliatores che sottoscrissero i patti intervenuti tra il Comune ed il duca di Borgogna per il trasporto in Terrasanta del re di Francia e del suo seguito. La identificazione potrebbe avvenire in base alla considerazione che, mentre i documenti notarili ed i cronisti preferiscono la forma già volgarizzata “Castello”, i coevi documenti del Codice diplomatico usano ancora di preferenza la forma “de Castro”.
Nel 1190 il nome del C. ricompare nei documenti notarili: nell’aprile egli concesse un prestito di 50 lire a due coniugi che si impegnarono a restituirle entro agosto; nell’agosto acquistò per 9 lire una saracena di nome Setelfoca; sempre nell’agosto, per il prezzo di 10 lire, acquistò da Alamanno Quarteno tutti i diritti che costui vantava sui beni del defunto Ottone Elia. Nel marzo 1191 vendette per 100 lire di genovini alla badessa del monastero di S. Quirico tutte le terre, poste in varie località del contado, che gli erano state portate in dote dalla moglie; nel maggio dello stesso anno figura tra itesti dell’atto con cui il conte di Ventimiglia si impegnò a donare alla chiesa di S. Maria quattro staia di fichi secchi ogni anno sui suoi redditi di Bussana.
All’inizio del 1191 fu eletto tra gli otto consoli dei placiti o di giustizia e nella estate venne designato, insieme con Rolando di Carmandino, comandante del corpo di spedizione e della flotta che il Comune aveva deciso di inviare in appoggio dell’imperatore Enrico VI il quale tentava la conquista del Regno di Sicilia, governato da Tancredi. Genova infatti nonostante i precedenti buoni rapporti con il regno normanno, si era schierata a favore di Enrico VI – concludendo con lui un trattato di alleanza nel giugno del 1191 – soprattutto nel timore che Pisa, alleata dell’imperatore sin dall’agosto precedente, potesse assicurarsi una posizione privilegiata in Sicilia. Così Pisa e Genova, le due antiche rivali, si trovarono a fianco di Enrico VI, che era stato prodigo di promesse con entrambe (per il contenuto economico degli accordi stipulati da Pisa prima e da Genova poi con Enrico VI, si veda ad esempio J. M. Powell, Medieval monarchy and trade..., in Studi medievali, s. 3, III [1962], pp. 440-445).
Le 33 galee genovesi, comandate dal C. e da Rolando, partirono da Genova il 15 agosto e giunsero nelle acque di Castellammare di Stabia quando l’assedio alla città di Napoli, che si era rifiutata di aprire le porte all’imperatore, si era praticamente concluso: l’ammiraglio normanno, Margarito da Brindisi, aveva infatti messo in fuga i navigli pisani ed Enrico VI aveva rinunziato all’impresa ed era ripiegato verso nord a causa delle epidemie scoppiate tra i suoi uomini. Probabilmente anche i due comandanti genovesi, di fronte a questa situazione, decisero di far rotta verso il nord; arrivati all’altezza delle Isole Pontine, divisero la flotta in due squadre che procedevano di conserva, forse per controllare un più ampio spazio di mare. Il mattino seguente la squadra maggiore, composta di 23 galee e comandata dal C., si trovò di fronte, in prossimità del promontorio del Circeo, la flotta di Margarito, forte di 72 galee oltre ad altre imbarcazioni minori. Le navi genovesi si schierarono in ordine di battaglia e levarono i vessilli: non vi fu alcuno scontro, in quanto Margarito, nonostante l’evidente superiorità, preferì evitare la battaglia e dirigersi verso Ischia, impressionato dalla presenza dei Genovesi, secondo l’annalista genovese coevo che racconta l’episodio con grande orgoglio municipale.
Si concluse così, senza un nulla di fatto, la spedizione genovese a Napoli, sulla quale il Manfroni nutre alcune perplessità a motivo della divisione della flotta e dello strano comportamento di Margarito, famoso per il suo coraggio e la sua temerarietà. Lo studioso avanza quindi l’ipotesi, che è stata successivamente accolta anche dal Vitale e confortata da un certo numero, dì contratti stipulati in Genova nel 1191 per attività commerciali sulle piazze siciliane, che vi sia stato un qualche accordo segreto tra la Repubblica e Tancredi e che per questo Margarito abbia evitato lo scontro con la flotta, allo scopo anche di staccare dall’alleanza con l’imperatore Genova, dove si cominciavano a nutrire sospetti nei confronti di Enrico VI accusato di preferire e di favorire i Pisani.
Da Civitavecchia il C. inviò messaggeri all’imperatore, che si trovava a San Germano, per chiedere direttive. Enrico VI gli concesse, tramite il suo legato Arnaldo Stretto, il permesio di rientrare a Genova. Qui il C. si trovava il 27 sett. 1191, quando avviò un’operazione commerciale che aveva come meta proprio la Sicilia. In questa circostanza, infatti, egli appare come teste ad un contratto con cui Nicola Lecanoçe, in procinto di recarsi in Sicilia con Gugliemo di Beders, assicurava il compagno e le sue merci da ogni danno che potrà ricevere nell’isola e dal pagamento di quel che gli potrà essere richiesto oltre le solite tasse. In realtà il C. era personalmente coinvolto nell’affare perché delle 905 lire che il Lecanoçe portava con sé in Sicilia “causa mercandi” ben 605 erano sue, come risulta dalla “societas” stipulata nell’ottobre tra Nicola ed il C., il quale si riservava metà del lucro alla scadenza dell’accordo. Si può quindi supporre che il C., avveduto uomo d’affari, non avrebbe mai impegnato un capitale così elevato in un paese che avrebbe dovuto essere nemico ed ostile.
Nel 1195 venne ancora eletto tra gli otto consoli pro iustitiis e non e certo casuale che egli abbia ricoperto la carica di console di giustizia nel 1191 e nel 1195, nei due anni cioè in cui Genova ebbe un podestà ed un reggimento di tipo ghibellino. È questa l’ultima notizia relativa al C., già morto nel 1205 quando il figlio Baldovino consegna a Bonvassallo Barbavara un legato testamentario del padre.
Fonti e Bibl.: Annali genovesi di Caffaro e continuatori, II, a cura di C. Imperiale di Sant’Angelo, in Fonti per la storia d’Italia, XII, Roma 1901, pp. 37, 39-41, 54; Oberto Scriba de Mercato (1190), a cura di M. Chiaudano-R. Morozzo della Rocca, in Notai liguri del sec. XII, I, Genova 1938, pp. 165, 229, 243; Guglielmo Cassinese (1190-92), a cura di W. Hall-H. G. Krueger-R. L. Reynolds, ibid., II, Torino 1938, I, pp. 158, 255; 2, pp. 18, 39; Giovanni di Guiberto (1200-11), a cura di W. Hall Coll-H. G. Krueger-R. G. Reinert-R. L. Reynolds, ibid., V, Torino 1939, 2, p. 150; Oberto Scriba de Mercato (1186), a cura di M. Chiaudano, ibid., IV, Torino 1940, pp. 1, 3, 13, 132; Cod. diplom. d. Rep. di Genova, a c. di C. Imperiale di Sant’Angelo, II, in Fonti per la storia d’Italia, LXXIX, Roma 1938, p. 322; III, ibid., LXXXIX, Roma 1942, p. 366; C. Manfroni, Storia della mar. ital. dalle invasioni barbariche..., Livorno 1899, p. 289; V. Vitale, Genova e Enrico VI di Svevia, in Miscell. di studi storici in on. di C. Manfri, Padova 1925, pp. 92 ss.; V. Vitale, Le relazioni commerciali di Genova col regno normanno-svevo, in Giorn. stor. e lett. della Liguria, III (1927), pp. 24 ss.; E. Bach, La cité de Gênes au XIIe siècle, Kobenhavn 1955, pp. 122 ss.; T. O. De Negri, Storia di Genova, Milano 1968, pp. 299-302.