BELLUNO
(lat. Bellunum)
Cittò del Veneto, capoluogo di provincia. Al centro della Valbelluna, B. fu abitata fin dall'età preromana (lo stesso toponimo potrebbe derivare dal celtico Bellodunum) e conobbe un notevole sviluppo in epoca romana, divenendo nel 49-42 a.C. municipium, iscritto alla tribù Papiria. Insieme ad altre città venete (Vicenza, Asolo, Oderzo, Este, Padova, Altino e Adria), Tolomeo attribuisce anche Βέλουνον alla Οὐενετία interna, mentre Bellunum è ricordata da Plinio il Vecchio tra i Venetorum oppida (Nat. Hist., 3, 130). Il primitivo nucleo urbano, sorto nell'età del Ferro nell'area di Caverzano, si spostò più a S, occupando la zona attuale nella penisoletta alluvionale delimitata dal Piave e dall'Ardo, fin dall'epoca romana; i numerosi reperti archeologici (epigrafi, cippi gromatici e are, basi di statue e resti di pavimentazione musiva, nonché sarcofagi, il più noto dei quali è senz'altro quello di Flavio Ostilio Sertoriano, oggi nel cortile di palazzo Crepadona) sembrano attestare una fioritura della città soprattutto nel 2°-3° secolo. Subìte le invasioni barbariche, B. rimase sotto la giurisdizione bizantina fino all'avvento dei Longobardi. Il nome di Bellunum e l'aggettivo bellunensis compaiono anche nei testi di Paolo Diacono (Hist. Rom., VI, 26; Hist. Lang., III, 26), il quale tra l'altro dichiara bellunese Pemmone, padre di Ratchis e di Astolfo, notizia accolta senza discussioni dalla tradizione locale già a partire da Piloni (1607); sempre da Paolo Diacono si apprende che il vescovo di B. presenziò - o si fece rappresentare - insieme al vescovo di Feltre ai concili di Grado (588) e di Marano (589-590). Suffraganea di Aquileia fin dal suo nascere, la diocesi di B. rimase separata da quella di Feltre sino al 1197; i confini tra le due diocesi sono ricostruibili in base a diplomi di Berengario e Ottone.Un importante ritrovamento altomedievale, proveniente dai pressi di B., è costituito da un tesoretto aureo longobardo, attualmente a Londra (British Mus., inv. nrr. 529-535), di cui mancano purtroppo i dati esatti sul luogo di rinvenimento; è formato da sette pezzi, tra i quali significativa una fibula rotonda e tre croci in lamina d'oro.Scarse sono purtroppo le testimonianze di epoca medievale pervenute, così architettoniche come scultoree e pittoriche; si tratta per lo più di singoli episodi cronologicamente scaglionabili in secoli diversi e piuttosto isolati fra loro, che dunque non permettono di ritessere compiutamente le maglie di un continuum storico-artistico che dall'Alto Medioevo giunge sino all'annessione da parte della repubblica di Venezia (1404), attraverso l'evoluzione comunale, il successivo ingresso di B. nella sfera politica da prima della marca trevigiana e successivamente, dopo la breve parentesi dovuta alla conquista di Ezzelino da Romano (1249-1259), in quella dei Caminesi (fino al 1322), degli Scaligeri (fino al 1337), e ancora di Carlo IV di Boemia, alleato dei Veneziani. A quest'ultimo subentrò, a partire dal 1360, il padovano Francesco da Carrara, il cui dominio venne sostituito infine dai Visconti, all'indomani della sollevazione popolare guidata da Andrea Miari (1388).Secondo la tradizione sarebbe riferibile a Teodorico, consapevole dell'importanza strategica del bellunese, l'organizzazione nell'intera Valbelluna del primo sistema difensivo di castelli, poi completato dai Bizantini. Spetterebbe però al potente vescovo Giovanni II (959-999) il nuovo assetto urbanistico di B.: munita la citt'a di un castello con quattro torri dalla parte del Piave, egli avrebbe ordinato ai propri nobili di rinforzare con torri le abitazioni cittadine, predisponendo inoltre un primo sistema di mura, completato nel 1080; successivamente la cinta muraria fu ampliata nel 13° e 14° secolo.Nulla rimane del primitivo palazzo vescovile dalle tre torri edificato da Gerardo de' Taccoli nel 1190 - tranne, così si è supposto, il possente muro basamentale appartenente alla torre centrale - così come del campanile del duomo, ricordato in un documento del 10 novembre 1200, e del palazzo comunale e della loggia, spesso menzionati nella Cronaca bellunese tardotrecentesca di Clemente Miari.La cattedrale fu edificata probabilmente da Felice, uno dei primi vescovi bellunesi, e fu significativamente dedicata all'antiariano s. Martino; secondo la tradizione il vescovo, perseguitato dai Longobardi, sarebbe morto in esilio; nel 1762, nella chiesa di Valdenere se ne sarebbe trovato il sarcofago - poi nuovamente perduto - recante la scritta "Felix ep(iscopu)s". Unici resti dell'edificio religioso altomedievale sono alcuni frammenti di pluteo a intreccio vimineo databili al sec. 9°, rinvenuti nelle murature, come materiale di riempimento, in occasione del restauro del duomo dopo il terremoto del 1936, e fatti poi murare in facciata. Analoghi frammenti scultorei, ora conservati presso il Mus. Civ., provengono da lavori di scavo nel piazzale del duomo e, inoltre, dalle chiese dei Ss. Faustino e Giovita a Bolago di Libano; assai simili risultano anche i resti di pluteo nella chiesetta cimiteriale di S. Daniele di Pedeserva, dal secolo scorso intitolata a s. Liberale. Questo edificio è ad aula unica con transetto assai sporgente, concluso a E da tre absidi; su quella centrale, ad andamento rettangolare, si immorsano direttamente le due minori laterali, semicircolari, con presbiterio sopraelevato su una cripta anulare e con un paramento esterno ritmato da lesene. L'edificio, databile al sec. 9°-10°, è ritenuto una delle più antiche costruzioni religiose del suburbio bellunese (Alpago Novello, 1974; Rugo, 1974).Nella cripta del duomo è stata reimpiegata come paliotto d'altare la fronte di un sarcofago in marmo dorato e porfido proveniente dal monumento funerario di Guadagnino Avoscano, signore agordino morto verso il 1335, e decorato con bassorilievi in alabastro (la Vergine con il Bambino assisa in trono, i coniugi committenti, i ss. Pietro e Paolo e, sulle due estremit'a laterali, l'angelo annunciante e la Vergine annunciata); nel 1358 l'arca servì pure da tomba al patriarca di Aquileia, Nicola, morto in B. mentre vi si trovava in qualità di vicario del fratello, l'imperatore Carlo IV. Un'altra lastra sepolcrale - attualmente murata all'interno del campanile a m. 25 ca. d'altezza - è parte della tomba di Federico degli Azzoni (m. nel 1331); in pietra rossa di Castellavazzo, essa mostra al centro il gruppo della Madonna in trono con il Bambino sullo sfondo di un drappo sostenuto da due angeli, ai lati il busto di s. Matteo entro uno scomparto lobato e la figura del committente inginocchiato orante accanto allo stemma di famiglia; alle due estremità, infine, l'arcangelo Gabriele e la Vergine annunciata.Al 1212 risale l'insediamento in città di monache benedettine cistercensi, mentre dal 1253 è testimoniata la presenza dei Francescani, che con un atto del 1289 si impegnarono con il comune di B. (dal quale ricevevano cospicui finanziamenti), a ricostruire il convento e la chiesa di S. Pietro, che un'iscrizione, ancora oggi leggibile sopra la porta dell'antica sacrestia, dice consacrata nel 1326 (poi demolita e sostituita dall'attuale edificio barocco). Al Trecento avanzato risalgono invece le costruzioni di S. Maria Nova (1326, demolita dopo il 1806), di S. Maria dei Battuti (1330 ca.) con relativo ospizio (ante 1360), della chiesa della Santa Croce edificata dalla Scuola della disciplina della Santa Croce (1356-1368).Attualmente ospitata in locali un tempo appartenuti ai Minori conventuali (fino al 1806) è la Bibl. Lolliniana e Gregoriana, nota per il ricco fondo librario donato per testamento dal vescovo Alvise Lollino (1596-1625): tra i preziosi manoscritti spicca un Liber gradualis, per il cui apparato decorativo si era a torto avanzato il nome di Simone da Cusighe, mentre il codice spetterebbe "ad un miniatore bolognese culturalmente situabile tra il cosiddetto 'Illustratore' e Nicolò di Giacomo, attivo verso gli anni '60 del Trecento" (Lucco, 1979, pp. 31-32). Da ricordare anche un codice della Divina Commedia (Bibl. Lolliniana e Gregoriana, Loll. 35) noto tra i dantisti come uno 'del Cento', con i fogli iniziali delle cantiche miniati (Fiammazzo, 1901).Il più noto rappresentante della pittura tardogotica bellunese è senz'altro il già citato Simone da Cusighe (notizie dal 1394 al 1414), di cui si conserva presso il Mus. Civ. una tempera su tavola raffigurante s. Antonio Abate tra s. Zota, s. Gottardo, s. Bartolomeo e s. Antonio da Padova, firmata Simon fecit, generalmente assegnata a una data di poco antecedente il 1394, anno in cui lo stesso Simone dipinse il polittico per la chiesa di S. Bartolomeo a Salce, oggi a Venezia (Ca' d'Oro, Gall. G. Franchetti). In base a una notizia documentaria ("comperato dal pittore Simone da Cusighe il minio per farne le lettere capitali" a un "bello Statuto, che adì 27 ottobre 1385 fu dal Capitolo solennemente sancito"; De Donà, 1878, p. 15), si è supposta anche un'attività miniatoria del maestro. Tra le poche notizie certe relative al c.d. petit maître bellunese, scolaro di Vitulino da Serravalle, secondo parte della storiografia ottocentesca, ma che Lanzi (1795-1796) ritiene scolaro di Antonio Veneziano, vanno ricordati i documenti attestanti che nel 1397 il pittore completò la perduta ancona per l'altare maggiore della cattedrale di B. e che il 17 giugno 1400 intervenne alla ricognizione delle reliquie nella cattedrale.Va infine ricordata una Madonna dell'Umiltà, tempera su tavola originariamente di dimensioni maggiori delle attuali (come provano ai lati le figure tagliate di s. Giovanni Battista e di s. Pietro), ora conservata nella chiesetta del battistero (S. Maria delle Grazie), ma proveniente dalla vicina chiesa di S. Andrea, costruita verso il 1350 e demolita dopo il terremoto del 1873. Cronologicamente assegnabile all'ultimo quarto del Trecento, il dipinto si avvicina ai modi di Giovanni da Bologna, documentato a Venezia e Treviso dal 1377 al 1389.L'intensa attività pittorica che si svolgeva in B., soprattutto nella seconda metà del Trecento, è testimoniata anche dalle fonti: tra i pittori nativi o domiciliati in città, si tramandano i nomi, per es., di Bernardo di Serravalle, figlio di maestro Vitulino, abitante in B. nel 1356 (contratto con il pievano e con il sindaco di Ampezzo di Cadore per dipingere ventidue figure ad affresco nella volta di S. Caterina, chiesa eretta verso il 1320 e demolita nel 1786); di un "magistrum Vincentium pictorem quondam ser Odorici de Sancto Eliseo de Ceneta qui moratur in Civitate Belluni" (nominato procuratore ad lites nel territorio di Treviso, Feltre, B. e Cadore da parte di "ser Iachomellus Iustus de Veneciis", con atto rogato nel palazzo comunale di Treviso nel 1367); di Pietro del Perone (nel 1398 abitante presso la chiesa di S. Stefano, stando alla Cronaca bellunese di Clemente Miari).
Bibl.:
Fonti. - C. Miari, Cronaca bellunese (1383-1412), a cura di D. Miari, Belluno - Caversago 1873; G. Piloni, Historia della città di Belluno, Venezia 1607 (rist. anast. Bologna 1969); L. Lanzi, Storia pittorica della Italia, Bassano 1795-1796 (18093, III, p. 14).
Letteratura critica. - S. Ticozzi, Storia dei letterati e degli artisti del Dipartimento della Piave, Belluno 1813, pp. 2-3; F. Miari, Compendio storico della regia città di Belluno e sua antica provincia, Venezia 1830; G. Alvisi, Belluno e sua provincia, Milano 1858; F. Miari, Cronache bellunesi inedite, Belluno 1865; F. Pellegrini, Ricerche sulle condizioni politiche di Belluno e sua provincia fino al 1150, Belluno 1870; G. De Donà, Storia dei decani del Capitolo della Cattedrale di Belluno, Belluno 1878; A. Fiammazzo, Codici veneti della Divina Commedia. Il Lolliniano di Belluno, Udine 1889; F. Pellegrini, Catalogo dei pittori bellunesi dal secolo XIV in poi, Belluno 1892; A. Fiammazzo, Le rubriche del Lolliniano e d'altri codici del ''cento'', Feltre 1901; A. da Borso, Pittori bellunesi, Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore 39, 1968, pp. 1-13: 1-2; F. Tamis, La Cattedrale di Belluno, Belluno 1971; Guida alla Cattedrale di Belluno e alle Chiese di S. Pietro, della B.V. della Salute, del Battistero o M. delle Grazie, Belluno 1973; A. Alpago Novello, Monumenti altomedievali inediti nella Val Belluna, "Atti del III Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, Aquileia e altrove 1972", Trieste 1974, pp. 525-542; P. Rugo, Le sculture altomedievali delle diocesi di Feltre e Belluno, Cittadella 1974; G. Dalla Vestra, I pittori bellunesi prima dei Vecellio, a cura di D. De Paoli Benedetti, cat., Verona 1975, pp. 21-33, 232-235; L. Alpago Novello Ferrerio, Tesoretto aureo longobardo proveniente da Belluno, ora al British Museum, Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore 48, 1977, pp. 170-173; L. Gargan, Cultura e arte nel Veneto al tempo del Petrarca, Padova 1978, p. 288; F. Vizzuti, Un chiarimento sulla scultura altomedievale ad intreccio e suoi esempi nel bellunese, Dolomiti 2, 1979, 2, pp. 39-41; A. Giacobbi, La chiesa di S. Andrea di Belluno nel 1607, ivi, 5, pp. 9-17; M. Lucco, I dipinti del Museo Civico di Belluno, ivi, 6, pp. 31-32; F. Tamis, La chiesa bellunese dalle origini al VII secolo, Belluno 1979; Catalogue of Important Old Master Paintings, Sotheby's-London, 10 dicembre 1980, nr. 47; Catalogo del Museo Civico di Belluno. I dipinti, a cura di M. Lucco, Venezia 1983, pp. 1-2; G. De Bortoli, A. Moro, F. Vizzuti, Belluno. Storia architettura arte, Belluno 1984; R. Canova Dal Zio, Le chiese delle Tre Venezie anteriori al Mille, Padova 1986, pp. 63-66; P. Zanovello, M. Rigoni, I territori alpini, in Il Veneto nell'età romana, II, Note di urbanistica e di archeologia del territorio, Verona 1987, pp. 443-455; Carta archeologica del Veneto, a cura di L. Bosio, I, Modena 1988, pp. 87-109; L. Lazzaro, Regio X - Venetia et Histria. Bellunum, Supplementa italica, n.s., 4, 1988, pp. 307-343; B. Zanenga, Sull'edizione anastatica del codice Lolliniano n. 35, Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore 59, 1988, pp. 25-32.
Il territorio che amministrativamente fa capo a B. comprende, oltre all'area bellunese in senso stretto, il Feltrino e il Cadore. L'intera zona era abitata fin dall'epoca preromana, ma conobbe un notevole sviluppo in età romana, soprattutto dopo l'apertura della via Claudia Augusta Altinate, che conduceva ab Altinum usque ad Danuvium; a Cesiomaggiore tale arteria incontrava un'altra via che collegava Feltre a B. e da qui proseguiva lungo il Piave verso il Cadore. Come B. anche Feltre divenne municipio romano fra il 49 e il 42 a.C., iscritto alla tribù Menenia, mentre il Cadore facente capo al municipium Iulium Carnicum era iscritto alla Claudia. Feltre, in particolare, è ricordata anche da alcune fonti letterarie, tra cui Plinio il Vecchio (che la annovera tra i Raetica oppida; Nat. Hist., 3, 130) e Paolo Diacono (Hist. Lang., III, 26).Gli scavi condotti negli anni 1970-1976 hanno messo in luce, sotto il sagrato del duomo di Feltre, un complesso di grande interesse, attestante il susseguirsi di edifici di varie epoche (romana, paleocristiana e altomedievale). Particolarmente significativo il battistero risalente al sec. 5° (posto a occidente della primitiva cattedrale paleocristiana), con pianta circolare a due anelli concentrici, che dava luogo a un deambulatorio desinente in un'absidiola; al centro era posta la vasca battesimale ottagonale (già rinvenuta e smontata nel 1926). L'edificio seguì le vicissitudini della vicina basilica, distrutta dai Longobardi; successivamente funse da battistero l'antica chiesetta del Rosario (completamente riattata nel 1610), in origine dedicata a s. Lorenzo martire (attualmente all'interno vi si conserva una vasca battesimale datata 1399).A Lamón, posta sulla già citata arteria militare romana, fu scoperto nel 1836, in una grotta presso San Donato, un calice, attualmente conservato nella canonica della suddetta località; si tratta di una monumentale coppa in argento sbalzato (cm. 3520), che reca sul bordo superiore un'iscrizione a niello ("De donis Dei Ursus diaconus sancto Petro et sancto Paulo optulit"). Finora l'analisi del testo ha permesso solo vaghe ipotesi sull'identità del committente e/o donatore, sulla destinazione dell'oggetto sacro e, prima ancora, sulla sua provenienza, nonché sulla datazione (le proposte oscillano dal sec. 5° al 9° e, in particolare, sono stati avanzati confronti con i calici del c.d. tesoro di Galognano, ritrovato a Pian de' Campi e conservato nel convento di S. Lucchese vicino a Poggibonsi). Le ultime ipotesi propongono una datazione dell'opera in una fase prelongobarda (sec. 6°), nonché possibili rapporti con l'Oriente bizantino, probabilmente mediati tramite i centri paleocristiani del Veneto orientale. Di grande rilievo sono anche i pezzi rinvenuti nelle rovine del castello di Arten, presso Feltre, nel 1875; insieme ad altri oggetti preziosi andati dispersi furono scoperti una patera d'argento (diametro cm. 29), generalmente datata agli inizi del sec. 6°, con una figurazione mitologica letta come gli Amori di Venere e Adone (forse con risemantizzazione nel senso di un'allegoria del matrimonio), ora a Parigi (BN, Cab. Méd.; acq. 1897, già Coll. Jérôme Pichon) e un missorium (diametro cm. 50), parimenti emigrato a Parigi, al cui centro è incisa a graffito una stella a ventotto punte attorno alla quale gira l'iscrizione "Geilamir rex Vandalorum et Alanorum". Un ulteriore importante rinvenimento si ebbe nel 1937 a Castelvint (presso Mel), allorché venne scoperta una patera, ora a Venezia (Mus. Archeologico), con il Bagno di Pallade Atena, ovvero Atena e Tiresia (secondo la versione del mito codificata da Callimaco, Lav. Pall.), per la quale viene proposta una datazione tra la fine del sec. 4° e gli inizi del 6° (Calvi, 1979; 1980). Il rinvenimento, nello stesso sito, in anni successivi, di diversi oggetti piccoli e grandi poi andati dispersi, nonché di due monete - un follis di Giustiniano I della zecca di Cizico del 545-546 e un tremisse coniato dai Goti a Ravenna a nome di Giustiniano tra il 555 e il 565 -, ha fatto pensare che la milizia di presidio a Castelvint fosse bizantina (ultimo avamposto dei Bizantini rimasti in Oderzo, caduta solo nel 639), "proprio nel periodo in cui nettamente risulta, dalla intitolazione e dalle caratteristiche della chiesetta di San Donato di Zumelle, che quel castello e la importantissima via militare erano in mano ai Longobardi" (Alpago Novello, 1970). Anche il piatto di Castelvint avrebbe costituito parte di un tesoretto occultato nel corso del sec. 6°, con vicenda analoga a quella ipotizzata da Fiocco (1955) per la patera di Arten, quivi portata da un condottiero bizantino preposto al castello sorto a difesa di Feltre, quale preda bellica dei Vandali di Geilamiro.Un'ulteriore serie di sedici reperti (ribattini d'oro, linguette, placche e fibbiette d'argento, ecc.), conservati presso il Mus. Civ. di B. e di recente casualmente rinvenuti in una tomba a piastre di pietra, sempre a Castelvint, appartiene senz'altro, come proposto da von Hessen (1985), al ricco corredo funebre di una tomba maschile databile all'ultimo trentennio del sec. 6°; la sepoltura del nobile longobardo - che tra l'altro indossava un abito ornato di broccato d'oro, come lasciano pensare i gr. 29,95 di fili d'oro recuperati - si trovava entro la cappella di una rocca. Ciò che rimane dei doni funebri (la tomba infatti deve essere stata saccheggiata nel passato) ha fatto supporre il loro legame con il primo comandante longobardo di questo presidio fortificato, posto in posizione strategica tra B. e Feltre.Va anche ricordato che alcune delle numerose necropoli, prevalentemente di origine romana, rinvenute nell'intero territorio bellunese dimostrano di essere state mantenute in uso senza soluzione di continuità fino al Tardo Antico e oltre: un esempio può essere quello di Polpet, presso Ponte nelle Alpi (rinvenimenti casuali da scasso, dal 1840 al 1969, databili dal sec. 1° al 5° e oltre). Un cenno meritano altresì i corredi funerari (prevalentemente databili ai secc. 6°-9°) rinvenuti in una serie di sepolture nell'Agordino (Voltago, Valle Agordina, ecc.), resi noti in particolare da Tamis (1982).Allineati lungo il tracciato della grande strada militare romana o a essa contigui, sorsero in epoca altomedievale e preromanica numerosi edifici religiosi solitamente di piccole dimensioni e ad aula unica triabsidata (con absidi in spessore di muro, ornate da colonne libere o addossate anteposte alle tre nicchie, oppure con una o tutte e tre le absidi esorbitanti all'esterno). Va inoltre citata la chiesa feltrina di Ognissanti (sulla cui facciata è il sarcofago Rainoni, del sec. 13°), sorta extra moenia forse come basilica cimiteriale, con l'adiacente campanile - datato da Salmi (1952) al sec. 9°-10° in base al raffronto delle finestre geminate della cella con quelle di S. Maria delle Cacce a Pavia - e l'aula quandrangolare attualmente adibita a sacrestia. La chiesa, il cui impianto originario risalirebbe al sec. 8°, presenta la parte terminale tripartita, coperta da tre volticine a crociera, rette da due colonnine dai capitelli decorati con ricca vegetazione di fogliame e un volto umano dai lineamenti stilizzati, mentre altri due capitelli rovesciati, dalle larghe e rade foglie lanceolate, fungono da base. Da ricordare, inoltre, il S. Donato di Zumelle, con tre absidi a terminazione piatta con arcate a imposta allargata, precedute da un ambiente rettangolare più largo che profondo. Resti di una più antica cappella inferiore, incorporata in parte nella fondazione del castello, a m. 3 ca. di profondità, sono apparsi durante gli scavi eseguiti negli anni Sessanta; si tratta di un ambiente rettangolare, a navata unica con abside semicircolare illuminata da una monofora a doppia strombatura. La zona presbiteriale è divisa da un setto trasversale in muratura con gradone verso l'abside - presente anche sul fianco nord - e passaggio centrale, da leggersi quale parte basamentale di un'iconostasi (tra i vari reperti sono anche due capitelli).Sussiste tuttora un numero piuttosto consistente di rilievi altomedievali riferibili al territorio corrispondente alle due diocesi di Feltre e di B., in origine nettamente distinte (la loro unione avvenne nel 1197, quando Drudo, vescovo di Feltre, ebbe da papa Celestino III autorità civile e religiosa su entrambe le diocesi, dopo la morte di Gerardo da B.); si tratta di capitelli, pilastrini, lastre di vario tipo, spesso frammentarie, variamente databili dalla fine del sec. 6° al 10°-11° (Rugo, 1974). Tra di essi vanno ricordati i plutei murati sulla facciata della chiesa di S. Fermo a Baldeniga, nell'ex parrocchiale dei Ss. Faustino e Giovita a Bolago di Libano, nella canonica vecchia di Cadola, nella chiesetta di S. Giovanni a Marès di B., nella sacrestia di S. Lucano a Paderno a San Gregorio nelle Alpi (proveniente da S. Martino in Valle), nella chiesa di S. Daniele - ora S. Liberale - di Pedeserva, nella chiesa dei Ss. Ermagora e Fortunato a Santa Croce di Farra d'Alpago, nella chiesa di S. Sebastiano a Travazzoi.La riscoperta della cripta della cattedrale feltrina avvenne casualmente nel 1900, dopo che, per oltre tre secoli, essa era stata in parte sepolta, in parte chiusa. Nuovi scavi e il completo ripristino datano al 1937, a opera di Alpago Novello (1939), cui si deve un dettagliato resoconto dei numerosi ritrovamenti di frammenti (di epoca romana, paleocristiana, altomedievale) e l'attento esame delle strutture incontrate durante i lavori. Assegnata alla seconda metà del sec. 11°, la cripta presenta una pianta longitudinale suddivisa in tre navatelle uguali, coperte da volte a crociera, in una successione di sette file di campatelle scandite da sei coppie di sostegni (colonne e pilastri, con basi e capitelli eterogenei, per lo più costituiti da materiale di reimpiego). La cattedrale, secondo le fonti storiche, subì devastazioni e incendi già nei secc. 12° e 13° e poi nuovamente nel 1509-1510, quando l'intera città fu saccheggiata.Nel campo delle c.d. arti applicate merita particolare attenzione un altare portatile o capsella per reliquie (in legno, argento, rame dorato e marmo, cm. 31188,5), che appartiene al tesoro della cattedrale di Feltre e che è per la prima volta ricordato nella visita pastorale del vescovo Jacopo Rovellio del 1585. L'opera, che reca sulle quattro facce le immagini degli apostoli a mezza figura, è databile tra il sec. 11° e il 12°; l'altare esibisce (Claut, 1984) un linguaggio che rinvia a una cultura di tradizione ancora ottoniana e abbastanza simile a quella delle figure incise sul calice conservato a Cividale, di origine tedesca e datato al 10° secolo. Va inoltre segnalata una croce processionale tardotrecentesca, ora conservata nella chiesa di S. Maria Maddalena a Porcen, forse proveniente dalla non lontana distrutta chiesa di S. Zenone a Seren, simile a quella conservata in S. Raffaele a Venezia (Claut, 1983).Da ricordare inoltre l'esistenza di ospizi, in particolare i tre posti sulle rive del Cordevole e citati dai documenti fin dal sec. 12°: S. Maria Maddalena di Agre, presso Agordo, S. Giacomo di Candateno (o Campo d'Atino) e, il più noto, S. Marco di Vedana, ricordato in una bolla di Adriano IV (1155) e in una sentenza del vescovo di Ceneda (1188), le cui fortune, in declino nel primo Quattrocento, risorsero allorché l'ospizio passò ai Certosini (1456).Il monumento senza dubbio più importante conservato nell'area del territorio bellunese è il santuario dei Ss. Vittore e Corona sul monte Miesna presso Feltre. Fundator aulae risulta il crociato feltrino Giovanni da Vidor, padre del vescovo di Feltre, Arpone, come si evince dal testo datato 1096, iscritto sulla lastra del suo sarcofago e posto sulla parete esterna del martyrium, ora sacrestia; un'ulteriore epigrafe sull'arca dei martiri reca due scritte commemorative della dedicazione dell'edificio (1101) e della reposizione delle reliquie effettuata nel 1355, quando Carlo IV di Boemia visitò il santuario, asportandone, grazie ai buoni uffici del vescovo di Feltre Jacopo da Brno, il capo di s. Vittore e un braccio di s. Corona.Piuttosto singolare è la pianta dell'edificio, che sul corpo centrale rettangolare innesta un'abside quadrata a E e un pronao a O; nonostante lo sviluppo longitudinale, il nucleo centrale della chiesa si presta a una lettura analoga a quella di una pianta accentrata, visto che lo spazio interno ruota attorno ai soli quattro massicci pilastri centrali, che reggono un sistema di volte a crociera; i bracci del transetto sono invece coperti da volte a botte, mentre la crociera impostata sull'incrocio risulta nettamente più alta delle altre. Se il problema di un'eventuale modifica dell'alzato, e conseguentemente delle coperture, nel prosieguo del Medioevo è ancora discusso (si ha tra l'altro ricordo di una riconsacrazione nel 1389), è l'abside quadrata con funzione di martyrium che, per la sua ispirazione orientale, ha attirato l'attenzione degli studiosi, a motivo della particolare soluzione architettonica che prevede uno sviluppo su due piani, grazie a una loggetta che corre sui tre lati chiusi, a m. 3 ca. d'altezza. Essa è caratterizzata dalla presenza di archetti a tutto sesto che poggiano su dieci preziose colonne di marmo sormontate da eleganti capitelli a paniere, otto dei quali lavorati a niello secondo la tecnica in uso a Venezia e diffusa in una serie di edifici di derivazione contariniana, mentre i due rimanenti capitelli sono decorati con caratteri cufici sempre a niello (ma a lavorazione invertita), di certo importati dall'Oriente islamico. Tutto lascia supporre che da un atelier lagunare sia stato prodotto anche il già ricordato sarcofago di Giovanni da Vidor, custodito nell'adiacente sacrestia ottocentesca, sostenuto da due colonne di marmo con splendidi capitelli a foglie d'acanto mosse dal vento, con lavorazione a trapano; il motivo decorativo a foglie d'acanto spinoso ritorna anche nel bordo esterno del sarcofago, mentre una raffinata fascia a girali fa da cornice all'iscrizione.Ricoperte nel sec. 17° da intonaci e stucchi, le pitture murali che ricoprono quasi completamente l'interno del santuario vennero messe in luce tra le due guerre mondiali. Particolarmente interessanti, quali esempi affatto secondari di diffusione diretta dei modi di Giotto a Padova, si rivelano gli affreschi sui lunettoni del presbiterio (Giudizio finale a sinistra, Madonna della Misericordia e Ultima Cena a destra), databili entro il primo quarto del 14° secolo. Al 'compagno di Tomaso' (Coletti, 1930-1931), ovvero al tomasesco Maestro di Feltre (Gibbs, 1989), autore della Madonna Rinaldi in S. Francesco a Treviso, datata 1351, spettano nel santuario feltrino i Padri della Chiesa, sopra le arcate della loggia nel vano absidale, i busti di angeli nell'intradosso dell'arco trionfale, le testine dei ss. Vittore e Corona sul semipilastro destro, nonché l'arcangelo Michele e S. Vittore sulla parete esterna sopra la porta laterale; la decorazione è presumibilmente assegnabile agli anni 1355-1358, come possibile committenza di Carlo IV di Boemia. Entro il sesto decennio del Trecento sembra databile anche il ciclo con Storie del martirio dei ss. Vittore e Corona, che trova posto in registri sovrapposti sulle pareti del braccio sinistro del transetto; pur nel cattivo stato di conservazione, gli affreschi consentono una lettura stilistica in chiave bolognesizzante. La decorazione del santuario feltrino è completata da una serie di figure isolate di santi, attribuibili a mani diverse e spesso di qualità non elevata, variamente scaglionabili in un arco di tempo che va dal sec. 13° al 15° inoltrato.Nel Cadore, sicuro interesse riveste la decorazione pittorica della chiesa di S. Margherita di Salagona, costruita secondo la tradizione locale dai Caminesi - signori del Cadore fino al 1335 -, unica testimonianza superstite dell'antico borgo, scomparso forse a causa di un incendio verso la metà del sec. 16°, che si trova nella vallata cadorina in prossimità di Laggio. L'edificio religioso, di modeste dimensioni e ad aula unica rettangolare, ricordato in documenti del 1285 e del 1311, è riccamente affrescato; due distinti pittori, operanti presumibilmente a brevissima distanza di tempo l'uno dall'altro, si succedettero nel lavoro tra gli ultimi decenni del 13° e gli inizi del 14° secolo. Al frescante di formazione più antica spettano i riquadri sulle pareti sud, ovest e nord (la Natività, Daniele e Abacuc, la Missione degli apostoli, una teoria di apostoli, S. Paolo e un santo vescovo, S. Cristoforo), mentre al secondo frescante spettano i rimanenti riquadri sulle pareti nord ed est (la Vergine in trono con il Bambino tra s. Susanna, s. Giuliana e s. Martino; Cristo in trono con s. Pietro, la Vergine e s. Giovanni; S. Margherita e il drago; il Martirio di s. Margherita). I due artisti, peraltro non insensibili a modi più occidentali, sembrano provenire dall'area trevigiana, da un ambiente influenzato da correnti venezianeggianti: clima figurativo che rimanda a una koin'e linguistica latamente veneta di tardo Duecento, che si potrebbe definire 'postgaibanesca' ovvero 'prepaolesca'. Di fatto, le analogie più evidenti, riscontrabili puntualmente anche nelle cornici o fasce decorative, vanno ricercate in opere quali per es. gli affreschi del battistero di S. Giovanni di Treviso, o nel secondo strato di S. Pietro di Feletto, o ancora nella cassa della beata Giuliana (Venezia, Mus. Correr).L'esempio più evidente di derivazione dalla maniera inaugurata da Giovanni da Gaibana sembra comunque riscontrabile nei due riquadri superstiti nella chiesetta di S. Anna a Foèn presso Feltre, dove in particolare la Madonna con il Bambino sembra una replica puntuale, a opera di un ritardatario, dell'Eleúsa in Santa Sofia a Padova.Nel medesimo contesto stilistico succintamente tratteggiato per la decorazione di S. Margherita di Salagona va inserito anche il ciclo della chiesa di S. Caterina a Ponte nelle Alpi. I riquadri affrescati nel corpo rettangolare più antico dell'edificio, scoperti nel 1950 e restaurati nel 1961, propongono una lunga serie di santi - alcuni dei quali identificabili: s. Martino, ss. Ermagora e Fortunato, s. Francesco, s. Maria Maddalena, ss. Pietro e Paolo, s. Apollonia, ecc. - ed episodi tratti dal Vecchio e Nuovo Testamento (Natività, Cristo alla colonna, Crocifissione). Fra tutte vanno notate le scene raffiguranti la Natività e Daniele con il profeta Abacuc, nelle quali ricompare il medesimo soggetto presente a Salagona, anzi lo stesso 'modello', ma rovesciato, tanto da far pensare all'uso dei medesimi cartoni, che circolavano all'interno di un'unica bottega. Nonostante il mediocre stato di conservazione, è possibile intravvedere nella formazione del frescante la direttrice che, con tappa a Treviso - si pensi all'illustre, dotto prototipo della Crocifissione nel capitolo di S. Niccolò - porta a Venezia, centro propulsore che nella seconda metà del sec. 13° esporta nell'entroterra una congerie di esperienze diversamente dosate, in un gioco alterno di caratteri bizantineggianti e di elementi tardoromanici.Notevole rilievo riveste il ciclo di affreschi della chiesa di S. Orsola a Vigo di Cadore; mai ricoperti dallo scialbo e già ricordati da Vecellio (1590), gli affreschi hanno goduto di buona fortuna critica (Cavalcaselle, Crowe, 1887; Rapozzi, 1961; Franco, 1985). L'edificio, di modeste dimensioni e a pianta rettangolare, risulta già edificato il 1° marzo 1345, quando Ainardo da Vigo, figlio di Odorico, podestà del Cadore per conto dei Caminesi, istituì un beneficio e dotò la chiesa, la quale fino al luglio del 1348 non risulta però ancora consacrata, fatto avvenuto poco dopo nel 1349 o nel 1350. In facciata si conservano due riquadri trecenteschi affrescati, raffiguranti la Vergine con il Bambino e angeli e S. Cristoforo, quest'ultimo rovinato in basso da una finestra aperta nel Seicento; i lavori compiuti nel sec. 17° danneggiarono anche parte della decorazione interna, specie a causa dell'apertura della cappella di S. Lazzaro e della sacrestia sul fianco sinistro. All'interno, sulla parete di fondo, domina in alto la scena della Crocifissione, cui corrisponde sulla controfacciata una mutila scena di S. Giorgio e il drago; sulla volta ogivale nel cielo stellato sono poste le figure della Vergine con il Bambino e i simboli degli evangelisti entro tondi. Ma sono senz'altro le Storie di s. Orsola, campite in dieci riquadri tutt'attorno sulle quattro pareti, a catalizzare l'attenzione dello spettatore; le singole scene sono state lette come segue: Ambasciata al re di Bretagna, Preghiera di Orsola e del padre e apparizione di un angelo, Battesimo di Eterio, Arrivo a Roma, Navigazione verso Colonia, Martirio delle vergini, Martirio di s. Orsola, Esequie, Gloria finale, Apparizione di s. Orsola al monaco morente. Tre personaggi reggivelario movimentano infine il finto tendaggio che conclude nella zona basamentale la decorazione ad affresco. Iconograficamente gli affreschi non sembrano dipendere dal famoso ciclo dipinto da Tomaso da Modena in S. Margherita a Treviso, ora nella chiesa di S. Caterina; maggiori affinità semmai si possono riscontrare con il polittico già Queroy, attribuito a Paolo Veneziano, evidenziando per questa via una precedenza anche cronologica rispetto al capolavoro tomasesco.Gli affreschi di Vigo rimandano però chiaramente all'ambito trevigiano, dove, intorno alla metà del sec. 14°, contemporaneamente all'opera di Tomaso, si attuano anche esperienze in realtà stilisticamente assai vicine a quelle del pittore attivo nel centro cadorino, documentate dagli affreschi nelle chiese di S. Francesco e di S. Niccolò e dal trittico-reliquiario datato 1352 (Treviso, Mus. Civ. Luigi Bailo); l'anonimo frescante cadorino - individuato con il pittore Vitulino da Serravalle, documentato a Domegge nel 1330, o con il figlio Bernardo, operante a Cortina nel 1356, ma senza valide prove - denota comunque una formazione complessa che, partita da premesse arcaizzanti di snervato postgiottismo, si aggiorna poi sui maggiori fatti artistici tardoriminesi e bolognesi in ambito veneto e friulano (dalla cappella Vecchia di S. Salvatore di Collalto, agli affresci di Vitale). Il problema della datazione è strettamente legato a quello della committenza e quest'ultima non può prescindere dall'identificazione dei 'ritratti' dei committenti, dipinti di profilo, devotamente inginocchiati ai piedi di s. Orsola nella scena della Gloria, che due scritte graffite qualificano come Ainardo e Margherita (Margherita di Leisach, moglie di Ainardo, era l'erede principale, insieme al fratello Iosto, dei beni del marito; rimasta vedova si risposò con Federico, detto Pandolfo, di Lienz). Ma altre ipotesi (Franco, 1985) indicano piuttosto come committente del ciclo Pandolfo di Lienz, datando quindi l'opera tra il 1353 e il 1355. La tendenza pittorica inaugurata a Vigo non sembra aver séguito nelle valli bellunesi; ad ambito prettamente veneziano va infatti riferito il trittichetto tardotrecentesco ora conservato nella sacrestia della chiesa arcidiaconale di Pieve di Cadore, nel quale si è voluta recentemente riconoscere la mano di Catarino Veneziano (Lucco, 1986).
Bibl.:
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