Ben so che fosti figliuol d'Alaghieri
Sonetto terzo di Forese, ultimo della tenzone con D. (Rime LXXVIII).
Replicando alle veementi accuse dell'avversario, basta a Forese, " calmo, pronto, sarcastico [così il Barbi], ribattere un chiodo solo ": ‛ Quanto a te, nessun dubbio sulle tue origini: è il sangue di Alighiero che t'ha spinto a vendicare così presto (cioè, non ancora, dopo tanti anni) l'onta da lui subita l'altr'ieri (leggi: tanti anni fa!) nel cambio dell'aguglino (nel corso di un'imprecisata operazione finanziaria) '.
L'aguglino, o aquilino, è moneta con l'aquila imperiale, nominata spesso accanto al fiorino in documenti e poeti del tempo, per es. nell'Angiolieri: " Sed i' avess' un sacco di fiorini, / e non ve n'avess'altro che de' nuovi / ... con cinquecento some d'aquilini ... ". Ignota, è l'offesa subita da Alighiero a cagione o in occasione del cambio: perché invendicata, potrebbe anche far tutt'uno col laccio metaforico in cui geme l'ombra di lui, nel primo sonetto di Forese, a scapito dell'ipotesi, tanto più suggestiva, che sia Alighiero debitore insolvente di denari guadagnati a usura e supplichi aiuto dallo squattrinato Forese.
Dopo l'ammissione sarcastica dell'inizio il sonetto scopre le carte della vigliaccheria di D. che, non solo sfugge all'impegno d'onore della vendetta, ma si affretta, per smodata paura, a fare pace col nemico, peggio a vezzeggiarlo come fratello e amico, introducendo in Firenze la bella usanza di offrire il dosso e fraternizzare con chi ci picchia. " L'istituto della vendetta privata, nota il Sapegno (If XXIX 13 ss.), era ai tempi del poeta un diritto tutelato dalla legge e un dovere d'onore per tutti i parenti dell'offeso... " e cita Benvenuto: " Cum omnes naturaliter tendant ad vindictam, Fiorentini maxime ad hoc sunt ardentissimi et publice et privatim ". " Non si dimentichi però che il diritto della vendetta, antico e in quei tempi ancor lontano dall'estinguersi, s'era andato via via attenuando ed era già, negli statuti, circoscritto da molteplici riserve... È lecito supporre che anche in Dante la meditazione del messaggio cristiano e l'alto senso della giustizia e dalla pace... avessero determinato, quando scriveva ", nel poema, l'episodio di Geri del Bello, " un atteggiamento di distacco e di superiorità nei riguardi di certe superstiti usanze barbariche dei suoi contemporanei " e sia pure di pietà " che comprende e compatisce, ma non è mai indulgenza e tanto meno rinunzia ad un ideale etico superiore ". I sonetti della tenzone, se testimoniano, dal lato di Forese, perfetta acquiescenza al pregiudizio mondano della vendetta (meschina nell'insistenza e plebea nel linguaggio), non offrono, dalla parte di D., che silenzio. " Da nessuna delle sue parole ", qui come poi nell'incontro con Geri " traspare il rimpianto di una vendetta mancata ".
Quanto al v. 11, rileva finemente il Del Monte che, nella palinodia di Pg XXIII, Forese si rivolge in totale abbandono all'amico con quell'appellativo di ‛ fratello ' (O dolce frate, v. 97, Deh, frate, v. 112) che, nel sonetto, gli aveva rinfacciato di riservare, per viltà, a " qual ti carica ben di bastone ".
Nell'ultima terzina, " v'hanno posto su " è inteso dal Barbi: molti " hanno fatto assegnamento sulla viltà dimostrata da Dante per caricarlo, all'occasione, di bastonate, visto che quello è il mezzo migliore per spuntarla con lui "; e " metter la ragione " è spiegato dallo stesso Barbi come dal Casini e dal Contini: " fare i conti per saldare la partita " (rationem ponere), onde il senso delle parole di Forese può ben essere: " Ce ne siamo dette tante, che è meglio far i nostri conti e finirla! ". Poiché l'espressione si può tirare al semplice senso di " computare ", altri spiega: " ti potrei dire il nome delle persone del v. 12, ma non finiremmo più; ti dirò piuttosto il numero: porta qua del panico, ché possa fare il conto ! " (fave e lupini non servono a un calcolo di tale entità). Altri (Mattalia) segue come più comprensiva la chiosa del Torraca: " è una forma nuova o poco usata dell'ipotesi per impossibili. Alle solite stelle del cielo, alla solita arena del mare, Forese sostituisce i granelli del panico: sarebbe più facile contare i granelli minutissimi del panico che non i nomi delle persone che hanno dato una mano a caricarti - o han giurato di caricarti - di bastonate ". Delle tre, più piana e significativa sembra la spiegazione del Barbi, che denuncia un moto di stanchezza (quasi fioco anticipo di versi famosi più tardi indirizzati a D. dall'Angiolieri: " remproverare / poco pò l'uno l'altro di noi due: / sventura o poco senno cel fa fare ", Dante Alighieri, s'i' so' bon begolardo 9-11) e il desiderio di por termine al già lungo diverbio.
Segnalata per D. particolarmente al v. 11 del sonetto Bicci novel, figliuol di non so cui, la lettura di Cecco, come di altri rimatori della stessa area, affianca la tematica e le forme di questo e non solo di questo sonetto di Forese: cfr., di Cecco, gli ‛ aquilini ' già citati e la prima quartina del sonetto Quanto un granel de panico è minore; di Meo dei Tolomei, il tema della povertà-onta (Da te parto 10-11) e, su tutti, quello della vigliaccheria del fratello Mino Zeppa (Per Die, Min Zeppa): cui " fu dato d'un matton biscotto / nel capo, ch'e' ne seria mort'un bue " (vv. 3-4) e ciò nondimeno " non ch'una pace n'hai fatta, ma otto / ... vitoperato più ch'anch'uom non fue " (vv. 6-8).
Al v. 3 " bella e netta " (riferito a " vendetta ") punge l'orecchio per affinità col v. 12 del son. CXLI del Fiore, che, delle gioiellette, canta: Reguarda com'elle son belle e nette.
La struttura, se non la pregnanza, metrica è la stessa del sonetto conclusivo di D.: Abba, Abba, Cdc, Dcd. È stato notato che il v. 10 (" che qual ti carica ben di bastone "), endecasillabo con accento sulla quarta e sdrucciolo ‛ intatto ' dopo di essa, non ha riscontri nella metrica di Dante. Per la tradizione manoscritta del sonetto, v. TENZONE CON FORESE.