Bene comune e fraternità
Tra 11° e 14° sec., la società e l’economia europee sperimentano una profonda trasformazione strutturale che vede l’emergere di un’economia commerciale; l’affermarsi di una cultura urbana; il graduale e massiccio impiego della moneta nelle transazioni economiche. Innovazioni tecniche, bonifiche e dissodamenti, nuove vie di comunicazione, nuove e più efficaci forme della contrattualistica commerciale sono all’origine di crescenti aumenti di produttività e di un graduale processo di trasformazione della società rurale.
La rottura dell’immobilismo che inizia con l’11° sec. si accompagna alla ripresa dei traffici nel Mediterraneo e al conseguente impulso al movimento delle carovane transcontinentali; all’ampliamento delle magioni feudali che attirano a sé il nuovo ceto di artigiani-mercanti, il ceto cioè di persone che, prive di terra, devono ‘inventarsi’ un lavoro; allo spostamento del baricentro dell’ordine sociale dalla campagna alla città. Sono le città, infatti, a offrire le condizioni favorevoli per l’insediamento dei ‘nuovi cittadini’ che, in numero crescente anche a causa dell’aumento della popolazione, hanno bisogno di libertà, di movimento e di progettazione per portare a compimento i loro piani di vita. Le nuove opportunità che la città offre e l’intensificazione dei flussi commerciali favoriscono l’accumulazione di quote rilevanti di ricchezza mobiliare nelle mani di alcuni segmenti di popolazione, dal momento che solamente una frazione minoritaria di soggetti è capace di cogliere e sfruttare appieno le nuove occasioni di arricchimento. La lotteria naturale, infatti, non distribuisce in egual misura tra le persone capacità e abilità. Coloro che vi riescono sono i grandi mercanti che operano su scala internazionale e che possono arricchirsi non a spese degli altri segmenti di popolazione – come avveniva nell’economia feudale – ma perché capaci di innovazione e dotati di alta propensione al rischio.
Il grande mercante non nasce già grande: ha necessità di risorse finanziarie per iniziare e per espandere la sua attività. Di qui la fioritura del credito come attività autonoma e di centrale importanza. Il credito rappresenta un fenomeno nuovo rispetto sia all’economia greco-romana – che utilizzava bensì la moneta, ma non il credito – sia all’economia feudale, che poco spazio concedeva a entrambi. Nell’alto Medioevo, la circolazione monetaria non era scomparsa, ma aveva subito un drastico ridimensionamento in seguito alla riduzione del volume delle transazioni. La diffusione del credito, che assolve alla duplice funzione sia di finanziamento per i mercanti sia di investimento per i risparmiatori, pone le premesse per il rilancio dell’attività bancaria che finisce con l’autonomizzarsi dagli altri tipi di commercio.
Tutti questi mutamenti costituiscono il cuore della rivoluzione commerciale, di quella profonda trasformazione della società e dell’economia europee che durò fino alla metà del 16° secolo. Iniziò in Italia, in Umbria e Toscana, ma già sul finire del 13° sec. quel processo si era esteso anche ad altre regioni, nelle Fiandre, nella Germania settentrionale, nella Francia meridionale. È questo il periodo in cui il grande risveglio mercantile dei secoli precedenti, a sua volta collegato all’invenzione di nuovi modelli di macchine capaci di aumentare grandemente la produttività, giunge a piena maturità. Il nuovo modello di ordine sociale che andò a formarsi è noto come ‘civiltà cittadina’, un modello che deve molto all’elaborazione teorica di quelli che Eugenio Garin (1947; si veda Bruni, Zamagni 2004) ha chiamato umanisti civili. Si tratta di personaggi tra loro diversi, per estrazione e per formazione, ma tutti accomunati dal desiderio di interpretare le res novae del loro tempo alla luce del pensiero del passato.
Fu la cultura monastica la matrice dalla quale scaturì il primo lessico economico che si diffonderà poi in tutta Europa. Le abbazie furono le prime strutture economiche complesse, dalle quali emerse la necessità di elaborare forme adeguate di contabilità e di gestione. L’ora et labora di Benedetto da Norcia non era semplicemente la via per la santità individuale, ma il fondamento di quella che si affermerà come una vera e propria etica del lavoro basata sul principio della mobilità del lavoro che già il giudaismo aveva affermato. Nel mondo greco, e in parte in quello romano, il lavoro non era un elemento della vita buona. Quest’ultima era piuttosto la vita politica e nella politica non v’era posto per chi lavora. Allo schiavo (o al servo) spetta infatti di lavorare. L’uomo libero non lavora, ma deve pensare e contemplare, cioè restare in otium. Inoltre, la vita dei monaci, organizzata su base quotidiana sin nei minimi dettagli, costituì l’occasione propizia per sviluppare quella forma di razionalità che in seguito diverrà nota come ‘razionalità strumentale’, ovvero la razionalità mezzi-fine.
L’esperienza del monachesimo, benedettino e cistercense, rappresentò a sua volta il punto di arrivo della lunga riflessione sulla vita economica che già i Padri della Chiesa, a partire dal 4° sec., avevano avviato con rigore sottoponendo il rapporto con i beni terreni al vaglio dell’etica cristiana. Beni e ricchezza non venivano condannati in sé, ma solo se considerati come fine ultimo e non come strumento per il raggiungimento del bene comune. In tale quadro, un contributo decisivo è quello del pensiero e dell’opera dei cistercensi. Sotto l’impulso di Bernardo di Clairvaux, l’ordine conobbe un enorme successo nella competizione con l’abbazia ‘rivale’ di Cluny in Borgogna. Abbandonata l’abbazia di Molesmes per fondare a Cîteaux (Cistercium) nel 1098 un nuovo monastero, nel quale realizzare forme di vita maggiormente in linea con il carisma benedettino, i cistercensi si trovarono subito a dover affrontare due grosse questioni di natura economica. La prima di queste riguardava l’atteggiamento da tenere nei confronti del lavoro. Mentre per i cluniacensi la sussistenza doveva essere assicurata dal lavoro delle persone a essi sottoposte – i cosiddetti secolari –, i cistercensi sostenevano invece che era illecito vivere del frutto del lavoro altrui. Donde il rifiuto sia di ogni forma di rendita sia delle decime – le due principali fonti di entrata dei benedettini di Cluny.
La seconda questione concerneva piuttosto il regime di proprietà. Mentre la Regola di Benedetto affidava all’abate il possesso di tutti i beni (individuali e collettivi) con i quali questi doveva provvedere ai bisogni dei monaci, i cistercensi rifiutavano ogni possesso, persino quello di chiese e altari. La Carta caritatis, uno dei testi più significativi ai fini degli sviluppi del discorso economico successivo (la versione finale del testo risale al 1147), è su tale punto di una fermezza irremovibile (Stercal 2007; Zamagni 2009). Quale la conseguenza, certamente non voluta, né prevista, di tale duplice atteggiamento? Che lo stile di vita dei cistercensi, ben lontano dal lusso dei cluniacensi e improntato a rigore e povertà estrema, finì per attirare l’attenzione della gente che, persuasa del buon uso che delle liberalità costoro avrebbero fatto, inondò di donazioni i loro monasteri. Accadde così che, nel giro di pochi decenni, i seguaci di Bernardo si trovarono prigionieri della contraddizione che scaturiva dalla loro stessa spiritualità: vita sobria (e quindi bassi consumi) e lavoro produttivo – il sovrappiù agricolo che riuscivano a ottenere era superiore a quello realizzato nelle imprese tradizionali – avevano creato ‘l’imbarazzo della ricchezza’ (Milis 2002; cfr. Pacaut 1970, sulla vita all’interno dei monasteri cluniacensi e sulle difficoltà gravi che tale stile di vita andò a creare a partire dall’11° sec.).
Ai francescani il merito di aver individuato la via d’uscita dall’imbarazzo della ricchezza con l’invenzione di quel modello di ordine sociale che sarà poi l’economia di mercato. Francesco, fondatore di un movimento eremitico, trasformatosi, con uno sviluppo folgorante, in ordine mendicante, recepisce da Bernardo sia il principio secondo cui i contemplantes devono essere anche laborantes, sia la regola per la quale i frati dovevano rinunciare anche alla proprietà comune. Se ne distacca però su un punto fondamentale: se si vuole trovare uno sbocco al sovrappiù generato in agricoltura e nella mercatura, e così superare l’imbarazzo della ricchezza, occorre dilatare lo spazio dell’attività economica facendo in modo che tutti possano almeno potenzialmente parteciparvi. Occorre cioè trovare il modo di far circolare la ricchezza prodotta, onde evitare che essa ristagni nelle mani di pochi.
Come Giacomo Todeschini (2007) ha autorevolmente messo in luce, il convincimento in base al quale vi sarebbe un’insanabile inconciliabilità tra «economia di profitto» ed «economia di carità» è privo di solido fondamento. Ecco perché carità e profitto potevano apparire ai magistri francescani (Pietro di Giovanni Olivi, Bernardino da Siena, Bernardino da Feltre, Bonaventura da Bagnoregio, Guglielmo di Occam e altri ancora) e ai più attenti commentatori del modello della civiltà cittadina come le due facce della medesima realtà economica. Asse portante – anche se non unico – della civiltà cittadina è l’economia di mercato, intesa quale struttura di governo delle transazioni economiche (i mercati come luoghi degli scambi già esistevano in epoca greco-romana). I suoi tre principi regolativi discendono tutti, in qualche modo, dal pensiero francescano, prima vera e propria scuola di pensiero economico, come lo stesso Joseph Schumpeter ha riconosciuto nella sua monumentale History of economic analysis (1954). Due sono le novità che il francescanesimo introdusse nell’orizzonte culturale dell’epoca. La prima è che se usare dei beni e delle ricchezze è necessario, possedere è superfluo. Il che porta a concludere che «grazie alla povertà, poteva essere più facile usare e far circolare la ricchezza» (Todeschini 2004, p. 74). La seconda novità è che, se si vuole che la povertà come virtù possa essere concretamente praticata, è necessario che sia sostenibile, cioè possa durare nel tempo. Occorre dunque imparare a gestire il denaro, creando apposite istituzioni finanziarie.
A partire dal 1241, anno della prima esposizione della Regola, l’analisi sulla povertà dei frati si allarga alla società intera. Gli uomini di cultura guardano ai «contenuti profondamente economici della scelta pauperistica di Francesco e dei suoi seguaci» non più soltanto come via verso la perfezione individuale in senso cristiano, ma come «un ordine economico-sociale della collettività nel suo insieme» (Todeschini 2004, p. 81). A Bonaventura da Bagnoregio, Ugo di Digne e John Peckham il merito di aver formulato il principio secondo cui la sfera economica, quella governativa (della civitas) e quella evangelica (secondo il carisma francescano) «sono tre gradi differenti ma integrabili di un’organizzazione della realtà». Se questa integrazione si realizza, essa genera frutti copiosi, così che ciò cui i poveri volontari rinunciano può essere impiegato per i poveri non volontari, fino alla loro tendenziale scomparsa. Ebbene, l’integrazione dei tre gradi può realizzarsi solamente entro un assetto istituzionale – il mercato – che rispetti tre principi regolativi.
Il primo di tali principi regolativi è la divisione del lavoro, intesa come modo di organizzazione della produzione che consente a tutti, anche ai meno dotati fisicamente o psichicamente, di svolgere un’attività lavorativa. In assenza della divisione del lavoro, infatti, solamente i più dotati saprebbero provvedere da sé a ciò di cui hanno bisogno. D’altro canto, la massima francescana – già nota negli ambienti popolari dell’epoca, secondo cui l’elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere, perché vivere significa produrre, e l’elemosina non aiuta a produrre – conteneva già un’implicita condanna dell’assistenzialismo, incapace di dare dignità alla vita umana. Al tempo stesso, la divisione del lavoro migliora la produttività attraverso la specializzazione e obbliga di fatto gli uomini a sentirsi reciprocamente vincolati gli uni agli altri attraverso l’attività dello scambio. Con la divisione del lavoro, infatti, lo scambio cessa di essere momento marginale ed episodico, per diventare momento centrale, dell’organizzazione della società.
Il secondo principio fondativo dell’economia di mercato è la nozione di sviluppo e, di conseguenza, quella di accumulazione. Non è solo per far fronte a emergenze future che si deve accumulare ricchezza, accantonando, anno dopo anno, parte del prodotto annuale, ma anche per dovere di responsabilità nei confronti delle generazioni future. Una parte quindi del reddito deve essere destinata a investimenti produttivi, che allargano la base produttiva e il cui senso ultimo è quello di rendere quello economico un gioco a somma positiva. Da ciò trae impulso l’organizzazione del lavoro manifatturiero e la messa in pratica di progetti di formazione delle nuove leve attraverso l’apprendistato e l’incentivo al miglioramento della qualità dei prodotti con la richiesta del ‘capolavoro’. Particolarmente eloquente, per cogliere il significato proprio della nozione di sviluppo, è la seguente affermazione di Coluccio Salutati che, sulla scia della precedente riflessione del grande Albertano da Brescia (circa 1194-1250), scrive: «Consacrarsi onestamente ad onesta attività può essere una cosa santa, più santa che un vivere in ozio nella solitudine. Poiché la santità raggiunta con una vita rustica giova soltanto a se stesso … ma la santità della vita operosa innalza l’esistenza di molti» (cit. in Nuccio 1987, p. 2573; cfr. Nuccio 1995; Vitale 2006). Come si comprende, siamo ben lontani dal canone medioevale secondo cui ogni produzione economica eccedente lo stretto necessario era da condannarsi (Est cupiditas plus habendi quam oportet).
Il terzo principio, infine, che regge l’economia di mercato è la libertà d’impresa. Chi ha creatività (e quindi è capace di innovare), alta propensione al rischio (e quindi si dispone all’azione pur non conoscendone all’inizio l’esito) e capacità di coordinare il lavoro di tanti soggetti (ars combinatoria) – queste sono infatti le tre doti fondamentali che definiscono la figura dell’imprenditore – deve essere lasciato libero di intraprendere, senza dover sottostare ad autorizzazioni preventive di sorta da parte del sovrano o di altra autorità, perché la vita activa et negociosa è un valore di per sé e non solo un mezzo per altri fini. D’altro canto, la libertà d’impresa implica la competizione economica, cioè la concorrenza, che è appunto quella particolare forma di competizione che si svolge nel mercato. Degna di nota è l’affermazione del francescano Olivi nella prima parte del trattato De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus, secondo cui
la scarsità comune di qualche cosa comporta un rincaro comune. Primo, perché chi possiede tali beni li cede più difficilmente […] Secondo, perché se in quel mercato il prezzo non venisse rialzato ciò nuocerebbe al bene comune, perché i detentori non sarebbero disposti a vendere volentieri a quelli che ne hanno bisogno; quindi meno bene si provvederebbe alla comune indigenza (cit. in Bazzichi 2008, p. 123).
Il cum-petere che si attua nel mercato, cioè la concorrenza, è conseguenza diretta della libertà d’impresa e, al tempo stesso, la riproduce. In un’economia concorrenziale gli esiti finali del processo economico non conseguono dalla volontà di un qualche ente sovrastante, ma dalla libera interazione di una pluralità di soggetti, ognuno dei quali persegue razionalmente il proprio obiettivo sotto un ben definito insieme di regole.
Cosa concretamente implica che l’interazione debba essere libera? Che nessun agente può esservi costretto con la forza, né che vi sia indotto da un qualche stato di necessità. Pertanto, la persona ridotta in schiavitù, o totalmente disinformata, oppure il povero che non è nelle condizioni di decidere, tutti costoro non soddisfano la condizione di volontarietà che è richiesta dal gioco concorrenziale. D’altro canto, la qualificazione «persegue razionalmente» postula la capacità di calcolo da parte dei soggetti economici; vale a dire la capacità sia di valutare costi e benefici delle opzioni in gioco sia di adottare un criterio sulla base del quale fare la scelta. Si badi che, contrariamente a quanto si tende a pensare, questo criterio non necessariamente deve essere il massimo profitto (o la massima utilità). Non è dunque vero che la concorrenza presuppone necessariamente l’accettazione della logica del profitto. Infatti, l’obiettivo che i partecipanti al gioco di mercato perseguono può essere autointeressato oppure di tipo mutualistico; può essere orientato al bene di un particolare gruppo di soggetti oppure al bene comune. Ciò che è rilevante è che ciascuno abbia chiaro l’obiettivo che intende perseguire; diversamente il requisito della razionalità resterebbe vanificato. Da ultimo, la concorrenza esige l’esistenza di regole ben definite, note a tutti i partecipanti e capaci di essere rese esecutorie da una qualche autorità esterna al gioco stesso. La redazione della celebre Lex mercatoria e del Codice della navigazione a opera degli stessi mercanti (e non già del sovrano) costituisce il primo esempio notevole di un diritto creato direttamente da coloro che devono poi osservarne le norme. Bisognerà aspettare il 17° sec., dopo la pace di Westfalia, con la nascita degli Stati-nazione, per arrivare alla statalizzazione del diritto.
La concorrenza, attraverso il meccanismo emulativo, stimola la propensione a intraprendere e induce al calcolo razionale. Dove c’è concorrenza non ci sono posizioni di rendita e quindi privilegi di sorta. Certo, la concorrenza è costosa, ma migliora la qualità, perché induce a ‘individualizzare’ di più i prodotti; a conferire a essi un’identità. Come accade in politica, dove la democrazia comporta bensì costi elevati, ma evita il peggioramento della qualità del vivere civile. D’altro canto, come insiste con forza Bernardino da Siena nelle sue Prediche volgari del 1427, se il fine per cui si fa impresa è quello del bene comune, i costi sociali della concorrenza non saranno mai eccessivamente elevati. Nella predica XXXVIII, intitolata De’ mercanti e de’ maestri e come si deve fare la mercantia, si legge: «Per lo ben comune si die esercitare la mercantia» (Prediche volgari sul Campo di Siena, 1427, a cura di C. Delcorno, 1989, p. 1101) e più avanti:
Cosa necessaria a una Città o Comunità si è che bisogna che vi siano di quelli che mutino [lavorino] la mercantia per altro modo; come s’è la lana che se ne fanno: lecito è che il lanaiolo ne guadagni. Ognuno di costoro possono e debbono guadagnare, ma pure con discrezione. Con questo inteso sempre, che in ciò che tu t’eserciti, tu non facci altro che a drittura. Non vi debbi mai usare niuna malizia; non falsar mai niuna mercantia, tu lo debbi far buono e, se non lo sai fare, innanzi la debbi lasciar stare e lasciarla esercitare a un altro che lo facci bene, e allora è lecito guadagno (p. 1138).
Dunque, se il mercante usa la sua ricchezza in vista del bene comune, la sua attività è non solo lecita, ma virtuosa. Si rammenti che è a Bernardino da Siena che si deve la prima sistematica definizione di bene comune dal punto di vista economico (Bazzichi 2010).
Da quanto precede si trae immediatamente la differenza tra mercato civile e mercato capitalistico. I tre principi di cui si è detto costituiscono altrettanti elementi identificativi, ieri come oggi, di un’economia di mercato, quale che essa sia. Manca però un quarto elemento, quello che dice del fine specifico perseguito da coloro che vi prendono parte. Questo può essere il bene comune oppure il bene totale. Nel primo caso si parlerà di economia di mercato civile; nel secondo caso, di economia di mercato capitalistica. L’etica delle virtù è basicamente l’etica del bene comune. È il fatto che gli scambi avvengano entro un contesto di reti di solidarietà, all’interno cioè di una comunità, a rendere legittima l’attività di mercato. Possiamo scambiare, con mutuo vantaggio, perché prima di ogni altra cosa siamo uniti da una ob-ligatio, da un legame che fa sì che lo scambio si mantenga civile. In buona sostanza, per l’etica delle virtù, è la logica della reciprocità a preservare il mercato dalle sue degenerazioni.
A partire dalla fine del 16° sec., l’economia di mercato civile inizia a trasformarsi in economia di mercato capitalistica, anche se occorrerà attendere la rivoluzione industriale per registrare il trionfo definitivo del capitalismo come modello di ordine sociale. Non è irrilevante ai fini di tale trasformazione il mutamento profondo che si registra a proposito del ruolo svolto dagli uomini di cultura dell’epoca. Come indica Canfora (2005), alla letteratura dell’Umanesimo civile di tendenza repubblicana subentra via via una letteratura cortigiana che ruota intorno ai Signori. Si afferma così una generale inclinazione degli ‘intellettuali’ a cedere alle lusinghe dei Signori, il che provoca uno svilimento delle forme di impegno civile. All’intellettuale è consentito al più di vestire i panni dell’educatore o del consigliere del principe. Alla logica del bene comune, il capitalismo sostituisce, via via, quella del bene totale, cioè il ‘motivo del profitto’: l’attività produttiva viene finalizzata a un unico obiettivo, quello della massimizzazione del profitto da distribuire tra tutti gli investitori, in proporzione ai loro apporti di capitale. È con la rivoluzione industriale che si afferma quel principio fiat productio et pereat homo che finirà con il sancire la separazione radicale tra conferitori di capitale e conferitori di lavoro e che costituirà il superamento definitivo del principio omnium rerum mensura homo che era stato posto a fondamento dell’economia di mercato all’epoca della sua nascita. Non c’è modo più semplice per convincersi che il fine del profitto di per sé non è costitutivo dell’economia di mercato che quello di riferirsi agli scritti degli umanisti civili (da Leonardo Bruni a Matteo Palmieri, da Antonino da Firenze a Bernardino da Feltre) e agli autori dell’economia civile del Settecento (Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti, Cesare Beccaria, Pietro Verri, Giandomenico Romagnosi).
La costante che ricorre in tutte le loro opere è che le attività di mercato vanno orientate al bene comune, dal quale solamente esse traggono la loro giustificazione ultima. Una delle prime trattazioni della nozione di bene comune è il De bono communi (1302) del domenicano fiorentino Remigio de’ Girolami. L’idea centrale che il testo sviluppa è che non si dà il bene della parte senza il bene del tutto in cui la parte è inserita: senza l’orientamento al bene comune, la società si distrugge e con essa i singoli individui (cfr. Bruni 2003 per una pregevole ricostruzione storica della nozione di bene comune come opposta a quella di bene particolare, dal Convivio di Dante a Francesco Guicciardini).
Ma in cosa precisamente consiste la differenza tra bene comune e bene totale? Una metafora chiarisce il punto. Mentre il bene totale può essere reso con l’immagine di una sommatoria, i cui addendi rappresentano il bene dei singoli, il bene comune è piuttosto assimilabile a un prodotto, i cui fattori rappresentano il bene dei singoli. È chiaro il senso della metafora: in una somma se alcuni degli addendi si annullano la somma totale resta comunque positiva. Anzi, può addirittura accadere che se l’obiettivo è quello di massimizzare il bene totale convenga ‘annullare’ il bene (o benessere) di qualcuno a condizione che il guadagno di benessere di qualcun altro aumenti in misura sufficiente per la compensazione. Non così, invece, con un prodotto, perché l’annullamento anche di un solo fattore azzera l’intero prodotto. Detto in altri termini, quella del bene comune è una logica che non ammette sostituibilità: non si può sacrificare il bene di qualcuno – quale che ne sia la situazione di vita o la configurazione sociale – per migliorare il bene di qualcun altro e ciò per la fondamentale ragione che quel qualcuno è pur sempre un portatore di diritti umani fondamentali. Per la logica del bene totale, invece, quel qualcuno è un individuo, cioè un soggetto identificato da una particolare funzione di utilità e le utilità – come si sa – si possono tranquillamente sommare (o confrontare), perché non hanno volto, non esprimono un’identità, né una storia. Essendo comune, il bene comune non riguarda la persona presa nella sua singolarità, ma in quanto è in relazione con altre persone. Esso è dunque il bene della relazione stessa fra persone; è il bene proprio della vita in comune. È comune ciò che non è solo proprio – così accade invece con il bene privato – e ciò che non è di tutti indistintamente – così accade con il bene pubblico.
La chiave attorno alla quale ruota il discorso sulla legittimità etica dell’attività economica di mercato è dunque la fraternità. Lo scambio di mercato è eticamente accettabile se è conforme al principio di reciprocità, se non lo distrugge. Con il che il principio del dono come reciprocità diventa la ‘via dello scambio’ nell’economia moderna. La figura moderna di imprenditore e la categoria di profitto sono figlie della cultura italiana del tardo Medioevo e della prima modernità, figure queste che si riesce a introdurre entro il corpo dell’elaborazione teologica scolastica grazie alla nozione di bene comune. I francescani furono in prima linea nella comprensione degli aspetti positivi della ‘mercatura’ e delle ‘arti’. L’una e le altre vennero definite attività necessarie alla città quando sono volte al bene comune, «chè di niuna cosa partecipa tanto il comune quanto dell’utile dell’arti e de le mercantie che vendono e si comprano» (Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, 1427, cit., p. 118). Proprio coloro che, come i membri della fraternitas minoritica, avevano fatto della povertà la loro regola di vita diventano gli specialisti della ricchezza.
Tale apparente paradosso si spiega se si considera che fondamento del pensiero francescano è il volontarismo, il principio secondo cui è la volontà a dirigere la ragione. Ad Amintore Fanfani si deve il termine di volontarismo per indicare che in economia non esiste «un ordine economico razionale naturale e cioè spontaneo; […] poiché i beni economici sono dei mezzi e fine della vita umana è la virtù, l’ordinamento della vita economica deve essere fatto in modo da consentire ai consociati di raggiungere la virtù» (Fanfani 19463, p. 31).
Muovendo da Agostino, il volontarismo francescano passa per Anselmo d’Aosta, Enrico di Gand, Giovanni Duns Scoto, fino a Occam che costituisce il punto di arrivo di tale corrente di pensiero. A differenza dell’intelletto, la volontà opera in assoluta libertà. È in questo senso che si può parlare di primato della volontà: se qualcosa esiste e se un’azione viene compiuta, la ragione di ciò va cercata nella libertà di colui che avrebbe potuto non volerla. Dunque, il bene non nega ma trascende il vero, perché propone la libertà come frontiera ultima del soggetto razionale che agisce. Il primato del bene sul vero – scrive Orlando Todisco (2005) – è «da riferire al fascino della libertà di colui che volendo ciò che avrebbe potuto non volere, imprime sulla cosa voluta i tratti indecifrabili della sua libertà, innescando un processo espansivo – il bene – che il vero fatica a contenere» (p. 368). È dall’affermazione del primato del bene sul vero che discende – come Agostino aveva anticipato nel suo Contra Faustum – sia la ricerca di modi nuovi di impostare i problemi sia la possibilità di dare vita ad assetti economici e sociali nuovi. In definitiva, affermare il primato del bene significa riconoscere quella grande verità secondo cui l’essere è dono. Infatti, se prima di essere non c’era alcunché che avesse un qualche diritto a esistere, l’essere risulta radicalmente gratuito. Come si può allora vivere possedendo e accumulando e non invece donandosi a propria volta? Se la dimensione oblativa è anteriore a quella possessiva, dal momento che siamo perché qualcuno ha voluto che fossimo, senza che noi potessimo vantare alcun diritto, come è possibile pensare di dare a nostra volta solamente a chi ne ha diritto oppure di dare solo per dovere? La voce che ci chiama all’essere ha il timbro della gratuità; dunque la fedeltà alla logica dell’essere esige che si agisca con la stessa logica, donando a nostra volta.
La stagione dell’economia civile di mercato è stata di breve durata. L’esperienza della libertà e della repubblica cedette il passo alle signorie e alle monarchie assolute, che subito si tradussero in un’epoca di autoritarismi ben lontani dalla libertas florentina della prima metà del Quattrocento, e da quella cultura cittadina. Non è allora un caso che con l’arrivo del Cinquecento la riflessione sulla vita civile subisca un arresto, e lo stesso umanista non è più l’uomo politico e impegnato come lo erano stati Bruni o Palmieri, ma – diremmo oggi – un freelance, non più inserito né nell’universitas né in città, ma un individuo solitario, girovago da una corte europea a un’altra. Anche la riflessione sulla felicità pubblica diventa una ricerca sulla felicità individualista ed epicurea, come i vari trattati di questo periodo sulla felicità stanno a indicare: Marsilio Ficino, Filippo Beroaldo, Pierio Valeriano, Lorenzo de’ Medici o Pico della Mirandola. Tutti costoro, seppur in modo diverso, scrivono che la felicità va cercata nella fuga dalle creature e dalla città, e che la vita in comune non può portare che sofferenze. Così tra Umanesimo civile e modernità si consuma una rottura: l’esperienza della vita civile si è fermata alle soglie della filosofia moderna. Nella quale, come è noto, la concezione della dinamica intersoggettiva acquista un ruolo centrale: la socialità, la vita civile, è qualcosa di estrinseco, di transitorio, di accidentale.
Quali le ragioni del mancato incontro tra vita civile e modernità? Perché quest’ultima ha posto il proprio fondamento nell’individualismo? All’aurora della modernità, si affermò una concezione dell’uomo visto come un essere individualista, guidato in ogni sua azione deliberata dall’amor proprio, frenato soltanto dall’incontro-scontro con gli interessi degli altri. Tipica di questo periodo di transizione dall’Umanesimo alla modernità (il Seicento e la prima parte del Settecento) è la domanda: «perché gli uomini scelgono di vivere in società?», come a dire che è pienamente ammissibile che possa esistere un uomo isolato prima del rapporto con gli altri.
Questa visione esclude dunque che il rapporto con l’altro sia connaturale all’essere umano, il quale, in realtà, non conosce vita altra da quella sociale. Posizioni simili le troviamo nel razionalismo cartesiano e nella Monadologie (1720) di Gottfried Wilhelm Leibniz, che ci ricorda come ogni persona sia «un mondo a parte, autosufficiente, indipendente da ogni altra creatura». Certo, si riconosce bensì il fatto che la vita reale è sociale, nel senso di associata, ma nella dinamica interpersonale si coglie soprattutto il rischio della morte stessa dell’individuo.
È al pensiero di Thomas Hobbes e di Bernard de Mandeville che si deve la risoluzione del paradosso della vita in comune attraverso la rinuncia alla vita civile. Per Hobbes ciò che gli uomini hanno in comune è la loro ‘uccidibilità’ generalizzata, e cioè il fatto che chiunque può essere ucciso da chiunque altro. Il conflitto, la competizione, la lotta per sopraffare l’altro e conquistare il potere è la condizione ordinaria degli uomini, mentre la pace e la concordia sono stati temporanei. La paura dunque è il fondamento della vita in comune. Emblematiche, e lontanissime dall’Umanesimo civile e dalla tradizione classica, sono le prime pagine del De cive (1642) di Hobbes:
La maggior parte di quelli che hanno scritto attorno agli Stati, presuppongono o richiedono, come cosa che dev’essere rifiutata, che l’uomo è un animale sociale, zòon politikòn, secondo il linguaggio dei greci, nato con una certa natural disposizione alla società. […] Questo assioma, benché comunemente accettato, è completamente falso. […] Noi non cerchiamo i compagni per qualche istinto della natura, ma cerchiamo l’onore e l’utilità che essi ci danno: prima desideriamo il vantaggio, poi i compagni (De cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di T. Magri, 1999, p. 48).
Siamo al polo opposto rispetto agli umanisti civili, e successivamente a Genovesi, Dragonetti, Verri, Romagnosi e altri ancora (Porta, Scazzieri 1996). Non una società civile che nasce dalla composizione di persone naturalmente socievoli, ma una società-Stato che può solo esistere se un patto artificiale – un contratto sociale – la crea e un Leviatano la mantiene con la forza. Nel radicalismo di Hobbes troviamo però anche un’intuizione capace di darci conto del perché il pensiero moderno abbia preso le distanze dall’Umanesimo civile: le guerre di religione e la violenza dei nascenti Stati nazionali (si rammenti che il pensiero di Hobbes si forma durante la terribile guerra dei Trent’anni) mostravano un uomo moderno liberato bensì dai lacci del feudalesimo ma incapace di dar vita a società pacifiche e felici. Davanti a un tale spettacolo, la soluzione che Hobbes vide come possibile per evitare la guerra di tutti contro tutti fu quella di rinunciare al rapporto interpersonale, delegando la mediazione intersoggettiva allo Stato-Leviatano; in altre parole, rinunciò al civile per salvare il politico, quest’ultimo inteso come sfera dello statuale. Ma – si badi – per Hobbes l’organizzazione politica è un artificio: «Per mezzo dell’arte si crea quel grande Leviatano chiamato Commonwealth o Stato (in latino, Civitas) che non è altro che un uomo artificiale» (Leviathan, 1651, Introduzione, trad. it. 1987, p. 69).
L’altro attacco all’ottimismo degli autori civili fu quello di Mandeville, con la sua celebre Fable of the bees, or Private vices, publick benefits (1714), il cui sottotitolo racchiude il messaggio centrale dell’autore: vizi privati, pubblici benefici. La favola narra la triste storia di un alveare di api egoiste che, grazie alla loro avarizia e disonestà, vivono nell’abbondanza e nel benessere. A un certo punto le api si convertono e diventano oneste, altruiste e virtuose. In breve tempo l’alveare precipita nella miseria. Rispetto a Hobbes, qui l’attacco alle virtù civili viene sferrato da una prospettiva diversa: non solo non è vero che l’uomo è un ‘animal civile’ – come aveva asserito Leonardo Bruni – portato dalla sua natura al rapporto con gli altri, ma Mandeville arriva a sostenere che anche qualora lo fosse, o lo diventasse per via dell’educazione ricevuta, dovrebbe comunque tenere a freno le sue virtù, perché esse sono negative per la vita della società. È il vizio che porta il bene-vivere sociale, non la virtù: «frode, lusso e orgoglio devono vivere, finché ne riceviamo i benefici. […] La semplice virtù non può far vivere le nazioni nello splendore. Chi vuol far tornare l’età dell’oro deve tenersi pronto per le ghiande come per l’onestà» (trad. it. a cura di T. Magri, 1987, p. 63). Le virtù, secondo Mandeville, sono benefiche solo nelle piccole comunità (come la famiglia o il villaggio), e se le grandi società volessero fondarsi sulle virtù civiche sarebbero destinate a restare sempre nella miseria e nell’indigenza, a sperimentare assieme «l’onestà e le ghiande».
Hobbes e Mandeville furono i due autori con i quali i fondatori dell’economia moderna dovettero maggiormente confrontarsi. Dopo le loro critiche radicali non era più possibile edificare un’economia che volesse chiamarsi civile, che volesse mostrare la ‘civiltà’ e il ruolo civilizzante dell’economia, senza prendere sul serio quelle loro obiezioni di fondo. Invero, in una società come quella descritta da Hobbes e Mandeville non c’è posto per l’economia civile, che si fonda proprio sulle virtù civiche e sulla natura socievole dell’essere umano il quale è spinto a incontrarsi, anche nel mercato, con gli altri. Va però detto che l’attacco di Hobbes, e forse ancor più quello di Mandeville, ha finito con l’esercitare un certo fascino sui primi economisti: pur non volendo condividere l’impianto di fondo delle loro visioni dell’uomo e della società, Genovesi, o Ferdinando Galiani, non potevano negare che Hobbes e ancor più l’autore della Fable of the bees cogliessero qualche aspetto di verità.
La principale strada che i primi economisti seguirono, sia in Scozia, sia in Francia, sia in Italia, fu una rifondazione dell’etica che, tenendo conto delle critiche degli autori individualisti, fornisse nuove ragioni al civile e alla socialità. Non è quindi corretto affermare che l’economia moderna nasce emancipandosi, anzi separandosi, dall’etica: dopo Hobbes e Mandeville ciò non era più possibile; essa nasce piuttosto sulla rifondazione di una nuova etica, che consentisse all’economia di ritornare civile nonostante Hobbes e Mandeville. E non a caso questa rifondazione avvenne attorno alla metà del 1700: si dovette cioè attendere un nuovo periodo di riforme e di pace (si pensi, per es., alla Napoli di Giambattista Vico e Genovesi sotto il riformatore Carlo III di Borbone), perché potesse rinascere, ed essere credibile, una nuova riflessione razionale sulla vita civile.
L’operazione realizzata dagli illuministi italiani (napoletani e milanesi) fu quella di oltrepassare Hobbes e Mandeville, raccogliendo alcune delle loro critiche, ma portando il discorso su di un piano superiore: mostrando, infatti, che la società civile è proprio quell’insieme di stili di vita, di regole e di istituzioni che fa sì che la natura ambivalente dell’essere umano, la sua insocievole-socievolezza (Immanuel Kant), può essere orientata al bene comune. Riconobbero bensì che nella ‘grande società’, la moderna società commerciale, non si può far troppo affidamento sulla benevolenza, perché l’uomo reale è tendenzialmente portato all’interesse personale (e in ciò stavano dalla parte dei critici); l’interesse personale, però, all’interno della vita civile, non è più considerato un ‘vizio’ perché è visto congiuntamente all’interesse degli altri, cioè all’interesse pubblico (e in ciò stavano dalla parte degli umanisti civili).
L’economia moderna, politica (inglese) e civile (italiana), nacque quindi inserita all’interno di una ricca e complessa antropologia, che espresse la ricerca dell’interesse personale come una passione compatibile con l’interesse degli altri. Non opposero all’interesse la benevolenza o l’altruismo, ma dissero che l’interesse personale è solo una faccia della medaglia, l’altra è occupata dagli interessi degli altri:
L’utile, quella gran molla delle azioni umane, ed il ben essere a cui ognuno aspira, faran sempre correre gli uomini là ove l’utile ed il ben essere viemmeglio e più facilmente s’incontrano. […] Che ciascuno resti persuaso, che per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello de’ suoi simili (G. Palmieri, Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, 1788, p. 95; corsivo aggiunto).
A partire dalla prima metà dell’Ottocento, la visione civile del mercato e, più in generale, dell’economia civile scompare sia dalla ricerca scientifica sia dal dibattito politico-culturale. Parecchie e di diversa natura le ragioni di tale arresto. Di due conviene dire soprattutto. Per un verso, la diffusione a macchia d’olio, negli ambienti dell’alta cultura europea, della filosofia utilitarista di Jeremy Bentham, la cui opera principale, An introduction to the principles of morals and legislation, del 1789, impiegherà parecchi decenni prima di entrare, in posizione egemone, nel discorso economico. È con la morale utilitaristica che prende corpo dentro la scienza economica l’antropologia iperminimalista dell’homo oeconomicus e con essa la metodologia dell’atomismo sociale. Notevole per chiarezza e per profondità di significato il seguente passo di Bentham: «La comunità è un corpo fittizio, composto di persone individuali che si considera come se costituissero le sue membra. L’interesse della Comunità è cosa? – la somma degli interessi dei parecchi membri che la compongono» (An introduction to the principles of morals and legislation, 1789, 18232; trad. it. 1998, p. 24). In Italia, un forte contributo – si fa per dire – alla diffusione della dottrina utilitaristica e di conseguenza all’abbandono della categoria di bene comune nel discorso economico venne da Francesco Ferrara, di certo il più noto degli economisti italiani della prima metà del 19° secolo. Vittima di un forte pregiudizio ideologico – quello liberista – Ferrara non esitò a formulare un giudizio distruttivo su Genovesi e, più in generale, sulla linea di pensiero dell’economia civile. Gli fu d’ausilio, per tale opera devastatrice, il giudizio negativo su Genovesi dell’economista veneto e monaco camaldolese Gianmaria Ortes. Eppure, Mattia Damiani, tra i primi grandi estimatori dell’abate salernitano, ci informa che Cesare Beccaria considerava Genovesi il fondatore della scienza economica in Italia.
Per l’altro verso, l’affermazione definitiva della società industriale che fa seguito alla rivoluzione industriale. Quella industriale è una società che produce merci. La macchina predomina ovunque e i ritmi della vita sono meccanicamente cadenzati. L’energia sostituisce, in gran parte, la forza muscolare e dà conto degli enormi incrementi di produttività, che a loro volta si accompagnano alla produzione di massa. Energia e macchina trasformano la natura del lavoro: le abilità personali sono scomposte in componenti elementari. Di qui l’esigenza del coordinamento e dell’organizzazione. Si fa avanti così un mondo in cui gli uomini sono visualizzati come ‘cose’, perché è più facile coordinare ‘cose’ che non uomini, e nel quale la persona è separata dal ruolo che svolge. Le organizzazioni, in primis le imprese, si occupano dei ruoli, non delle persone. E ciò avviene non solamente all’interno della fabbrica, ma nella società intera. Il ford-taylorismo costituirà poi il tentativo (riuscito) più alto di teorizzare questo modello di ordine sociale. L’affermazione della catena di montaggio trova il suo correlato nella diffusione del consumismo; donde la schizofrenia tipica dei ‘tempi moderni’: da un lato, si esaspera la perdita di senso del lavoro (l’alienazione dovuta alla spersonalizzazione della figura del lavoratore); dall’altro lato, a mo’ di compensazione, si rende il consumo opulento.
Accade così che l’economia di mercato, mentre conserva i tre principi di cui si è detto, muta il fine cui essa tende. Quest’ultimo diventa il bene totale, non più il bene comune. La logica del profitto che contraddistingue l’economia capitalistica non è altro che l’applicazione nella pratica del principio del bene totale (Zamagni 2007). Una conseguenza importante della transizione dall’economia civile di mercato all’economia capitalistica di mercato, cioè della sostituzione della categoria del bene comune con quella del bene totale, è la graduale scomparsa dal discorso economico del principio di fraternità. Il termine, la cui origine va rintracciata tra Napoli (Genovesi e Dragonetti) e Ginevra (Jean-Jacques Rousseau), appare nella bandiera della Rivoluzione francese, unitamente alle altre due parole chiave: libertà ed eguaglianza, anche se poi prontamente dimenticato e rimosso all’indomani della rivoluzione. I rivoluzionari giacobini francesi, infatti, si erano ben presto resi conto della ‘pericolosità’, dal punto di vista dell’assetto istituzionale, di un principio come quello di fraternità, che diversamente dagli altri due principi fondativi (libertà e uguaglianza) rimandava ambiguamente ai valori dell’ancien régime, che la rivoluzione voleva dimenticare e cancellare. Ma quegli stessi rivoluzionari affiancarono il principio di fraternità agli altri due principi che, in Europa, avevano una storia politica e filosofica più antica e più ricca, poiché attorno a essi si era sviluppato uno dei principali filoni del dibattito filosofico dal Medioevo alla modernità (basti pensare ad autori come John Locke o Hobbes, ma anche a Tommaso d’Aquino o Martino Lutero). La fraternità, invece, era rimasta molto sullo sfondo del dibattito filosofico e politico, per occupare, invece, un ruolo chiave nella teologia e nella spiritualità, e non solo di quelle cristiane. I giacobini aggiunsero ai più ‘semplici’ e noti principi di libertà e di uguaglianza anche quello più complicato e ambivalente di fraternità perché erano coscienti di due aspetti: per un verso, che senza un principio che dicesse il legame tra le persone, i principi di libertà e di uguaglianza (che dicono più status e diritti individuali) non erano sufficienti a costruire una nuova vita in comune; per l’altro verso, che la fraternità che l’ancien régime conosceva non era la fraternità civile che era necessaria al nuovo mondo, poiché si doveva immaginare e costruire una libertà nuova, che superasse i vincoli di sangue e di appartenenza esclusiva ed escludente che caratterizza ogni esperienza umana di fraternità naturale. In altre parole, la nuova fraternità, come l’uguaglianza e la libertà, era un progetto politico e civile, qualcosa da costruire e non da salvare o recuperare dall’ancien régime (Bruni 2012).
Una novità, non certo di poco conto, degli ultimi decenni è il ritorno entro il discorso economico del principio di fraternità e, più in generale, della logica del bene comune. Non c’è da stupirsi se a tale ripresa il contributo degli studiosi italiani è stato ed è determinante, anche se non esclusivo. Si pensi all’opera e agli insegnamenti di economisti quali Francesco Vito, Federico Caffè, Paolo Sylos Labini, Giorgio Fuà, Giacomo Becattini, Siro Lombardini, autori questi alla cui formazione intellettuale aveva concorso, in varia misura, il pensiero sia di Giuseppe Toniolo sia di Luigi Einaudi, oltre che quello di tutti gli altri economisti italiani che nel corso dell’Ottocento avevano mantenuto viva la tradizione del pensiero settecentesco, pur se oscurati dalla fortuna della linea Ferrara-Pantaleoni-Pareto-Barone. Di Einaudi, degna di nota è la versione della costruzione concettuale liberale, che esalta il contenuto ‘umanitario’ della nozione di libertà. Nelle sue Lezioni di politica sociale (1949) – titolo già di per sé emblematico per un libro di economia ‘liberale’ – Einaudi insiste sull’importanza del civile (cioè dei corpi intermedi) accanto al pubblico e al privato ai fini dell’edificazione di un ordine sociale in cui principi quali quelli di sussidiarietà e di reciprocità (cioè di fraternità) possano trovare adeguato riconoscimento. In Miti e paradossi della giustizia tributaria del 1938 si legge: «il “benessere” non si compone della sola ricchezza misurabile e consumabile […]. Il benessere è diverso ed è qualcosa di più della ricchezza; è un composito di ricchezza, di buone relazioni sociali, di governo ordinato, di famiglie solide» (p. XVI).
Del pari importante per la odierna ripresa di interesse all’economia civile è stato il contributo di Luigi Sturzo, sebbene esso muova da una prospettiva non strettamente economica. In Economia e morale del 1947 si legge:
Si dice giustamente che l’economia abbia per fine specifico l’utile, ma per valutarne la portata, occorre precisarne il significato e il carattere […] L’oggetto dell’economia non è mai individuale, ma sociale, perché l’individuo preso da solo, operante da solo non esiste né può esistere (in Sturzo 2009, p. 158).
Due insiemi di circostanze hanno favorito la ripresa recente della categoria di fraternità. Il primo ha a che vedere con la presa d’atto che alla base dell’economia capitalistica è presente una seria contraddizione di tipo pragmatico – non logico, beninteso. Quella capitalistica è certamente un’economia di mercato, cioè un assetto istituzionale in cui sono presenti e operativi i due principi basilari della modernità: la libertà di agire e fare impresa; l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Al tempo stesso, però, l’istituzione principe del capitalismo – l’impresa capitalistica, appunto – è andata edificandosi nel corso degli ultimi tre secoli sul principio di gerarchia. Ha preso così corpo un sistema di produzione in cui vi è una struttura centralizzata alla quale un certo numero di individui cedono, volontariamente, in cambio di un prezzo (il salario), alcuni dei loro beni e servizi, che una volta entrati nell’impresa sfuggono al controllo di coloro che li hanno forniti.
Dalla storia economica conosciamo i notevoli progressi sul fronte economico che tale assetto istituzionale ha garantito. Ma il fatto è che nell’attuale passaggio d’epoca – dalla modernità alla ‘dopomodernità’ – sempre più frequenti sono le voci che si levano a indicare le difficoltà di far marciare assieme principio democratico e principio capitalistico. Il fenomeno della cosiddetta privatizzazione del pubblico è ciò che soprattutto fa problema: le imprese dell’economia capitalistica vanno assumendo sempre più il controllo del comportamento degli individui – i quali, si badi, trascorrono ben oltre la metà del loro tempo di vita sul luogo di lavoro – sottraendolo allo Stato o ad altre agenzie, prima fra tutte la famiglia. Nozioni come libertà di scelta, tolleranza, eguaglianza di fronte alla legge, partecipazione e altre simili, coniate e diffuse all’epoca dell’Umanesimo civile e rafforzate poi al tempo dell’Illuminismo, come antidoto al potere assoluto (o quasi) del sovrano, vengono fatte proprie, opportunamente ricalibrate, dalle imprese capitalistiche per trasformare gli individui, non più sudditi, in acquirenti di quei beni e servizi che esse stesse producono.
La discrasia cui sopra facevo riferimento sta in ciò che, se si hanno ragioni cogenti per considerare meritoria l’estensione massima possibile del principio democratico, allora occorre cominciare a guardare quel che avviene dentro l’impresa e non solamente quel che avviene nei rapporti tra imprese che interagiscono nel mercato. Mai sarà compiutamente democratica la società nella quale il principio democratico trova concreta applicazione nella sola sfera politica. La buona società in cui vivere non costringe i suoi membri a imbarazzanti dissociazioni: democratici in quanto cittadini elettori; non democratici in quanto lavoratori o consumatori.
Il secondo insieme di circostanze riguarda l’insoddisfazione, sempre più diffusa, circa il modo di interpretare il principio di libertà. Come è noto, tre sono le dimensioni costitutive della libertà: l’autonomia, l’immunità, la capacitazione. L’autonomia dice della libertà di scelta: non si è liberi se non si è posti nella condizione di scegliere. L’immunità dice, invece, dell’assenza di coercizione da parte di un qualche agente esterno. È, in buona sostanza, la libertà negativa (ovvero la ‘libertà da’) di cui ha parlato Isaiah Berlin. La capacitazione, nel senso di Amartya Sen, infine, dice della capacità di scelta, di conseguire cioè gli obiettivi, almeno in parte o in qualche misura, che il soggetto si pone. Non si è liberi se mai (o almeno in parte) si riesce a realizzare il proprio piano di vita. Ebbene, mentre l’approccio liberal-liberista vale ad assicurare la prima e la seconda dimensione della libertà a scapito della terza, l’approccio stato-centrico, vuoi nella versione dell’economia mista vuoi in quella del socialismo di mercato, tende a privilegiare la seconda e la terza dimensione a scapito della prima. Il liberismo è bensì capace di far da volano del mutamento, ma non è altrettanto capace di gestirne le conseguenze negative, dovute all’elevata asimmetria temporale tra la distribuzione dei costi del mutamento e quella dei benefici. I primi sono immediati e tendono a ricadere sui segmenti più sprovveduti della popolazione; i secondi si verificano in seguito nel tempo e vanno a beneficiare i soggetti con maggiore talento. D’altro canto, il socialismo di mercato – nelle sue plurime versioni – se propone lo Stato come soggetto incaricato di far fronte alle asincronie di cui si è detto, non intacca la logica del mercato capitalistico; ne restringe solamente l’area di operatività e di incidenza.
Il proprium del paradigma del bene comune, invece, è il tentativo di fare stare insieme tutte e tre le dimensioni della libertà. Ciò in quanto, mentre le teorie etiche su cui si erge l’edificio del pensiero economico ufficiale sono etiche della terza persona che pongono il loro fondamento vuoi nella ricerca di regole (come vuole il giusnaturalismo positivistico secondo cui il canone etico è mutuato dalla norma giuridica) vuoi sul tema dell’agire (come stabilisce l’utilitarismo e il contrattualismo), quella del bene comune è un’etica della prima persona che adotta quale punto archimedeo l’idea dello ‘stare con’. Il fine cui mira la prospettiva del bene comune è quello dell’ordine sociale non solamente giusto, ma anche fraterno. Per gli economisti italiani contemporanei che si riconoscono nella linea di pensiero dell’economia civile, l’agire economico non può essere riduttivamente concepito nei termini di ciò che serve ad assicurare la convivenza sociale, ma anche e soprattutto la vita in comune. Giova chiudere cedendo la parola a Genovesi: «L’uomo è un animale naturalmente socievole [si badi, non sociale] … Se noi siamo naturalmente socievoli per pietà e ragione, questa socialità è una proprietà così indelebile della nostra natura, come quella di essere animali e animali compassionevoli e ragionevoli» (Lezioni di commercio o sia di economia civile, 1° vol., 1769, pp. 32-33).
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