bene e male
Concetti fondamentali nella speculazione machiavelliana, si pongono al centro dello studio condotto da M. sulla natura dell’uomo e sull’origine dei suoi comportamenti, costituendo uno dei nodi intorno a cui maggiormente venne appuntandosi la sua riflessione nel corso del tempo. In Discorsi I ii 14-15 M. spiega che gli uomini nella più remota antichità si riunirono in aggregazioni sociali per far fronte a una situazione di sicurezza precaria e riuscire così a tutelare le loro esistenze:
Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl’ingrati ed onorando quelli che fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia (Discorsi I ii 15).
Il passo deve essere correlato a quanto M. scrive in Discorsi I xxxvii, affermando che dapprima gli uomini combatterono per «necessità» (difendersi dagli assalti altrui e cercare di impadronirsi dei luoghi fertili anche ricorrendo alla forza), poi per l’«ambizione» di acquistare maggiore potere (e «la lotta per l’esistenza si spostò dallo stato naturale a quello civile»: Vincieri 2011, p. 21):
Egli è sentenzia degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come dall’una e dall’altra di queste due passioni nascano i medesimi effetti. Perché, qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto potente ne’ petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La cagione è, perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d’esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro: perché, disiderando gli uomini, parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla guerra; dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di quell’altra (Discorsi I xxxviii 2-5).
Alla luce di questo processo storico e antropologico, la politica deve essere consapevole della vera natura degli uomini:
gli uomini non operono mai nulla bene, se non per necessità; ma, dove la elezione abonda, e che vi si può usare licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine. Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni (Discorsi I iii 5).
Tale concetto può essere confrontato con quanto viene espresso poco oltre, al § 7: «E dove una cosa per sé medesima sanza la legge opera bene, non è necessaria la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria».
Chiosa Gennaro Sasso: «la necessità di cui parla Machiavelli non è, in ultima analisi, che il limite stesso della natura umana, quel limite che stringe l’uomo e che egli deve, con ogni mezzo, cercar di superare ‘per non perire’» (Sasso 1958, 19802, p. 418). È dalla lotta per l’esistenza che nasce la violenza, che fa, a sua volta, leva sulle naturali disposizioni degli uomini: «la necessità è sì una forza estrinseca, ma essa include però anche la forza intrinseca delle passioni» (Vincieri 2011, p. 24). In tale prospettiva, tuttavia, il male non deve essere inteso come «l’immutabile caratteristica dell’animo umano», ma «una delle possibili conseguenze della situazione dell’uomo nella storia, e perciò uno dei mezzi che, nella lotta incessante, alla quale egli è costretto, contro la potenza della fortuna, può essere ‘necessitato’ ad assumere» (Sasso 1958, poi 19802, p. 419). È di fronte a tale «necessità» che «l’uomo, richiedendolo il tempo, deve sapere “intrare nel male”» (Sasso 1958, 1980, p. 419).
Il forte realismo porta M. ad ancorare ogni riflessione sull’uomo alla «verità effettuale delle cose» e a rinunciare a ogni astratta scala di valori posta al di fuori delle concrete situazioni storiche in cui egli è costretto ad agire. La politica per M. diviene pertanto «l’insieme dei mezzi che, coerentemente alla natura dei tempi, l’uomo deve assumere, nel tentativo di superare la contraddizione della sua natura»: in tale cornice «si comprende perché nella lotta che, contro la prepotenza della fortuna, ha per posta la sicurezza e la stessa esistenza, il male possa essere sentito e vissuto come uno strumento di liberazione» (p. 427).
Così se lo scopo primo del «principe nuovo» è di «salvare lo Stato», diventa «necessario» che egli faccia ricorso anche ai «vizi» qualora senza di questi egli non riuscisse a raggiungere il suo fine. Per Isaiah Berlin, in tali movenze del discorso machiavelliano non è da ravvisarsi una sorta di negazione dell’eticità: al contrario, M. pone al centro del suo ragionamento un diverso quadro valoriale, non dettato dalla tradizionale morale cristiana, ma nutrito dell’antica lezione dei classici antichi (Berlin 1979). Nel celeberrimo cap. xviii del Principe, M. stesso, trattando «quomodo fides a principibus sit servanda», offre un’importante chiave di lettura:
se è laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia […] tamen si vede per esperienza ne’ nostri tempi quelli principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini: e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la realtà (Principe xviii 1).
Da tale constatazione discende l’«inevitabile scissione» di politica e moralità, senza, tuttavia, che cambi «il giudizio su ciò che appartiene al regno del Bene e ciò che appartiene a quello del Male» (Cadoni 2010, p. 222). Per M., infatti, vi è una maniera di «combattere» propria dell’uomo e una propria delle bestie: «Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie» (xviii 2-3). Per il fatto che, tuttavia, molte volte il primo modo di «combattere» «non basta», «conviene ricorrere al secondo: per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo» (xviii 4). In tale peculiare ottica – come ha mostrato Gennaro Sasso – la figura del «Chirone centauro» fa propria la duplicità dei diversi metodi di lotta di cui sono rispettivamente simbolo il leone e la volpe (Sasso 1997, pp. 153-56).
Al rapporto tra bene e male M. non poteva evitare di prestare attenzione speculativa sia pure per constatare la necessità di violare il primo con il ricorso al secondo. Nel cap. viii del Principe M., trattando delle «crudeltà bene usate» con cui si conclude il giudizio sulle imprese di «Agatocle siciliano», interrompe il suo discorso con un inciso – «se del male è lecito dire bene» (Principe viii 24) –, denunciando la propria perplessità circa la terminologia scelta:
Credo che questo avvenga da le crudeltà male usate o bene usate. Bene usate si possono chiamare quelle – se del male è lecito dire bene – che si fanno a uno tratto per la necessità dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste dentro ma si convertono in più utilità de’ sudditi che si può. Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sieno poche, più tosto col tempo crescono che le si spenghino (viii 23-25).
M. non mostra incertezza nel negare che sia possibile «chiamare virtù ammazzare e’ suoi cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza piatà, sanza religione» (viii 10), ma
non può sfuggire che, a giudicare Agatocle facendo astrazione dalla capacità di edificazione politica che aveva dimostrato di possedere, riusciva solo con riluttanza, lasciando nel lettore l’impressione che aver constatato l’impossibilità di collocarlo sotto il segno del Bene non fosse sufficiente a collocarlo sotto quello del Male (Cadoni 2010, p. 226).
E così M. raccomanda ai «principi nuovi» di adottare un comportamento non diverso da quello del tiranno di Siracusa:
A uno principe adunque non è necessario avere in fallo tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle; anzi ardirò di dire questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono utili; come parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere: ma stare in modo edificato con
lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare il contrario. E hassi a intendere questo: che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato (Principe xviii 13-15).
D’altro canto, in Discorsi I xxvii, in cui M. discetta di come «Sanno rarissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o al tutto buoni» (tema già annunciato nel capitolo precedente con la critica delle «vie del mezzo»), viene espresso acre disappunto verso chi, dopo aver pur tenuto comportamenti riprovevoli, si mostra poi incapace di compiere completamente il male, avendo in tal modo occasione di lasciare di sé «memoria eterna»:
Fu notata, dagli uomini prudenti che col papa erano, la temerità del papa e la viltà di Giovampagolo; né potevono estimare donde si venisse che quello non avesse, con sua perpetua fama, oppresso ad un trallo il nimico suo, e sé arricchito di preda, sendo col papa tutti li cardinali, con tutte le loro delizie. Né si poteva credere si fusse astenuto o per bontà o per conscienza che lo ritenesse; perché in uno petto d’un uomo facinoroso, che si teneva la sorella, che aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non poteva scendere alcun pietoso rispetto: ma si conchiuse nascesse che gli uomini non sanno essere onorevolmente cattivi o perfettamente buoni, e, come una malizia ha in sé grandezza, o è in alcuna parte generosa, e’ non vi sanno entrare. Così Giovampagolo, il quale non stimava essere incesto e publico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendone giusta occasione, fare un impresa dove ciascuno avesse ammirato l’animo suo, e avesse di sé lasciato memoria eterna, sendo il primo che avesse dimostro a’ prelati quanto sia da stimare poco chi vive e regna come loro ed avessi fatto una cosa la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, che da quella potesse dependere (Discorsi I xxvii 5-7).
Il vero problema è stabilire, dunque, un rapporto tra essere «onorevolmente cattivo» ed essere «perfettamente buono»:
Resta ora a vedere quali debbino essere e’ modi e governi di uno principe o co’ sudditi o con li amici […]. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono conviene che ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono, e usado e non usado secondo la necessità (Principe xv 1-6).
M. si vuole opporre agli utopisti antichi e moderni e, dopo aver fornito un elenco di quelle che sono usualmente ritenute le «virtù» del «buon principe» e dei corrispondenti «vizi», conclude:
Ed etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizi sanza i quali possa’ difficilmente salvare lo stato; perché, se si considera bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà e il bene essere suo (xv 12).
Dal testo si ricava che «l’inumana spietatezza dell’universo politico e le imprescindibili necessità che ne sono conseguenza possono impedire di definire ‘vizio’ ciò che il sentimento morale indurrebbe a considerare tale – senza autorizzare per questo a definirlo ‘virtù’; come possono impedire di definire ‘virtù’ ciò a cui il sentimento morale tenderebbe ad attribuire questo nome – senza autorizzare a definirlo ‘vizio’» (Cadoni 2010, p. 241).
Ma c’è di più. Nel cap. xvi M. mostra come quelle che sembrano virtù finiscano, con il «tempo», per rovesciarsi nel loro contrario. L’esito di una simile considerazione, che nel cap. xviii trova le sue conseguenze estreme, si può già cogliere nel xvii. Qui l’autore revoca in dubbio le opinioni correnti intorno alla «crudeltà» e alla «pietà»:
Era tenuto Cesare Borgia crudele: nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede. Il che se si considera bene, si vedrà quello essere stato molto più piatoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire il nome di crudele, lasciò distruggere Pistoia (xvii 2-3).
Esistono situazioni in cui il male e il bene sono legati in modo saldo e inestricabile: il duca Valentino era stato senza dubbio «crudele», ma più crudele sarebbe stato abbandonare la Romagna al suo infelice destino. In tal modo «il Bene pare un miraggio destinato ad allontanarsi non appena si tenti di approssimarvisi» (Cadoni 2010, p. 246). Ma non si tratta di relativismo morale: M. continua a prediligere coloro che acquistano lo Stato con la «virtù» (Principe vi). E quando non sussiste la «bontà», intesa come senso civico ispirato all’interesse comune piuttosto che all’utile personale, subentrano la corruzione nello Stato e il pericolo della sua decadenza (cfr. Discorsi I lv e III xxx).
In tale contesto generale lo stesso M. mostra come proprio le strategie dissimulate della «doppia morale» – nella vita quotidiana – riescano sovente a dirimere le situazioni più ostiche e difficili. Nella Mandragola senza l’astuzia volpina di fra Timoteo e del laico Licurgo l’amore di Callimaco per Lucrezia non andrebbe a buon fine. E così, per esempio, quando, nelle battute finali del terzo atto, fra Timoteo cerca di convincere Lucrezia, il «male» nella sua abile retorica riesce facilmente a tramutarsi in vero «bene»:
Io voglio tornare a quello, che io dicevo prima. Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità, che, dove è un bene certo ed un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquisterete una anima a messer Domenedio; el male incerto è che colui che iacerà, dopo la pozione, con voi, si muoia; ma e’ si truova anche di quelli che non muoiono. Ma perché la cosa è dubia, però è bene che messer Nicia non corra quel periculo. Quanto allo atto, che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltra di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose; el fine vostro si è riempire una sedia in paradiso, contentare el marito vostro. Dice la Bibia che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, usorono con el padre; e, perché la loro intenzione fu buona, non peccorono (Mandragola III xi).
È alla luce della complessità del rapporto istaurato tra bene e male che Castruccio Castracani dice di non comprendere perché il religioso «umile e contemplativo» avrebbe dovuto ricevere da Dio il premio negato all’uomo «pieno di mondana gloria», spinto dalla necessità anche a violare gli insegnamenti evangelici:
«Dimandato se, per salvare l’anima, ei pensò mai di farsi frate, rispose che no, perché gli pareva strano che fra’ Lazzero ne avessi a ire in paradiso e Uguccione della Faggiuola nello inferno» (Vita di Castruccio Castracani § 175). Anche in questo caso «non vi è trasformazione del Male in Bene, ma impossibilità d’individuare il “luogo” del Bene» (Cadoni 2010, p. 246). E la politica, dalla sua spècola, resta – per M. – «un campo di tensioni fra le quali è ineludibile la compresenza di bene e male», non agendo essa «in un dominio» in cui «sia pensabile sceverare nettamente il negativo dal positivo» (Barbuto 2013, p. 148).
Bibliografia: G. Sasso, Niccolò Machiavelli: storia del suo pensiero politico, Napoli 1958, Bologna 19802; I. Berlin, Against the current. Essays in the history of ideas, New York 1979 (trad. it. Controcorrente, Milano 2000, pp. 79 e segg.); G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol., Milano-Napoli 1997; G.M. Barbuto, Machiavelli e il bene comune. Una politica ossimorica, «Filosofia politica», 2003, 2, pp. 223-46; M. Viroli, Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, Roma-Bari 2005; G.M. Anselmi, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento. Le radici italiane dell’Europa moderna, Roma 2008; G. Cadoni, Machiavelli, il Bene, il Male e la politica, «La cultura», 2010, 2, pp. 221-62; P. Vincieri, Machiavelli: il divenire e la virtù, Genova 2011; G.M. Anselmi, S. Scioli, Machiavelli, Acireale 2013; G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013.