PISARONI, Benedetta Maria Rosmunda
PISARONI (Pisaroni-Carrara, Pesaroni), Benedetta Maria Rosmunda (Rosmunda). – Nacque a Piacenza il 16 maggio 1793, unica figlia di Giambattista (piccolo possidente e musicofilo, di antica famiglia locale) e di Luigia Prati.
Di figura tozza e poco armoniosa sin da bambina, studiò canto in città dapprima con Vincenzo Colla Pini (allievo del compositore piacentino Giuseppe Nicolini), che la fece debuttare nel suo dramma pastorale Achebarro (palazzo Costa, 1809), poi con Giacomo Carcano, organista della cattedrale, ma con scarsi risultati. Il padre, assai ambizioso, la dirottò dunque a Milano, dove si perfezionò con Moschini, primo dei quattro castrati che la forgiarono, trasmettendole verosimilmente tecnica e stile a loro peculiari (fra cui la disparità fra note gravi virilmente bronzee e acuti chiari e nasali): seguirono Luigi Marchesi, Gaspare Pacchierotti e Giovanni Battista Velluti; questi favorì il suo debutto professionale come eroina eponima nella Ginevra di Scozia di Giovanni Simone Mayr, in una parte da soprano acuto (Bergamo, 15 agosto 1811). Confermata per l’anno successivo (Adelasia e Aleramo ancora di Mayr), dal 1813 la sua carriera era ormai lanciata.
A fianco di Velluti, tenne a battesimo Carlo Magno di Nicolini nella patria comune (Piacenza, 6 febbraio 1813): il successo le valse la sincera amicizia del compositore e il matrimonio con il concittadino Venanzio Maloberti (giugno 1813), contro il volere dell’avido padre, che riuscì comunque a strappare al genero ancora un anno di esclusiva sui proventi della figlia.
Gli ingaggi come ‘prima donna soprano’ la portarono a Genova, dove Gioacchino Rossini, sentendola nel proprio Tancredi (gennaio 1814), le consigliò di dirottare verso parti da contralto. Il nuovo debutto (Ciro in Babilonia a Padova, giugno 1814) la impose subito come contralto rossiniano di riferimento, specialmente nelle parti en travesti: tra le opere favorite, quell’Aureliano in Palmira ch’era stato composto su misura del suo maestro Velluti e Tancredi, affrontato ora nei panni del protagonista maschile.
Scaduto l’anno del privilegio paterno, il marito cominciò a seguirla per occuparsi della sua carriera; ma a Bologna, dove l’aveva raggiunta, si ammalò e morì (marzo 1815). La giovane vedova annullò ogni impegno fino alla stagione di carnevale successiva, ma nella primavera del 1816 si dovette fermare di nuovo per parecchi mesi: la sua salute era stata minata da un’infezione di vaiolo che le deturpò irreparabilmente viso e corpo.
Da quel momento poté contare soltanto sulla propria voce: rigogliosissima, distesa su tre ottave, abbracciava le note «del soprano, del tenore e del basso a un tempo» (C. Lattanzi, Il Corriere delle dame, 13 febbraio 1813).
Nessuna testimonianza è più esplicita, in tal senso, del quadro impietoso dipinto a caldo dalla contessa Harriet Granville, spettatrice del suo debutto francese (1827): «Magnifica, sublime, entraînante la Pisaroni. Ripugnante, storpia, deforme, nana la Pisaroni. Ha una testa enorme e un viso davvero brutto. Quando ride o canta, la sua bocca si torce verso un orecchio, e ha l’aria d’una persona stravolta dal dolore. Ha due gambe che fuoriescono dal corpo come molle per le zollette di zucchero, una più corta dell’altra. Il suo ventre sporge da un lato del corpo e sull’altro mostra un’escrescenza, non dove stanno di solito lo stomaco o le gobbe, ma di lato, come un paniere. Eppure, non aveva ancora cantato per dieci minuti che il pubblico parigino era in estasi» (Letters of Harriet, I, 1894, p. 410).
La scarsa avvenenza non le aveva impedito un secondo matrimonio subito dopo la malattia (celebrato a Bergamo, ottobre 1817) con il padovano Giuseppe Santi Carrara, bello, brillante e squattrinato, già primo flauto alla Fenice di Venezia (teatro dove lei mai cantò): secondo gli antichi biografi, fu il primo tra i suoi sostenitori e il maggior sperperatore del suo patrimonio.
La carriera italiana, ripresa per alcuni anni fra i vari teatri del Nord all’insegna di Rossini (ma a Padova, 19 luglio 1817, partecipò al debutto di Romilda e Costanza di Giacomo Meyerbeer), si concentrò per un biennio sul teatro S. Carlo a Napoli (1818-20), dove l’incontro con il suo compositore d’elezione poté essere diretto. Stranamente Rossini ne sottoimpiegò tuttavia le potenzialità canore, scrivendo per lei una parte da seconda donna – ma non senza inabissarla fino al mi bemolle sotto il rigo – in Ricciardo e Zoraide (3 dicembre 1818), un’altra imperniata sulla declamazione tragica in Ermione (27 marzo 1819), una nuova aria per inserirla come semplice ‘musichetto’ in una ripresa della Gazza ladra (15 luglio 1819), e finalmente una vera parte virile e virtuosistica insieme, com’era nelle sue corde, per La donna del lago (24 ottobre 1819): il personaggio di Malcolm – uno dei tre spasimanti della protagonista – divenne il suo cavallo di battaglia per gli anni a venire, grazie a due arie lussureggianti che Rossini le cucì addosso; ma si trattava pur sempre di un ruolo da deuteragonista.
Recuperata dal 1821 la sua posizione di primo piano fra i teatri italiani del Centro-Nord, con molte presenze alla Scala (il 12 marzo 1822 nella ‘prima’ dell’Esule di Granata di Meyerbeer), e, dopo aver rifiutato gli inviti a Monaco di Baviera e Pietroburgo, dovette attendere l’ingaggio al Théâtre Italien di Parigi per il pieno coronamento della sua fama.
La sua prima apparizione (26 maggio 1827, come Arsace in Semiramide di Rossini, alla quale si riferiva il citato commento della Granville) fu tra gli eventi più chiacchierati sui giornali, con i critici che facevano a gara vuoi nell’osannare le sue interpretazioni (Castil-Blaze sul Journal des débats, 28 maggio 1827: «Uno stile d’esecuzione nobile, elegante, grandioso, pomposo; un sentimento profondo della musica; un’espressione che seduce e trascina; una conoscenza perfetta degli effetti della melodia e del partito che se ne può trarre combinandoli destramente con gli effetti della scena»; Mongrédien, 2008, VII, p. 142), vuoi nello smascherare i difetti della sua voce (Ludovic Vitet su Le Globe, 12 giugno 1827: «È probabile che questa voce gutturale, così sgradevole, non sia che un mezzo fattizio impiegato da qualche anno dalla signora Pisaroni per supplire a certe note affievolitesi tutt’a un tratto per debolezza o stanchezza dell’organo vocale. Ciò che v’è d’increscioso è che ella pare essersi così ben familiarizzata con questi suoni da non accorgersi più della loro bruttezza; li accarezza, vi si appoggia con altrettanto compiacimento quanto sulle sue mirabili note gravi, mentre dovrebbe al contrario porre tutta la sua arte, tutta la sua attenzione nell’evitarli»; ibid., p. 170).
Al di là delle singole note, era l’atteggiamento complessivo a rapire lo spettatore: «La Pisaroni sembra un frammento di Lord Byron gettato là sulla scena. Un’anima infuocata; una voce maschia e robusta di cui non si perde un suono. Ella sprezza del pari e tradizioni e convenzioni, con quei sicuri dettati dell’anima e del genio che non si insegnano» (Le Messager des Chambres, 3 ottobre 1829; ibid., VIII, p. 168).
Da Parigi, una puntata a Londra era d’obbligo (cinque mesi al King’s Theatre all’inizio del 1829 per cantare solo Rossini, anche al fianco di Maria Malibran), mentre non vi sono prove di una presunta stagione a Cadice. Rientrata in Italia nell’estate 1830, acquistò a Piacenza il settecentesco palazzo Rota, sua nuova sontuosa residenza. La aspettavano ancora tre anni di attività nei suoi antichi teatri prediletti. L’addio alle scene venne programmato al teatro Comunitativo di Piacenza, per il debutto del Trionfo di Manlio di Nicolini (2 febbraio 1833): e fu l’ultimo trionfo per entrambi.
Ritiratasi a meno di quarant’anni nella natia Piacenza, con il marito e senza figli, nel giugno 1842 rimase nuovamente vedova (una banale caduta dalla carrozza); poi qualche concerto privato (l’ultimo nel 1867, con la sua amata cavatina da La donna del lago), il sostegno pubblico alla causa patriottica nel maggio 1848, molta beneficenza e contatti con numerose figure clericali che alimentavano la sua spiritualità.
Morì il 6 agosto 1872 nella sua villa a Colonese di Rivergaro, nella campagna piacentina. Un busto marmoreo ne adorna la tomba nel cimitero della città natale.
Fonti e Bibl.: C. Pavesi Negri, Benedetta Alessandra Pisaroni, Piacenza 1872; Letters of Harriet Countess Granville 1810-1845, a cura di E.F. Leveson Gower, I, London 1894, p. 410; Il carteggio personale di Nicola Vaccaj..., a cura di J. Commons, Torino 2008, ad indicem. L. Faustini, Di Rosmunda Pisaroni: cenni biografici ed aneddotici, Piacenza 1884; A. Rapetti, Il Nicolini e la Pisaroni, in Un maestro di musica piacentino: Giuseppe Nicolini nel primo centenario della morte, a cura di A. Rapetti - I. Cappa - C. Censi, Piacenza 1944, pp. 64-71; G. Meyerbeer, Briefwechsel und Tagebücher, a cura di H. Becker - G. Becker, I-II, Berlin 1960-70, ad ind.; G. Appolonia, Le voci di Rossini, Torino 1992, pp. 210-224; G. Rossini, Lettere e documenti, a cura di B. Cagli - S. Ragni, I-III, Pesaro 1992-2004, ad ind.; F. Bussi, Una piacentina consegnata alla storia: Rosmunda Benedetta Pisaroni, rossiniana ‘regina dei contralti’, in A. Coccioli Mastroviti et al., Palazzo Rota Pisaroni, Piacenza 2008, pp. 129-155; J. Mongrédien, Le Théâtre-Italien de Paris, 1801-1831, VII-VIII, Lyon 2008, ad ind.; M. Beghelli - R. Talmelli, Ermafrodite armoniche: il contralto nell’Ottocento, Varese 2011, passim; G. Appolonia, I primi interpreti delle opere di Giuseppe Nicolini, in Giuseppe Nicolini: 1762-1842, a cura di P. Florio et al., Pisa 2012, pp. 125-168; E. Macaggi, Benedetta Rosmunda Pisaroni, contralto rossiniano, tesi di laurea, Università di Bologna, a.a. 2012-13 (con cronologia).