BENEDETTINI
Monaci seguaci di s. Benedetto che, vivendo in comunità, costituirono la prima vera e propria forma organizzata di vita monastica occidentale, basata sull'osservanza alla Regola. Quest'ultima, redatta tra il 530 e il 560, venne adottata già all'origine su vasti territori, dapprima come Regula mixta e poi, nel corso del sec. 8°, come Regula S. Benedicti.
Si è molto discusso se si possa parlare o meno di un'architettura benedettina, in quanto le imprese edilizie promosse dai B. variano da luogo a luogo e appaiono direttamente influenzate dalla cultura autoctona delle regioni di appartenenza; ciò dipende sia dalla diffusione della Regola, che abbraccia territori e periodi cronologici assai vasti, sia e soprattutto dall'autonomia di cui godevano le singole comunità, che all'origine, pur prevedendo al loro interno un'organizzazione gerarchica, non dipendevano da un potere centrale, ma avevano tra loro un rapporto paritetico.Non è quindi possibile riscontrare nelle fabbriche benedettine stilemi architettonici comuni, per lo meno quando si analizzi la storia dell'Ordine nella sua interezza, ma sicuramente si può parlare di un'idea aggregatrice che in qualche modo contraddistingue queste architetture nel contesto in cui si inseriscono e costituisce l'indice di un radicale mutamento avvenuto nel significato stesso di vita monastica, non più intesa come ideale ascetico da raggiungere, ma come vera e propria vita comunitaria (Romanini, 1974). Con ciò non si vuole affermare che prima di s. Benedetto non esistessero fondazioni monastiche, ma semplicemente che queste costituivano episodi indipendenti tra loro, mentre a partire dall'epoca carolingia nei B. si identifica l'intero monachesimo occidentale. Le motivazioni della larga diffusione della Regola vanno ricercate sia nel perfetto equilibrio in essa riscontrabile tra spiritualità e lavoro manuale sia nell'appoggio concesso ai B. dal papato e dai sovrani, motivato dalla stretta osservanza dell'Ordine alla liturgia romana (Eschapasse, 1963).La sostanziale costanza degli elementi distributivi di un'abbazia può essere ricollegata direttamente alla Regola di Benedetto che, sancendo per i monaci la vita comunitaria (cap. I), stabilisce di conseguenza un progetto di massima, costruisce cioè un sistema che si potrebbe definire urbanistico - in quanto appunto interessa il territorio e i caratteri distributivi degli edifici, ma non specificamente quelli architettonici - e istituisce quindi per grandi linee i servizi essenziali all'ordinamento di un'abbazia al fine di provvedere alla sopravvivenza e di costituire un nucleo economico indipendente, entro una cinta muraria. Quest'ultima venne in alcuni casi fortificata con torri (Bury St Edmunds, nel Suffolk), mentre al di fuori di essa spesso si costituì un piccolo borgo (Centula/Saint-Riquier, nella regione dei Pays-du-Nord). Si viene così a stabilire che nell'abbazia, dotata di acqua, mulino, orto (cap. LXVI), debbano essere presenti un dormitorio comune (cap. XXII), un'infermeria alla quale siano annessi i servizi igienici (cap. XXXVI), un appartamento per gli ospiti vicino alla mensa dell'abate (cap. LIII), un guardaroba (cap. LV), una portineria collocata all'ingresso del monastero.Questi criteri costruttivi sembrano essere già stati adottati, seppure allo stato embrionale, nelle primissime fondazioni di s. Benedetto, in particolare a Montecassino, dove il santo si rifugiò nel 529, provenendo da Subiaco, e dove elaborò e mise a punto la Regola. Il primitivo insediamento di Subiaco è noto dalle fonti documentarie (Gregorio Magno, Dialoghi, II, PL, LXVI, coll. 128-152; Chronicon Sublacense, RIS2, XXIV, 6, 1927, pp. 3-46; Carosi, 1956) e dalle indagini archeologiche, che attestano solamente come per la costruzione ci si avvalse delle antiche strutture romane della villa di Nerone, analogamente a ciò che avvenne per Montecassino. Qui infatti gli scavi archeologici hanno confermato le notizie fornite da Gregorio Magno, che nei Dialoghi narra l'avvenuto insediamento dei monaci appunto sulle antiche strutture romane e l'adattamento degli antichi luoghi di culto a chiese dedicate a s. Giovanni Battista e a s. Martino. Intorno a quest'ultima erano dislocati gli alloggi che costituivano il primo nucleo del monastero, al cui ingresso era situata una torre su due piani nella quale si trovava la cella del santo (Pantoni, 1981). All'origine ambedue le chiese erano di piccole dimensioni e comunicanti tramite una scala; esse furono poi ampliate: quella di S. Martino sotto l'abate Petronace (717-750) e quella di S. Giovanni sotto Gisulfo (797-817), che costruì una basilica triabsidata di tipo paleocristiano con transetto continuo. L'esistenza di tale modello indirizzò probabilmente l'architettura dei B. verso un organismo chiesastico di questo tipo, che però a N delle Alpi subì una radicale trasformazione con una diversa articolazione dei volumi e nuove tecniche costruttive.Già la prima distruzione di Montecassino da parte dei Longobardi (580 ca.) aveva comportato il trasferimento dei monaci a Roma, in Laterano - poi tornati sotto Gregorio II con Petronace -, nonché la diffusione della Regola benedettina. Questa, storicamente, risulta già conosciuta dal sec. 7°, per es. nelle Isole Britanniche con Beda il Venerabile (m. nel 735), da dove fu trasmessa alla Turingia e alla Baviera da s. Bonifacio (m. nel 754), o in Italia settentrionale (Bobbio), tra il 730 e il 735. Dopo il 744, s. Bonifacio inviò Sturmio a Montecassino per apprendervi le consuetudini monastiche da adottare a Fulda e sempre da Montecassino partì nel 756 Ermoaldo per fondare a Leno (Brescia), su richiesta di re Desiderio, un monastero dedicato al Salvatore, identificato in una piccola costruzione triabsidata alla quale venne sovrapposto nel sec. 9° l'edificio attuale a tre navate decorato con stucchi e un importante ciclo di affreschi (Peroni, 1984). Nella Langobardia Minor un altro re longobardo, Arechi II, fondò la chiesa della Santa Sofia a Benevento, caratterizzata da una complessa pianta centrale.È comunque Carlo Magno che valutò a pieno la portata rivoluzionante e civilizzatrice dei B., facendo della diffusione della Regola - della quale si fece inviare una copia nel 787 - una vera e propria politica culturale, che culminò nell'assemblea di Aquisgrana dell'802, in cui venne imposto anche al clero episcopale di seguire sia la Regola benedettina sia l'adattamento che ne aveva già fatto s. Crodegango per i Canonici; tale politica ebbe quindi come diretta conseguenza la costruzione di complessi architettonici ispirati direttamente ai monasteri.Questa opera unificatrice fu portata avanti da Ludovico il Pio, a sua volta coadiuvato da Benedetto di Aniane, e si concluse nel Capitulare Monasticum di Aquisgrana dell'817 (PL, CIII, col. 393ss.) nel quale si impose a tutto il monachesimo carolingio di seguire la Regola benedettina.La trasposizione architettonica delle disposizioni impartite dalla Regola - già parzialmente applicate nei primi complessi, per es. a Lorsch, fondata nel 763 - è ravvisabile nel piano di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092; 820 ca.), nel quale vengono segnalate tutte le parti funzionali ai monaci. Il cardine di tutto è il chiostro affiancato alla chiesa; intorno a esso infatti gravitano molti dei servizi necessari ai monaci: il dormitorio, attraverso il quale si accede direttamente alla chiesa e sotto il quale è posizionato il calidario, a sua volta in comunicazione con bagni e latrine. Sul lato sud sono il refettorio e le cucine, su quello ovest il cellario, gli alloggi per i pellegrini o anche quello per i novizi e l'infermeria; gli ultimi due nei monasteri più grandi sono però indipendenti, affacciandosi addirittura su chiostri più piccoli. L'armarium era ricavato tra il chiostro e la chiesa e intorno a quest'ultima erano poi disposti, in modo però meno rigoroso, a N gli alloggi dell'abate e degli ospiti, a S i locali adibiti a magazzini e ai lavori agricoli, a E il cimitero.Si tratta quindi, come è stato più volte affermato, di un vero e proprio 'piano' ideale per un monastero, quasi uno schema cui riferirsi per approntare un nuovo progetto; non è quindi un caso che l'impianto generale e anche molti dei particolari strutturali si ritrovino in tanti complessi monastici.Nel piano di San Gallo, come anche a Montecassino, la chiesa è di tipo basilicale e analogamente le abbaziali carolinge adottarono preferibilmente il modello paleocristiano romano (St. Georg a Oberzell, nella Reichenau; 888-913); la pianta centrale, ispirata alla Cappella Palatina di Aquisgrana, risulta essere stata impiegata nell'ambito dell'architettura dei B. solo a Ottmarsheim (dip. Haut-Rhin; consacrata nel 1049), che resta quindi come caso isolato, essendo Germigny-des-Prés (dip. Loiret; consacrata nell'806 ca.) più una sorta di cappella a uso dell'abate che una vera e propria chiesa monastica. Si tratta ovviamente di una scelta politica di fondo, ma anche e soprattutto di un'esigenza motivata da una maggiore funzionalità per usi liturgici che prevedevano processioni e una rigida disposizione dei monaci durante i canti. All'interno dell'edificio erano collocati più altari, in sostituzione dei numerosi santuari che all'origine erano posti all'interno delle mura del monastero (Corbie, 657-661; Centula/Saint-Riquier, 790-799) e che, con questa soluzione, venivano a essere inglobati in un unico edificio, generalmente però non secondo il sistema adottato a San Gallo delle cappelle inserite nella navata o meglio della suddivisione di questa in tanti settori dotati di altari, ma posizionando le cappelle lungo i bracci del transetto o intorno al coro. Sempre verso esigenze funzionali furono indirizzate le scelte dei B. per quel che riguarda gli ampliamenti del coro e delle navate e per la creazione nella zona antistante la chiesa di un atrio molto ampio con porticati anche su due piani a servizio di cappelle angolari emergenti in altezza (Lorsch, 778-784; Centula/Saint-Riquier, 790-799; primo atrio di S. Ambrogio a Milano, 868-881); i volumi di questi corpi si articolavano quindi nell'architettura carolingia anche grazie alle torri, viste sia come torri-lanterna sia come alloggiamenti di scale per il Westwerk.La basilica poteva anche essere qualificata da absidi contrapposte (Fulda, 791-819) - poi caratteristiche della Renania - in funzione di una suddivisione degli spazi tra laici e religiosi, ma anche dell'esigenza di bilanciare l'altare maggiore con quello del santo venerato. Questa soluzione è appunto raffigurata nel piano di San Gallo, dove - sul lato occidentale - il capocroce risulta già dotato di due torri, presentando quindi in nuce la disposizione del Westwerk, struttura che ingloba appunto l'abside e il transetto in un volume unico, il cui pianoterra poteva fungere da vestibolo (Saint-Germain ad Auxerre, 865) o essere occupato direttamente dalla 'cripta' (Corvey II, 873-885).In Italia l'architettura carolingia dei B. è documentata da abbazie che svolsero un ruolo politico determinante. Emblematico in questo senso è il caso di Farfa, posta tra Roma e il ducato di Spoleto, che fu dapprima longobarda per poi schierarsi tra le abbazie imperiali carolinge, trasformando in seguito, sotto Sicardo (830-841), anche le sue strutture architettoniche, per es. con la costruzione del Westwerk (Righetti Tosti-Croce, 1987).Da Farfa partirono, secondo la tradizione, tre monaci per fondare S. Vincenzo al Volturno, che avrebbe costituito il confine meridionale dell'impero carolingio, dal quale ricevette donazioni che favorirono il costituirsi di una grande abbazia, ancora testimoniata dalla famosa tricora affrescata dall'824 all'842 e dai recenti scavi archeologici (Hodges, Mitchell, 1985; Righetti Tosti-Croce, 1987); questi ultimi hanno dimostrato che l'edificio - distrutto nell'881 dai saraceni - venne edificato su una precedente struttura classica. Nel sec. 10° furono molteplici i fattori che contribuirono a costituire un'architettura sicuramente non unitaria, volta verso nuove soluzioni che condussero alle estreme conseguenze i dettami dell'arte carolingia: si tratta da una parte della presenza di un potere centralizzato, con le dinastie degli Ottoni e dei Salici, da un'altra dell'affermarsi dei grandi movimenti riformatori e in ultimo dell'introduzione di innovazioni tecniche e decorative, cioè delle soluzioni di finitura parietale e di copertura delle navate. Compaiono le volte a botte sulla navata centrale, per es. a Santa Maria d'Amer (dedicata nel 949) o a Santa Cecilia di Montserrat (dedicata nel 957 ca.), entrambe in Catalogna, talvolta rinforzate da archidiaframma, per es. a Saint-Guilhem-le-Désert in Linguadoca (1076 ca.), mentre coesistono botti longitudinali, trasversali e crociere nelle navate laterali del Saint-Philibert di Tournus (dip. Saône-et-Loire; 1007-1019) e crociere costolonate compaiono in S. Ambrogio a Milano (sec. 11°).All'interno di questo gruppo di architetture, nel sec. 11° si distingue il nucleo catalano, che ruppe l'isolamento della regione con l'apporto dei B., in particolare con l'opera dell'abate Oliba. Anche se gli edifici, per es. Saint-Michel de Cuxa (consacrata nel 975), risentono ancora di influssi mozarabici o continuano a essere legati alle regioni di appartenenza, in qualche caso essi appaiono ormai decisamente proiettati verso un'architettura 'europea', per es. con l'abbazia di Ripoll (1019-1040), a cinque navate e sette absidi, secondo la formula delle absidi parallele ripetute sul transetto, adottata in molti edifici dei B. (Saint-Chef, dip. Isère; Saint-Remi a Reims, 1005-1049).Alla metà del sec. 10° le numerose incursioni dei Normanni, degli Ungari e degli Arabi avevano disgregato l'impero carolingio, che lasciava dietro di sé una serie di piccoli stati autonomi. Come Carlo Magno due secoli prima, gli Ottoni si allearono ai B., i quali divennero anche nei paesi germanici "una forza di cui lo stato cerca di servirsi, al punto che gli abati sono spesso vescovi-abati, molto legati alla monarchia" (Barbaglia, 1974, col. 1202); si costituisce quindi un caso unico nel panorama architettonico, sia per l'esistenza delle cattedrali monastiche dell'epoca carolingia, sia per la nuova osmosi che si opera tra elementi romani e greci a seguito del matrimonio di Ottone II e Teofano, principessa di Bisanzio, sia appunto per il ruolo riformatore svolto dai vescovi che contribuirono direttamente alla costruzione di abbazie, come Bernoardo, fondatore nel 996 di St. Michael a Hildesheim, o l'arcivescovo Bruno, che riedificò nel 950 St. Pantaleon a Colonia.Le abbaziali ottoniane e in seguito quelle saliche mantengono caratteri 'romani' nella pianta basilicale (St. Georg a Oberzell, nella Reichenau) e soprattutto nel transetto di tipo continuo, presente per es. a St. Emmeram a Ratisbona (973), a Limburg an der Haardt, fondata da Corrado II nel 1025, o a Hersfeld (dopo il 1037), ma recuperano anche dall'architettura carolingia il gusto per i volumi contrapposti, come nel caso di St. Cyriakus a Gernrode (960-965) - dove gli spazi vengono articolati in alzato con il matroneo, funzionale al ruolo svolto dalla chiesa a servizio di un monastero femminile - o di St. Michael di Hildesheim (1010-1033), che continua, rielaborandola in modo spettacolare, la tradizione delle doppie absidi. Un 'antico rivisitato' è invece quello che si manifesta nella terminazione triconca dell'abbazia femminile di St. Maria im Kapitol, a Colonia (1049-1065), mentre Maria Laach, fondata nel 1093 dal conte palatino Enrico II, ma dedicata solo nel 1156, costituisce la sintesi delle ricerche formali approntate dall'architettura carolingia nelle articolazioni esterne, ma anche un manifesto dei tempi nuovi nel trattamento delle superfici.In contemporanea, cioè sempre all'inizio del sec. 10°, si cominciò a sentire l'esigenza di riforma nella vita religiosa; essa si esplicò in movimenti diversi quale quello di Gerardo di Stave (m. nel 959), che fondò Brogne e riformò Saint-Amand, Saint-Bertin, Saint-Pierre e Saint-Bavon a Gand, quello di Mainardo discepolo di Gerardo in Normandia, di Dunstano in Inghilterra, di Giovanni di Vandières, che riformò Gorze in Lorena (933), di Riccardo di Reims, che divenne nel 1005 abate di Saint-Vanne a Verdun - la cui influenza si estese fino ad Arras (Saint-Vaast), Liegi e Châlons-sur-Marne - e il cui discepolo Poppo fu posto a capo di Stavelot (Liegi) e di St. Maximin a Treviri.Tutti questi movimenti religiosi, nei quali le singole abbazie mantenevano la loro autonomia, ebbero però vita breve, al contrario di quello di Cluny (fondata nel 910): in questo caso tutte le filiazioni dipendevano dalla casa-madre e le abbazie, attraverso il regime dell'esenzione, erano legate direttamente - cioè senza ingerenze laiche o episcopali - al soglio di s. Pietro. Sul piano architettonico i Cluniacensi (v.) furono promotori di idee nuove, senza però stabilire regole; al contrario, anch'essi vennero influenzati dai lessici locali a tal punto che si presenta difficile scindere nettamente una trattazione sui B. da una relativa ai Cluniacensi, in quanto più che di una architettura specifica si tratta di scuole regionali in qualche modo adattate dall'Ordine alle proprie esigenze. È però indubitabile che alcune formule architettoniche di Cluny II (dedicata nel 981) ebbero una larga diffusione (per es. la facciata rettilinea con torri, derivata dall'architettura carolingia, o la galilea); soprattutto la soluzione delle absidi poste a scalare - qui non ancora giunta a compimento per l'interposizione di cappelle rettilinee e in seguito perfezionata con il posizionamento di più campate tra transetto e absidi e di passaggi tra queste e il coro (Saint-Benoît-sur-Loire e chiese del Berry), secondo una tipologia adottata a largo raggio dai paesi germanici (Hirsau v.; Paulinzella; Königslutter), alla Normandia (Bernay, Saint-Nicolas a Caen), all'Inghilterra (St Albans, St Mary a York), alle due Borgogne (Romainmôtier, Payerne, Chapaize, La Charité-sur-Loire) - viene ormai vista concordemente dalla critica come tipologia borgognona adottata dai B. (v. Borgogna) e non, come ipotizza Viollet-le-Duc (1854), quale regola imposta dall'Ordine e quindi da considerare elemento distintivo di un'ipotetica 'architettura benedettina'.La riprova è la scelta fatta a Cluny III (1088) di abbandonare questa formula per adottare il deambulatorio a cappelle radiali, già presente in Borgogna e nella Loira (cripte di Saint-Germain ad Auxerre, 841-859; Saint-Pierre-le-Vif a Sens, sec. 10°; Saint-Bénigne a Digione, 1001-1018); questo appare perfezionato al di fuori dell'Ordine dei B. in un edificio agostiniano (che l'adotta all'inizio del sec. 11°, seguendo però il primitivo impianto della cripta del sec. 10°), Saint-Martin di Tours, che rientra nel gruppo delle c.d. chiese di pellegrinaggio (Sainte-Foy a Conques, Saint-Martial a Limoges, Saint-Sernin a Tolosa e Santiago de Compostela), per ognuna delle quali andrebbe puntualizzato singolarmente il ruolo svolto da Cluny al di là dei sicuri scambi culturali e delle influenze reciproche tra i grandi cantieri delle abbazie (Eschapasse, 1963).Un caso a parte è rappresentato ancora una volta dalla Montecassino di Desiderio, che ricoprì un ruolo a tal punto determinante che è stata ipotizzata una diretta influenza di questa abbazia, che aveva ospitato s. Ugo nel 1083, per le volte a botte spezzate di Cluny III. Ricostruita a partire dal 1066 (consacrata nel 1071) ed esemplata sull'antica S. Pietro, con campanile addossato alla facciata, preceduta da un atrio, l'abbazia cassinese ebbe una risonanza tale da condizionare le scelte architettoniche di Sant'Angelo in Formis (dopo il 1072), delle cattedrali di Capua, Ravello e Salerno, ma anche del quadriportico rettangolare di S. Ambrogio a Milano, che dal 784 costituiva il polo settentrionale rappresentativo del monachesimo benedettino in Italia.Nell'Italia centrale, nelle grotte di Subiaco si ristabilì, dal 1090, una comunità monastica che nel sec. 13° edificò l'attuale complesso per il quale sono stati proposti raffronti con edifici memoriali di Terra Santa (Righetti Tosti-Croce, 1987).Contemporaneamente, anche la riforma cluniacense si diffuse rapidamente in Italia, dall'abbazia romana di S. Paolo f.l.m. (936) alla Lombardia, a Cava de' Tirreni (fondata nel 1011) e da qui per es. a Monreale (1174), caratterizzando in senso borgognone molti edifici dei B. (per es. l'abbazia di San Benedetto Po in Lombardia, 1007) e dando vita anche ad altri movimenti monastici (Fruttuaria in Piemonte, 1003). I contatti con Cluny furono probabilmente anche all'origine della presenza del deambulatorio, estraneo alla cultura desideriana, ma riscontrabile appunto a San Benedetto Po o nell'abbazia cluniacense di S. Antimo in Toscana, mentre per quello allungato dell'abbazia della Trinità a Venosa, del sec. 12°, ripreso dalla cattedrale di Acerenza, i precedenti vanno rintracciati nei territori di origine dei Normanni, che appunto introdussero nelle regioni conquistate caratteri 'cluniacensi' rielaborati che si mescolarono a quelli più propriamente autoctoni (a questo proposito si vedano anche le abbazie della Trinità e di S. Eufemia a Mileto).I duchi normanni avevano infatti compreso l'importanza del ruolo svolto dai B. e lo avevano potenziato, non con il concorso diretto di Cluny, ma attraverso la riforma di Saint-Bénigne di Digione, introdotta in Normandia dal lombardo Guglielmo da Volpiano (Fécamp, 1001; Bec, 1002; Saint-Ouen a Rouen, 1008; Jumièges, Mont-Saint-Michel e Bernay, tra il 1015 e il 1017). Di questi contatti culturali sono testimonianza le abbaziali normanne, costruite con una tecnica raffinata, che, pur rivelando negli stilemi architettonici influenze diverse, vanno però oltre nella ricerca di una nuova articolazione della parete, alla quale sacrificarono anche la copertura a volte della navata centrale, come nei casi di Bernay (1017-1040), di Jumièges (dedicata nel 1067) e delle prime redazioni di Saint-Etienne e della Trinité a Caen (1059).In Inghilterra, all'inizio del sec. 10° si ebbe una rinascenza del monachesimo secondo la riforma di Brogne e di Fleury, ma al momento della conquista normanna del 1066 la decadenza era reale e i nuovi dominatori sostituirono il clero sassone, facendo sussistere della Chiesa inglese solo il sistema delle cattedrali-abbazie dove abate e vescovo si identificavano (Rochester, 1080; Durham, 1083). L'architettura restò dapprima fedele a quella normanna - presentando però influenze renane e della Lorena, per es. nei capitelli cubici - ma, secondo il gusto dei Sassoni, vennero costruiti edifici molto allungati (Ely, 1090; Durham 1093-1104, 1133); i capocroce potevano avere un deambulatorio secondo il modello di Jumièges, raramente cappelle radiali o la più comune terminazione triabsidata.Fu comunque in quest'area che i cantieri dei B. giocarono un ruolo determinante nell'elaborazione dell'architettura gotica, con le calotte absidali di Saint-Nicolas a Caen (1080 ca.) e di Gloucester (1089-1100), con le campate allungate (sempre di Saint-Nicolas), con le crociere costolonate di Durham (dedicata nel 1133) e soprattutto con il nuovo sistema di volte esapartite, adottato nelle abbaziali di Caen (1125), che preannuncia il Gotico.È ovvio che, a margine di queste aree così vitali dal punto di vista architettonico, esistessero territori definibili come provinciali, che potevano rimanere ancorati agli antichi stilemi - per es. nelle semplificazioni delle chiese di pellegrinaggio compiute dai priorati dell'Alvernia - oppure svolgere un ruolo determinante, come nel caso esemplare dell'Ilede-France dove, parallelamente a crociere costolonate di gusto ancora romanico (deambulatorio di Morienval, fine primo quarto del sec. 12°; Noël-Saint-Martin e Saint-Martin-des-Champs a Parigi, entrambe antecedenti al 1150), comparve il rivoluzionante deambulatorio di Saint-Denis, iniziato nel 1133 da Suger.In questa fase il ruolo culturale svolto dai B. nella diffusione e creazione di un'arte più propriamente occidentale era ormai concluso e si affacciavano sulla scena culturale altre forze, che costruirono le grandi cattedrali e si sostituirono dinamicamente ai monasteri dei Benedettini. Questi ultimi realizzarono comunque ancora alcuni capolavori quali la Merveille di Mont-Saint-Michel (1211-1228), costituita da una serie di sale a più navate posizionate a N della chiesa, o i cori di Saint-Remi a Reims (1170 ca.), di Vézelay (1185-1190), di Saint-Denis (sec. 13°), fino alla Hallenkirche di Herford in Sassonia.Un caso particolare è rappresentato dall'Inghilterra, dove accanto a ricostruzioni parziali di monumenti, verificabili soprattutto nelle sostituzioni di terminazioni rettilinee agli antichi cori (Rochester, 1200 ca.; Durham, dopo il 1228; Ely, 1250 ca.; Gloucester, inizio sec. 14°), comparvero ancora grandi cantieri, come quello dell'abbazia di Westminster (costruita dal 1245 al sec. 15°) e dei priorati-cattedrali di Canterbury (dal 1174 al sec. 15°) e di Worcester (dal sec. 12° al 14°).
Bibl.:
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La 'memoria' dell'arte europea medievale è affidata in massima parte - e per tre secoli, dal 10° al 12°, quasi esclusivamente - alle testimonianze monastiche. Dall'817 - quando Ludovico il Pio e Benedetto di Aniane imposero la Regola di s. Benedetto a tutto l'impero - fino al sec. 13° il monachesimo occidentale si identifica, almeno tendenzialmente, con quello benedettino. Le grandi riforme di Hirsau, Camaldoli, Vallombrosa, Cluny, fino all'esperienza cistercense, propongono varianti interpretative della Regola del fondatore, ma hanno in comune un'idea portante: il monaco è qualcuno che ha rinunciato al mondo per consacrarsi a Dio. "La realtà del monachesimo non si giudica dalle sue modalità di incarnazione temporale ma nella sua articolazione essenziale: solitudine e dialogo con Dio" (Grégoire, 1985, p. 228); i segni materiali di questo dialogo - pitture murali, miniature, mosaici, vetrate, oreficerie, avori, smalti, arazzi, ricami, tessuti - costruiscono comunque l'immagine pervenuta del Medioevo.Nell'abbazia-Gerusalemme celeste, l'arte è un discorso su Dio e conduce dal visibile all'invisibile, attraverso la trance anagogica ispirata a Suger dalla preziosità della materia (Panofsky, 1946) o attraverso la "volontà di dar vita a un'arte astratta, intesa a penetrare l'essenza del fenomeno e a esprimerlo in pura forma intellettuale" (Romanini, 1978, p. 229), su cui si fonda l'estetica bernardina.L'opera d'arte diventa così strumento di vita monastica, legata alla celebrazione liturgica, alla meditazione e alla comprensione dei testi sacri, ma anche all'impegno militante dell'Ordine benedettino in saeculo. Non è un caso che sia proprio Gregorio Magno, il papa che propone di Benedetto una lettura nuova, di uomo dentro la storia, e che del monachesimo esalta accanto alla dimensione ascetica la funzione missionaria, di vita spesa per il mondo (Leonardi, 1987, pp. 192-203), a teorizzare la funzione didascalica degli ornamenta ecclesiae, della pittura come lectio degli illetterati (Registrum epistolarum, IX, 208).Nell'alternativa delle tensioni che Gregorio aveva cercato di conciliare, il ritiro dalla storia e la sua conversione, l'Ordine benedettino gioca il suo ruolo nell'arte del Medioevo. Offre ai carolingi gli strumenti - scuole, biblioteche, scriptoria, officine - per realizzare il grandioso progetto di renovatio e di costruzione dell'unità culturale europea. Garantisce alla società feudale la mediazione con il sacro, attraverso i fasti della civiltà liturgica cluniacense. Affianca il papato in quella riforma della Chiesa cui i B. hanno dato il più alto contributo in termini di elaborazione ideologica e traduzione figurativa. Contribuisce a fondare un nuovo concetto di arte cristiana, che nell'Apologia ad Guillelmum Abbatem di s. Bernardo (1125 ca.) ha il suo manifesto e che, dichiarando guerra all'immagine e a ogni lusso esteriore, promuove una rivoluzione mentale, basata su un approccio razionale al vero.Nel nome del ritorno alle origini benedettine, i capitoli cistercensi - benché spesso disattesi - disegnano un progetto totale e alternativo dell'abbazia e dei suoi ornamenta: croci di legno, candelabri di ferro, incensieri di rame, pianete di canapa, calici d'argento, miniature e vetrate monocrome. Le pareti degli oratori devono essere nude. Bernardo sembra rinunciare all'immagine come strumento di pedagogia diretta del popolo cristiano, affermando per la prima volta la necessità di una netta distinzione tra i programmi decorativi di una cattedrale e quelli di una chiesa monastica: "Et quidem alia causa est episcoporum, alia monachorum. Scimus namque, quod illi sapientibus et insipientibus debitores cum sint, carnalis populi devotionem, quia spiritualibus non possunt, corporalibus excitant ornamentis" (Apologia ad Guillelmum Abbatem, XII, 28). Le parole di Bernardo denunciano, al di là delle profonde motivazioni estetiche della sua iconoclastia, una crisi del modello comunicativo benedettino, che coincide con la crisi del monachesimo come modello egemonico nella ricerca della perfezione cristiana. Nel momento stesso in cui Bernardo la porta a uno dei vertici più alti, l'arte benedettina chiude il suo tempo.La Regola di s. Benedetto non prevede scelte operative di tipo culturale e artistico: nel breve cap. LVII dedicato agli artifices si precisa che la loro presenza non è obbligatoria nel monastero. È noto dalle fonti, oltre che dalle opere sopravvissute, che l'organizzazione di laboratori fu generalizzata nelle fondazioni d'Oltralpe e, come hanno dimostrato almeno per il vetro e gli smalti i recenti scavi a S. Vincenzo al Volturno (San Vincenzo al Volturno, 1985), anche in Italia. Il piano di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092) mostra all'interno della cinta abbaziale due locali destinati a ospitare artisti e artigiani laici, orafi, maestri di fusione, pergamenari, censiti anche nella familia ecclesiae di Corvey (Legner, 1985, p. 222). Spesso monaci e laici lavoravano fianco a fianco, come nello scriptorium di Echternach agli inizi del sec. 11° (Brema, Staats-und Universitätsbibl., B. 21, c. 124v). Il chiostro era officina e scuola: l'iniziativa dell'abate cassinese Desiderio (1058-1087) è a questo proposito estremamente significativa per il suo carattere programmatico: tra i compiti affidati ai maestri costantinopolitani, "peritos utique in arte musiaria et quadrataria", non c'è solo quello di decorare la nuova basilica, ma "quoniam artium istarum ingenium a quingentis et ultra iam annis magistra Latinitas intermiserat et studio huius inspirante et cooperante Deo nostro hoc tempore recuperare promeruit, ne sane id ultra Italie deperiret, studuit vir totius prudentie plerosque de monasterii pueris diligenter eisdem artibus erudiri. Non autem de his tantum, sed et de omnibus artificiis, quecumque ex auro vel argento, ere, firro, vitro, ebore, ligno, gipso vel lapide patrari possunt, studiosissimos prorsus artifices de suis sibi paravit" (Chronica Monasterii Casinensis, III, 27).Gli abati erano coinvolti in prima persona, non solo come committenti o promotori, nella produzione artistica. Il biografo di Dunstano, abate di Glastonbury (940-956) e arcivescovo di Canterbury (959-988), grande protagonista della riforma monastica inglese del sec. 10°, lo dice esperto "facere picturam, litteras formare", oltre che eccellente bronzista, scultore e orafo (Hunt, 1961).L'esercizio delle arti rientra negli instrumenta artis spiritualis elencati dalla Regola (cap. IV), è otium laboriosum contro i rischi del taedium dai quali Edmondo di Abingdon nel sec. 13° si difende, epitomizzando l'autentico significato dell'ora et labora: "Nunc lege, nunc ora. / Sacra vel in arte labora. / Sic erit hora brevis / et labor ipse levis" (Lawrence, 1960, p. 243). Anche in questo caso la testimonianza e contrario viene dall'ambito cistercense. Nel Dialogus duorum monachorum l'interpretazione benedettina dell'otium monasticum chiarita da Leclercq (1984) è capovolta in negativo. Al cluniacense che afferma: "Quamvis nec in horto nec in agro laboremus, tamen ex toto ociosi non sumus: aliqui legunt, aliqui manibus operantur", il cistercense replica: "Sicut verba quae non aedificant sunt ociosa, ita opera illa quae non pertinent ad necessarios usus recte dicuntur ociosa. Ut interim de ceteris taceam: aurum molere et cum illo molito magnas capitales pingere litteras, quid est nisi inutile et ociosum opus?" (Huygens, 1972, pp. 432-433).Lo stigma dell'inutilitas destabilizza - in linea con il cap. 82 degli Statuta Capitulorum Generalium Ordinis Cisterciensis, che impone, in realtà senza gran seguito all'interno stesso dell'Ordine, una decorazione dei codici improntata al rigore e all'aniconicità - i fondamenti di quella che può essere considerata l'arte benedettina per eccellenza: l'arte del libro, in cui scrittura e ornamentazione esprimono i valori ideologici del testo in maniera sintetico-figurale, attraverso un sistema di segni capaci di imporsi con la sola forza della visualità oggettiva e di comunicare contenuti attraverso immagini figurali e simboliche; una concezione ripresa, ancora una volta, da Gregorio Magno (Petrucci, 1973). Il codice benedettino, che conservi la parola divina o gli ultimi relitti della cultura antica, piegata comunque al servizio della fede, è un oggetto-simbolo, ieratico, monumentale, da tesaurizzare (Cavallo, 1987a; Alessio, 1988). Solo in alcuni casi - quando tramanda la letteratura scientifica del mondo classico - e in alcuni ambienti - per es. a Montecassino (Bertelli, 1975; Orofino, 1987) - prevale il libro-strumento, conforme a ideali editoriali che esaltano lo scopo esplicativo e funzionale delle illustrazioni.Soprattutto nei manoscritti destinati all'ufficio liturgico, la preziosità della fattura prefigura ed esalta la sacralità del testo, è 'muta predicazione', secondo la definizione di Pietro il Venerabile (1092/1094-1156), abate di Cluny, e sospinge con la sua bellezza visibile verso l'invisibile. Alla fine del sec. 12° Eustasio, nel sottoscrivere il martirologio del monastero benedettino di S. Maria di Gualdo Mazzocca (Roma, BAV, lat. 5949, c. 231r), esalta il valore estetico del manufatto come veicolo per il messaggio spirituale di ciò che contiene "Omnis huius operis decor quam delectat, / dum inspectat oculis manibus attrectat, / aures eius monitis internas inflectat; / lucra nam prudentibus maxima convectat, / tetras nam explicitum opus per auctores, / prava queque resecat instruitque more; / mulcet visum litteras nodos et colores, / ingerens optutibus excellentiores" (Orofino, 1991, p. 457).Il libro benedettino è anche il segno delle virtù di chi lo ha scritto e ornato, testimone di ingegno e garante di fama immortale. I ritratti di scribi e miniatori, come quello del monaco Eadwin, scriptor scriptorum princeps (Cambridge, Trinity College, R. 17. 1, c. 283v, 1147 ca.; Zarnecki, 1981), sono esplicite affermazioni dell'orgoglio che la Regola condanna proprio nel cap. De artificibus monasterii, espressioni di un'autoconsapevolezza che traspare anche dalle biografie di artisti inserite nelle storie delle singole abbazie - esemplare quella del monaco di San Gallo Tuotilo (825-912), cui Eccheardo IV nel Casuum S. Galli continuatio attribuisce, tra l'altro, i piatti di legatura di un manoscritto di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 53; Hubert, Porcher, Volbach, 1968; Castelnuovo, 1987, p. 254) - e nei resoconti redatti dai monaci stessi, dove l'apologia di un monastero o di un abate si tramuta in apologia di un gusto di cui l'Ordine si considerava portatore: per es. il racconto del restauro di Saint-Bénigne a Digione nella Vita S. Guillelmi Abbatis Divionensis di Rodolfo il Glabro, la Odilonis Cluniacensis Abbatis Vita, che esalta i fasti politico-artistici di Cluny, la sezione desideriana della Chronica Monasterii Casinensis, il Liber de rebus in administratione sua gestis di Suger, diario commentato e giustificativo dei grandiosi lavori di ricostruzione di Saint-Denis.Agli inizi del sec. 12° è ancora un benedettino, Teofilo, a scrivere la più significativa summa delle arti monastiche medievali. La Diversarum artium schedula non è solo un manuale di tecnologia, un semplice ricettario, ma un'appassionata difesa della pittura, della miniatura, dell'oreficeria, dell'arte del vetro e dei metalli in quanto espressioni della dignità dell'uomo, imago Dei, e del lavoro artistico come dovere ed esercizio spirituale (White, 1971; Van Engen, 1980).Appare necessario quindi porre la questione se i B., in qualità di committenti, realizzatori, fruitori, teorizzatori, abbiano prodotto nel Medioevo forme d'arte proprie, distinte in quanto tali da quelle espresse in altri ambienti culturali; se esista cioè un genius benedettino in grado di assicurare costanti culturali permanenti comuni a epoche e regioni diverse e determinate da "elementi intrinseci alla vita monastica" (Leclercq, 1957, p. 342). La teoria dell''arte benedettina' ha una travagliata tradizione storiografica. Nata dal mito ottocentesco di un'impronta monastica universale e durevole nelle arti, espresso per la prima volta da Montalembert (1847), applicata da Bertaux (1903) al circoscritto ambito cassinese, dilatata da Coletti (1949) ad accogliere manifestazioni di cronologia e geografia disparate, dai Vangeli di s. Agostino di Cambridge alla scuola di Beuron di inizio Novecento, diffusa a livello europeo da Anthony (1951), rifiutata come "una delle più singolari mistificazioni della critica moderna" da de Francovich (1955, pp. 475-511), sia nell'accezione cassinese sia in quella cluniacense, e da Demus (1968), la questione merita di essere riconsiderata alla luce del dibattito critico degli ultimi venti anni.Un giudizio che accomuni, solo in base alla pertinenza benedettina, gli affreschi francesi di Saint-Savin e quelli austriaci di Lambach, le vetrate di Saint-Denis e di Pontigny, la miniatura di Ripoll e quella irlandese, la scuola orafa di Helmershausen e quella di Stavelot appare, nell'aporia stessa degli esempi citati, insostenibile. La ricerca di un tessuto connettivo sovranazionale e sovratemporale per vicende che attraversano tutto il Medioevo in tutto l'Occidente rischia di cristallizzare in visioni d'insieme generiche quanto scontate una storia che fu dinamica e articolata. La gestione dei fenomeni artistici all'interno dell'Ordine fu iniziativa e patrimonio delle singole fondazioni. Rintracciare linee unitarie di svolgimento è difficile persino riguardo a una specifica manifestazione, la miniatura, di una specifica 'famiglia', quella cistercense (Righetti Tosti-Croce, 1978; Romanini, 1978; Vannugli, 1989). La nuova definizione del ruolo di Cluny nel Romanico borgognone - dove gli affreschi di Berzé-la-Ville restano nel loro splendido isolamento - ha messo in discussione la tesi dell'assoluta preminenza di quel monastero come fulcro di irradiazione di un sistema centralizzato (Current Studies on Cluny, 1988). La scoperta di nuovi affreschi con ritratti di profeti nel refettorio e nel relativo vestibolo di S. Vincenzo al Volturno e i confronti istituiti con le pitture 'benedettine' di S. Giovanni a Müstair (San Vincenzo al Volturno, 1985; Davis Weyer, 1987) hanno evidenziato una circolazione di modelli e di maestranze settentrionali, spiegabile solo con l'aggancio al clima culturale e storico del cenobio molisano, legato sotto Giosuè (792-817) ed Epifanio (824-842) all'impero carolingio da stretti vincoli politici. Nello stesso periodo l'altro grande polo benedettino dell'Italia meridionale, Montecassino, elabora la sua tipologia grafica e artistica raccogliendo l'eredità della Langobardia Maior in funzione 'nazionale' e anticarolingia (Cavallo, 1977; 1987b); l'abbazia cassinese, che per essere al centro della 'questione benedettina' ne ha subìto le alterne fortune, dall'esaltazione a mater omnis artis alla liquidazione come episodio poco significante, privo di continuità e di incidenza, sviluppa in età altomedievale una cultura eccentrica, sostanzialmente indipendente, almeno fino al sec. 11°, da infiltrazioni transalpine (Orofino, 1983).L''arte benedettina' diventa una formula accettabile solo se, abbandonata come aprioristica categoria di giudizio, si applichi a fenomeni 'storicizzati', ossia innestati nella cultura del loro tempo e del loro luogo, e di cui d'altra parte si possa riconoscere la specificità in una precisa rispondenza con le motivazioni religiose e politiche dell'Ordine - di una singola abbazia o di una singola personalità - in un particolare momento storico (Romanini, 1987).Trova così conferma la validità di ricerche che si concentrino sulla funzione 'militante' di quest'arte, collegando i temi della committenza e i programmi d'immagine, nonché chiarendo il ruolo del patronato monastico nella circolazione di idee, schemi, persone, fino a individuare direttrici di influsso che nella partecipazione a una comune tendenza di fondo ricompongano un'unità quantomeno di intenti.Emerge in quest'ottica con nuova evidenza, per es., l'importanza dell'elemento benedettino nella c.d. golden age dell'arte anglosassone, quando un committente-artista come Dunstano crea, con grande originalità iconografica e sfruttando il sistema dell'illustrazione ad verbum, veri e propri manifesti della riforma inglese (Oxford, Bodl. Lib., Auct. F. 4. 32, disegno aggiunto a c. 1r, eseguito durante l'abbaziato di Dunstano a Glastonbury, 940-956; Londra, BL, Arund. 155, c. 133r, salterio esemplato a Canterbury nel 1020 ca., probabilmente su un modello del tempo di Dunstano; Higgitt, 1979).Soprattutto gli studi che negli ultimi decenni hanno ricostruito i rapporti tra l'ideologia della riforma gregoriana e la sua traduzione figurativa hanno avuto un peso decisivo nel proporre su nuove basi i termini della questione benedettina, trasformando i modelli interpretativi tradizionali. L'esistenza di un'area omogenea della riforma, articolata in un sistema di poli ognuno impegnato a costruire un'immagine della Chiesa riformata basata sul recupero delle tipologie decorative e iconografiche paleocristiane - con la mediazione 'tecnologica' bizantina -, rende forse meno importante la ricerca delle priorità rispetto a quella del dialogo tra centri diversi, Roma, soprattutto, e le grandi abbazie benedettine d'Europa: Cluny con gli affreschi del priorato di Berzé-la-Ville; San Benedetto Po, il cui scriptorium si rinnovò intorno agli anni ottanta del Mille con l'arrivo di modelli 'riformati'; Nonantola, dove gli affreschi del refettorio, ritrovati nel 1983, proponevano ai monaci, attraverso l'esempio di Benedetto, l'imitazione degli apostoli; la Trinité di Vendôme, il cui abate Geoffrey elaborò alla fine del sec. 11° un complesso programma iconografico per le pitture della sala capitolare; Coombes, nel priorato cluniacense di Lewes, il più importante d'Inghilterra, dove l'affresco con la Traditio legis è esemplato sul prototipo del triclinio Lateranense.In questa prospettiva rientra in gioco, dopo l'impasse della tesi 'pan-benedettina', anche Montecassino, che riconquista, su fondamenta rese più solide dall'avanzamento delle ricerche e dalla nuova impostazione metodologica, un ruolo centrale, perché proprio nel monastero ricostruito dall'abate Desiderio la politica artistica della riforma si realizza nella globalità di una grandiosa opera collettiva, che coinvolge il mosaicista e l'orafo, il frescante e il miniatore, lo scriba e il cronista.Montecassino è un nuovo Sinai da cui viene emanata una nuova Legge, recita il tetrastico composto da Alfano di Salerno per l'abside della basilica desideriana. Il suo esempio assume valore normativo non solo per i cenobi benedettini dell'Italia meridionale, dove il patrocinio diretto di Desiderio - si pensi a Sant'Angelo in Formis - e il prestigio della sua impresa segnarono profondamente le iniziative d'arte; ma anche dell'Italia settentrionale, se è vero che i frescanti lombardi della cappella di S. Eldrado nell'abbazia di Novalesa accolsero modelli cassinesi (Bertelli, 1987). Tracce 'desideriane' possono riconoscersi persino a Saint-Denis, dove la porta bronzea e il timpano mosaicato della facciata occidentale, inserzioni estranee alla tradizione francese, sono forse un'eco della visita di Suger a Montecassino del 1123 (Brenk, 1983).La volontà ideologica di renovatio Ecclesiae primitivae formae aveva orientato l'arte della riforma nella ricerca dei modelli romani paleocristiani, sia per le decorazioni monumentali sia per la suppellettile liturgica, come dimostrano gli avori di Salerno, catalizzando la sintesi di elementi bizantini, ottoniani e, nel caso dell'Italia meridionale, islamici.Ancora alla fine del sec. 13° il restauro del ciclo vetero e neotestamentario della navata di S. Paolo f.l.m., la basilica che era anche la massima chiesa benedettina di Roma (Pace, 1991), assume valore emblematico del legame tra l'Ordine e il patrimonio artistico della Chiesa apostolica e afferma insieme l'importanza di operare nella tradizione.Il 1200 si era aperto, per l'arte benedettina, con la prima campagna decorativa dell'imponente complesso del Sacro Speco a Subiaco, a memoria del fondatore che in quelle grotte aveva iniziato la sua ricerca di Dio. Gli affreschi della cappella di S. Gregorio Magno, databili al terzo decennio del sec. 13°, esaltano le origini della più importante famiglia monastica dell'Occidente, ma, con la figura di frater Franciscus, testimoniano anche l'incontro con una spiritualità di tipo nuovo, destinata a rinnovare e non più a renovare i modi dell'arte cristiana.
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All'interno della tradizione monastica, la musica ha avuto da sempre una rilevanza particolare, poiché il monaco trascorre gran parte della giornata in preghiera e questa è costituita prevalentemente dalla lettura e dal canto di testi biblici. Le letture sono proclamate secondo moduli melodici che evidenziano la dinamica del testo, sottolineandone le strutture letterarie. I salmi sono cantati secondo diverse forme musicali, per lo più a cori alternati. Più complessi sono i canti della messa e di altre parti della liturgia delle ore, come, per es., gli inni. L'importanza della musica è quindi in relazione alla centralità della preghiera nella vita quotidiana dei monasteri.S. Benedetto, nella sua Regola, dedica una serie di capitoli (VIII-XX) alla preghiera liturgica comune; il suo discorso si concentra sulla liturgia delle ore, di cui propone un'articolazione particolareggiata prendendo sostanzialmente come base gli usi della Chiesa di Roma ("sicut psallit Ecclesia Romana", cap. XIII, 10; PL, LXVI, col. 448) e utilizzando anche più antiche tradizioni monastiche, derivate sia dal mondo orientale (cap. XI, 6-9; ivi, coll. 435-436) sia da quello occidentale.Nell'arco della giornata i B. si incontrano per celebrare otto ore canoniche. La loro liturgia presenta una medesima struttura, che prevede la presenza di determinati elementi: inno, salmi con rispettive antifone, letture con relativi responsori, orazioni varie. A seconda delle ore - lodi e vespri sono quelle più importanti, mattutino è la più estesa e complessa - e a seconda della stagione e dei tempi liturgici - inverno, estate, quaresima - gli elementi strutturali sono modificati o scelti in base a criteri diversi. Rispetto alle tradizioni anteriori il cursus benedettino risulta abbreviato, probabilmente a motivo di esigenze pratiche congiunte al duro lavoro agricolo praticato per il sostentamento materiale della comunità.Ciò che comunque Benedetto sottolinea è l'importanza della preghiera, che va curata scrupolosamente, con una profonda adesione personale: indicative al riguardo sono alcune affermazioni della Regola come, per es., "Ergo nihil operi Dei praeponatur" (cap. XLIII, 3; PL, LXVI, col. 675) e "ut mens nostra concordet voci nostra" (cap. XIX, 7; ivi, col. 476). D'altra parte la Regola rivela anche una certa preoccupazione estetica; infatti, a proposito dei lettori e dei cantori ai quali tocca leggere o eseguire un pezzo o intonare un canto, il padre dei monaci d'Occidente dice esplicitamente "cantare autem aut legere non praesumat, nisi qui potest ipsum officium implere, ut aedificentur audientes" (cap. XLVII, 3; ivi, col. 700).L'interesse musicale nella vita benedettina si esprime principalmente in due settori: la produzione liturgica e la pedagogia. Per quanto riguarda la creatività musicale, si può osservare come ogni comunità monastica, pur mantenendo ferma la struttura base, esprima la sua cultura artistica e teologica con canti propri e con scelte di pezzi particolari attinti al thesaurus della tradizione. Inoltre, l'evoluzione dei tempi liturgici e l'introduzione di nuove feste, soprattutto nel ciclo dei santi, esige un adeguamento permanente delle celebrazioni; importanti sono le produzioni poetiche e musicali che interessano vari generi liturgici, in particolare gli inni, i responsori e, dopo l'epoca carolingia, gli uffici ritmici.Dal momento che la Chiesa di Roma non ha accolto l'innodia se non dopo il Mille, prima di tale periodo sono stati esclusivamente i monasteri, come Montecassino, ad assurgere a centri di questa importante produzione poetico-musicale. Nei monasteri, in cui si coltiva con fervore la lettura e la meditazione dei testi biblici e patristici, sono sviluppati pure con entusiasmo i responsori, concatenando tra di loro diversi incisi testuali, in modo da riassumere i momenti salienti dell'esistenza di personaggi biblici o di santi (historia, historiae).Secondo un uso altomedievale, dal sec. 9° nei nuovi offici si riscontrano di frequente antifone composte seguendo progressivamente l'ordine delle strutture melodiche fondamentali, chiamate modi (I, II, III, ecc.). Così anche la salmodia cambia progressivamente, toccando successivamente tutte le gamme conosciute.La pedagogia musicale era pensata e praticata a servizio esclusivo della liturgia, per poter rendere gloria a Dio e aiutare i fratelli nel cammino di fede. Ciò comportava un'istruzione globale per poter arrivare soprattutto a comprendere i testi e il loro contenuto spirituale e dottrinale: non si canta nella liturgia con la sola voce, bensì con l'interazione di cuore, intelligenza e facoltà canore.È sempre a partire dal sec. 9° che le testimonianze relative a un'attività musicale nei monasteri benedettini divengono più esplicite e frequenti. Documenti privilegiati sono sia i libri liturgici sia gli scritti teorici; i primi spesso rivelano un raffinato gusto estetico, che si esprime nelle decorazioni e nelle pagine istoriate. A cominciare dal sec. 9°, inoltre, le fonti liturgiche sono anche fornite di notazione: un altro aspetto dell'impegno musicale che, come pochi altri settori dell'attività artistica e grafica, permette di distinguere i singoli monasteri e i gruppi omogenei di comunità benedettine. Infatti, mentre la grafia dei testi nei territori dell'impero carolingio assume una caratteristica connotazione uguale ovunque - con le debite sfumature ed eccezioni, che per secoli distinsero dal resto dell'Europa latina le aree beneventana, iberica e insulare -, ammonta a molte decine il numero delle differenti notazioni musicali della medesima area culturale carolingia, prima in campo aperto (cioè senza il supporto di righe), in seguito su un rigo. Soltanto alla fine del sec. 12° iniziò ad affermarsi un tipo semplificato di notazione, quella quadrata, che peraltro si articola in molte forme peculiari.A parte la presenza di alcuni pezzi musicali caratteristici, è proprio la grafia neumatica l'elemento più evidente che permette di tracciare le linee che congiungono i diversi monasteri medievali accomunati da un identico spirito di riforma (Cluny, Digione, Vallombrosa e le sue fondazioni, ecc.) e da un medesimo cursus liturgico. Sono infatti queste due istanze che costituiscono la 'vicinanza' dei monasteri tra di loro, anche nel caso di abbazie distanti molti chilometri e situate in regioni lontanissime. Ciò spiega, per es., la presenza di neumi di tipo sangallese a Bobbio, di neumi 'francesi' nell'Italia centrale (S. Salvatore al monte Amiata), oppure la stretta analogia tra i neumi dell'abbazia di Novalesa con quelli catalani arcaici. Si può osservare, inoltre, la persistenza di usi liturgici lontano dal luogo di origine, come a Farfa, che testimonia le usanze di Cluny, o a S. Gallo di Moggio Udinese, dove si trovano strutture liturgiche proprie di Hirsau.A queste relazioni intermonasteriali e anche all'apporto di monaci pellegrini ai luoghi sacri della penisola si può far risalire la presenza di tradizioni straniere in centri e in crocevia culturali come Montecassino. Il repertorio delle sequenze segnalate in un manoscritto di Montecassino (Bibl., 318) evidenzia infatti una insospettata ricchezza di materiale liturgico-musicale d'origine locale e anche di matrice europea (altre regioni italiane, aree occidentale e orientale dell'impero carolingio).Anche nell'elaborazione dei principi della teoria musicale si riscontrano influssi transalpini, come accade in un tonario di Nonantola che deriva da un modello di Reichenau. Ma, in genere, i teorici italiani sono più attenti al fatto pratico che non alla pura speculazione, caratteristica di gran parte della produzione estera. Tra i centri italiani dei secc. 10° e 11° primeggiano quelli dell'Italia centrale, con una scuola in Arezzo, dove, già prima del monaco camaldolese Guido, operava un abate Odo, autore di un importante trattato.Guido d'Arezzo (992 ca.-1050), già monaco a Pomposa, sviluppa in modo personale le dottrine precedenti e compie passi decisivi sulla via della pedagogia musicale, vuoi con ulteriore perfezionamento dell'uso teorico del monocordo, vuoi con l'elaborazione della 'mano guidonica' (illustrata nei codici teorici per molti secoli con diversissime rappresentazioni). A Guido si deve inoltre l'esatta precisazione dell'altezza dei suoni, grazie alla scrittura musicale, che fissa le note stesse in una rete di coordinate formate da righe colorate e dalla presenza di chiavi musicali. Infine, non si può dimenticare che lo stesso Guido ha dato il nome alle note, derivandolo dalle prime sillabe di un inno composto da Paolo Diacono, monaco a Montecassino (m. nel 799), inno che tra l'altro costituisce un complesso crittogramma cristologico.Altri importanti capitoli della storia della musica europea vedono i monaci benedettini impegnati in prima persona. Le nuove forme della cultura poetica carolingia, i tropi e le sequenze, non hanno avuto origine nei monasteri, ma in essi sono stati particolarmente curati; senz'altro Jumièges e San Gallo sono i primi centri di redazione delle sequenze. La finalità di questi canti - congiunti, almeno in origine, all'Alleluia della messa - era di favorire il ricordo dei lunghi vocalizzi (melismi) che ornavano le melodie alleluiatiche.Dovunque i centri monastici si sono distinti nell'elaborazione del patrimonio liturgico tradizionale, aggiungendo interpolazioni e parafrasi ai brani originali e modificandone la struttura primitiva. Tali interventi redazionali e strutturali - i tropi - sono già conosciuti in epoche precedenti (per il Sanctus è indicativa la 'coda' presente nel Messale insulare di Stowe; Dublino, Royal Irish Acad., D.II.3). Ma è nei monasteri che tale produzione diviene un fatto normale e, dopo il sec. 8°, dilata sempre più le funzioni liturgiche, con il rischio - talora forte - di squilibrare le parti delle celebrazioni e di far perdere all'azione liturgica la sua intrinseca armonia. Ciò è dovuto al fatto che quasi tutti i canti della messa e della liturgia delle ore (qui in particolare i responsori) potevano essere tropati e che i tropi potevano essere molto lunghi e complessi.In questo contesto si comprende la nascita del dramma sacro, che prelude al teatro medievale. Alcuni tropi dialogici e drammatici presenti nel ciclo pasquale (non solo il Quem quaeritis di Pasqua, ma anche il Kyrie tropato dell'ufficio delle Tenebrae nel triduo sacro) e alcuni usi di grande effetto scenico (come la scissione della grande tenda del presbiterio o del coro durante la proclamazione/canto della passione il venerdì santo) sono da considerarsi gli immediati antecedenti degli interventi catechetici teatrali, che coinvolgevano una grande massa di popolo. Elaborati tra i secc. 9° e 10°, i drammi liturgici si sono diffusi capillarmente in tutta l'Europa, rispondendo all'esigenza di un intenso coinvolgimento emotivo che la liturgia non riusciva più a suscitare nel cuore dell'assemblea sempre più distaccata, passiva e, di fatto, ignara di quanto veniva celebrato.Il dramma vede impegnati i monaci a seconda della loro funzione liturgica (per es. diaconi o cantori) e drammatica (per es. angeli o apostoli). L'impressione suscitata da tali avvenimenti drammatici era grande e corrispondeva al progetto dei protagonisti di aiutare la fede degli indocti (Etelvoldo, Regularis Concordia). Tale intento pedagogico venne perseguito anche nell'elaborare successivi drammi, i vari officia che scandivano in tutte le chiese e sui sagrati l'intero anno liturgico, con una spiccata preferenza per alcune ricorrenze particolari (Natale, Epifania, Pasqua). Pur mantenendo fondamentalmente il canto a una sola voce, i monasteri hanno praticato la polivocalità sino a giungere ai primi esperimenti di polifonia. La tecnica di cantare nota contro nota in un movimento parallelo o contrario è testimoniata negli scritti teorici e la prassi doveva senz'altro essere più diffusa di quanto traspare dalle poche testimonianze. Se nel mondo monastico francese si formano le cellule musicali che preparano l'esuberante fioritura della scuola parigina di Notre-Dame, in Italia, anche in epoca posteriore, si hanno documentazioni di una prassi arcaica di tipo 'organale', come nel caso, per es., di Montecassino, dove si conserva in un omeliario (Bibl., 111) la traccia di una melodia a due voci, notata con neumi neri e rossi nel 12° secolo.In questo secolo si confermano le tradizioni musicali locali e si evidenziano le strutture che avrebbero portato all'affermazione degli stili nazionali. La ricchezza quantitativa e qualitativa delle fonti di origine monastica permette di rintracciare la fedeltà dei monasteri italici alla tradizione melodica che predilige i canti in sol. Inni e sequenze della cerchia di Abelardo (m. nel 1142) e di Pietro il Venerabile di Cluny (m. nel 1156) mostrano arditezze melodiche e ritmiche inusitate, con una netta propensione allo slancio verso l'acuto, che non può non far pensare alla tensione verso l'alto delle cattedrali gotiche. Ildegarda di Bingen (m. nel 1179), in Germania, recupera la cantilena indigena - con una particolare predilezione per le melodie in mi - e fa da ponte tra la precedente fase di tradizione orale e il mondo musicale dei musicisti posteriori.Sempre in Germania, l'Hortus deliciarum di Herrada di Hohenburg (m. nel 1195) rivela l'attenzione che il mondo religioso in genere e quello monastico in particolare rivolgono alla realtà musicale nelle sue varie espressioni, sacre e profane. Ciò comporta anche un arricchimento della propria esperienza artistica, qual è dato conoscere, nel secolo successivo, nella ben più nota collezione dei Carmina Burana. Questa raccolta assurge a exemplum del gusto e di una parte della prassi musicale nei monasteri, caratterizzata ormai non soltanto dai pezzi esclusivamente liturgici, ma anche da creazioni drammatiche e da parodie.
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