BENEDETTINI
Durante la prima metà del Duecento, se da una parte si attenuarono le peculiarità che specialmente nel secolo precedente avevano visto due forme di monachesimo, 'vecchio' e 'nuovo', notevolmente diversificate nella pratica della povertà e nella preferenza per l'eremitismo o, quanto meno, per la solitudine, dall'altra vennero consolidandosi quelle varie forme di aggregazione monastica che avrebbero poi trovato la loro collocazione istituzionale ‒ fatta salva la vistosa eccezione dei Cistercensi ‒ nell'Ordine di s. Benedetto.
In ogni caso, specialmente a fronte del sorgere e della rapida diffusione degli Ordini mendicanti, al monachesimo si riconobbe il ruolo di tramite con la tradizione del passato, erede di una secolare vicenda che gli aveva assegnato nell'ambito della cristianità medievale un ruolo preponderante e non ancora del tutto superato nell'articolazione della società e negli stessi rapporti tra i due massimi poteri, Papato e Impero. Pertanto il monachesimo con il quale si incontrò il giovane sovrano svevo era ancora sostanzialmente solido nelle sue strutture anche se, in conseguenza dell'isolamento di molti cenobi di origine altomedievale, si potevano denunciare situazioni di decadenza spirituale e materiale. È il caso dell'abbazia di Farfa, nella Sabina, che non fu ritenuta un punto di riferimento per Federico II, pur interessato a consolidare la presenza imperiale in una zona confinante con lo Stato della Chiesa; anzi, nel 1241, per ragioni tattiche occupò e devastò alcuni castelli appartenenti all'abbazia, collocati in una zona prossima a Roma e a Tivoli. Si potrebbe considerare questo episodio come una chiave di lettura per conoscere i rapporti dell'imperatore svevo con il monachesimo, ritenuto un instrumentum regni, un mezzo per attuare il grande disegno politico della restaurazione del potere nelle vaste regioni dell'Europa avute in eredità e riconosciutegli, sia pur a titolo personale, con l'incoronazione imperiale del 1220. Tuttavia, per quanto il problema della religiosità di Federico II sia ben lungi dall'essere chiarito in ogni suo aspetto, si deve però ammettere che la sua condotta, nei riguardi del mondo monastico, si sia ispirata, fin dall'inizio, a una dichiarata continuità con le tradizioni familiari sia degli Hohenstaufen che degli Altavilla, mostrando particolare attenzione per assicurare donazioni e protezione ai monasteri, e in qualche caso anche devozione, come risulta da una massa imponente di documenti che si incontrano nei volumi della Historia diplomatica Friderici secundi, confermati da alcuni precisi episodi narrati da cronisti coevi.
Già nei primi anni del suo governo, dal 1208, quando raggiunse la maggiore età, fino all'incoronazione imperiale del 1220, Federico mostrò di voler continuare la predilezione mostrata dai suoi avi e, in particolare, dai suoi genitori Enrico VI e Costanza d'Altavilla, verso alcuni movimenti monastici. I Cistercensi, con la loro organizzazione agraria strutturata in grange e per l'attività edilizia, offrivano un valido aiuto all'opera dei sovrani, che ricompensarono l'Ordine di Cîteaux con notevoli elargizioni. Ma Federico mostrò verso i monaci bianchi anche una certa sensibilità spirituale, se nell'agosto del 1215, poco dopo l'incoronazione a re dei Romani ad Aquisgrana, chiese al capitolo generale dei Cistercensi di essere ammesso a partecipare dei benefici spirituali dell'Ordine; sul letto di morte, come è noto, volle indossare l'abito di quei monaci. Ai Verginiani, ai quali lo legavano ricordi d'infanzia e la devozione mariana della madre, l'imperatrice Costanza, Federico rivolse le sue premure già in un diploma del marzo 1206 (Historia diplomatica, I, 1, pp. 116-118), se autentico; in ogni caso i documenti in favore di Montevergine, tra l'altro anche per consolidarne la struttura articolata in monaci e conversi, si succedono con frequenza fino al 26 luglio 1250 (ibid., VI, 2, pp. 780-782), a pochi mesi dalla morte. Benevolenza dimostrò pure per il monastero di S. Giovanni in Fiore, fondato dal celebre abate Gioacchino per fare rivivere gli ideali originari dei Cistercensi: in un diploma del 1206 (ibid., I, 1, p. 120) Federico confermò a Matteo, abate di Fiore, tutti i privilegi e le immunità elargiti dai suoi genitori; così pure, ma ormai nel maggio del 1225 (ibid., II, 1, p. 478), confermò al monastero di S. Maria di Pulsano tutte le concessioni fatte dai suoi predecessori.
Se l'attenzione per Cistercensi, Verginiani, Florensi e Pulsanesi sembra prevalere in questo primo periodo, per le ragioni anzidette, il sovrano svevo non mancò tuttavia, nel medesimo tempo, di indirizzare innumerevoli atti per confermare i beni e per assicurare la protezione anche a monasteri di antica tradizione e rimasti estranei alle recenti aggregazioni monastiche. Tra questi numerosi cenobi, sparsi nelle terre dell'Impero e del Regno, sia in Germania, sia in Italia, si incontrano monasteri che avevano ereditato dal passato consistenti signorie monastiche. Nel marzo del 1209 (ibid., I, 1, p. 144) Federico chiese ai cittadini di Pescara di consentire all'abate di S. Clemente a Casauria di mantenere tutti i possedimenti che aveva in città; nel settembre dello stesso anno concesse all'abate Balsamo di Cava il privilegio di esercitare i poteri giudiziali sugli uomini e sulle terre che appartenevano al cenobio (ibid., p. 251); nell'aprile del 1212 assegnò una dotazione annua di 1.000"tarenos aureos" al monastero di S. Pietro 'de canonica', presso Amalfi (ibid., pp. 208-209). Considerazione analoga ebbe per i monasteri dell'area germanica. Il 16 febbraio 1213 accordò in difesa del monastero di S. Giacomo degli Irlandesi (o Scotti) di Ratisbona il proprio mundeburdio (ibid., p. 246), mentre il 27 marzo dello stesso anno confermò alla Chiesa di Salisburgo il monastero femminile di Chiensee (ibid., p. 256): del resto, anche in altre occasioni favorì monasteri femminili, sia cistercensi, sia di osservanza benedettina tradizionale. Ai monaci di Eberbach, nella valle del Meno, che rifornivano Colonia con il loro vino, riconobbe il libero transito "per alveum Rheni" (ibid., p. 268); accordò la sua protezione all'abbazia di Lorsch, nella Renania, e a quella di Hirsau nel Württemberg, ricordando, nel primo caso, che il cenobio era stato fondato dai suoi progenitori (ibid., I, 2, p. 388) e, nel secondo, che il monastero era stato beneficato dal suo avo e da suo padre (ibid., p. 390). Tra questi numerosi diplomi non mancano falsificazioni, come il diploma del 30 agosto 1216 per il monastero di S. Pietro in Ciel d'Oro di Pavia (ibid., p. 479). In quasi tutti gli interventi fino al momento dell'incoronazione imperiale (1220) si coglie un atteggiamento particolarmente benevolo verso i monasteri, ereditario nella dinastia di Federico e da lui certamente condiviso.
Rientrato in Italia nel 1220, il primo obiettivo che il sovrano svevo si propose fu quello di rivendicare i diritti regi che erano stati usurpati nel trentennio precedente, durante gli anni della sua minorità e della sua permanenza in Germania. Nella dieta di Capua dovette prendere provvedimenti severi in questo senso; più tardi si trovò di fronte a una nuova Lega dei comuni lombardi che non volevano sottostare ai poteri da lui rivendicati in quanto imperatore. Le vicende della promessa crociata e altri suoi atteggiamenti nei confronti del pontefice gli valsero due scomuniche da parte di papa Gregorio IX (1227, 1239), e una terza, la più grave, gli fu comminata da papa Innocenzo IV nel 1245 durante il concilio di Lione. La guerra contro il Papato divenne sempre più aspra negli ultimi anni della vita dell'imperatore svevo.
In questo secondo lungo periodo del governo di Federico, non privo di tensioni e di momenti drammatici nel confronto con il papato, l'atteggiamento dell'imperatore verso i monasteri mutò radicalmente, ma soltanto quando una rigorosa necessità politica lo impose in modo ineludibile.
Montecassino, che fin dal 1216 aveva ricevuto un diploma con il quale il sovrano aveva annullato le alienazioni del patrimonio fatte in precedenza per necessità del momento (ibid., p. 466), e il cui abate aveva assistito all'incoronazione imperiale del 1220, poiché all'indomani della scomunica del 1239 si era schierato apertamente dalla parte del papa, incorse nelle ire del sovrano che lo fece occupare dalle truppe imperiali e spogliare dei suoi beni incamerati dal fisco. L'abbazia di Cava seppe invece mantenersi in disparte nella lotta tra papato e Impero e conobbe proprio in quegli anni un periodo di floridezza, grazie anche alle concessioni fatte da Federico II all'abate Balsamo fin dal 1229 (ibid., III, pp. 559-560). A volte però la confisca dei beni, anche solo parziale, fu dettata da crescenti esigenze di liquidi, come nel caso del monastero di S. Giovanni in Lamis nella Puglia settentrionale.
Ma non si può dire che a seguito dello scontro con il papato si siano interrotti i rapporti di Federico con il mondo benedettino e monastico in generale. Se mai veniva sottolineata la fedeltà che il cenobio e l'abate dovevano mantenere verso l'imperatore. Nel luglio del 1242, Federico accolse sotto la sua protezione il monastero di Fonte Avellana, "dummodo in fidelitate sua fratres perseverent" (ibid., VI, p. 58).
Se ne può trarre conferma dai rapporti di Federico II con le grandi signorie monastiche dell'Italia centrale e in particolare con quelle della Toscana, che per tutto il periodo federiciano appartenne al Regnum. Pur mantenendosi nel solco della tradizione, Federico mostrò di concentrare le sue attenzioni, senza soluzione di continuità, verso una ristretta cerchia di monasteri che nel frattempo erano divenuti punti di aggregazioni monastiche. Fin dal 1219 rivolse le sue premure verso Camaldoli, centro di una congregazione diffusa in vaste aree dell'Italia centrosettentrionale (ibid., I, 2, p. 923), mentre al 1226 risale il diploma che garantiva gli interessi di Vallombrosa e della sua congregazione (ibid., II, p. 586): se in questo ultimo caso non si ebbero successive conferme, a differenza di Camaldoli, probabilmente si deve alla situazione interna dei monaci di Vallombrosa, che non riuscirono a trarre i vantaggi che la concessione di Federico avrebbe consentito. Ma il cenobio che più di ogni altro in Toscana richiamò l'attenzione del sovrano fu l'antico monastero imperiale di S. Salvatore al Monte Amiata, che ricevette ben venticinque diplomi. Nel 1228, per superare i forti contrasti con la nobiltà feudale, papa Gregorio IX trasferì il monastero ai Cistercensi: Federico II vi acconsentì nel 1231, con la clausola "salva fidelitate et omni iure imperii", in altre parole, purché rimanesse, scostandosi alquanto dalle tradizioni dell'Ordine, un monastero imperiale. Con successivi interventi l'imperatore mostrò il suo impegno per assicurare al monastero dell'Amiata il rispetto dei suoi beni e diritti anche di fronte al movimento comunale in forte crescita nello stesso Castello dell'Abbadia.
Dove, però, a fronte dell'espansione dei comuni, Federico ebbe occasione di rinnovare la sua protezione verso i monasteri, fu nell'Italia centrosettentrionale, prima e dopo la vittoria di Cortenuova (1237). In un diploma del 1220, il sovrano svevo riconfermò la piena libertà dell'abbazia di Borgo S. Sepolcro, del borgo e dei burgensi, tenuti a obbedire solamente all'imperatore, al suo nunzio e all'abate; nel 1226 ammonì i ferraresi perché rispettassero i diritti del monastero ravennate di S. Vitale, conculcati dai loro statuti, mentre il tradizionale diritto del monastero padovano di Praglia di esercitare poteri giurisdizionali su alcuni villaggi euganei fu ribadito nel 1232. D'altra parte è ben vero che, in un primo tempo, i monasteri cittadini padovani di S. Giustina e di S. Benedetto furono roccaforti nella resistenza della città allo Svevo, alleato di Ezzelino da Romano, ma, allorché nel 1239 Federico giunse a Padova con la sua corte, fu accolto trionfalmente e per oltre due mesi prese dimora nel monastero di S. Giustina. E ancora nell'agosto del 1241 il monastero di S. Genuario di Lucedio ottenne dal sovrano la conferma di un privilegio rilasciato dal nonno con cui si impediva al comune di Vercelli di menomare i possessi abbaziali.
Invece per necessità belliche i monasteri dell'area ravennate subirono saccheggi e dispersione di monaci, ma perché coinvolti negli ultimi scontri con le truppe dello Stato della Chiesa. È significativo che nella commissione designata dalla Sede Apostolica per un esame sulla fede dell'imperatore all'indomani della condanna inflittagli dal concilio di Lione, compaiano, quasi in funzione di mediatori, accanto all'arcivescovo di Palermo e al vescovo di Pavia, ben tre abati, di Montecassino, Cava e Casanova, con due frati domenicani.
La commissione ‒ se mai si riunì ‒ non ebbe tuttavia il tempo di svolgere il suo compito; Federico II morì nella sua Puglia, a Castelfiorentino, il 13 dicembre 1250, dopo aver dettato, pochi giorni prima, il testamento nel quale stabiliva che fossero restituiti a tutte le chiese e alle case religiose i loro diritti (ibid., VI, 2, p. 811).
Fonti e bibliografia
La documentazione relativa ai rapporti con i monasteri è raccolta nella Historia diplomatica Friderici secundi; fonti sui singoli insediamenti monastici sono indicate nella rispettiva bibliografia. F. Gabotto, Ancora un diploma inedito di Federico II per l'abbazia di San Genuario di Lucedio, "Bollettino Storico Bibliografico Subalpino", 17, 1912, pp. 384-385; E. Cau, Il vero e il falso in un diploma di Federico II per S. Pietro in Ciel d'Oro (1216 agosto 30), in 'Speciales fideles imperii'. Pavia nell'età di Federico II (Pavia 19 maggio 1994), a cura di E. Cau-A.A. Settia, Pavia 1995, pp. 211-237; H.M. Schaller, Die Frömmigkeit Kaiser Friedrichs II., "Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters", 51, 1995, pp. 493-513 (trad. it. La religiosità di Federico II, "Tabulae. Quadrimestrale del Centro di Studi Federiciani", 1997, nr. 1, pp. 37-61); G. Vitolo, 'Vecchio' e 'nuovo' monachesimo nel regno svevo di Sicilia, in Federico II. Convegno dell'Istituto storico germanico di Roma nell'VIII centenario della nascita, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 182-200; Il monachesimo italiano nell'età comunale. Atti del IV Convegno di studi storici sull'Italia benedettina, Abbazia di S. Giacomo Maggiore, Pontida (Bergamo), 3-6 settembre 1995, a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1998 (in partic.: S. Bortolami, Il monachesimo nella Marca Trevigiana e Veronese in età comunale: un modello in cerca di omologhi, pp. 398-401; G. Casagrande-A. Czortek, Monasteri e comuni in Umbria [secc. XI-XIII]. Appunti e considerazioni da un primo sondaggio, pp. 602-604, 626-627; H. Houben, Monachesimo e città nel Mezzogiorno normanno-svevo, pp. 643-663; A. Padovani, Monasteri e comuni in Romagna, pp. 494, 502-503);P. Dalena, Federico II e gli ordini monastici nel Regno, in Chiesa e società nel Mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, I, Soveria Mannelli 1998, pp. 135-170; P. De Leo, Federico II e i monasteri latini del Regnum. Appunti per una indagine, in Federico II e Montevergine. Atti del Convegno di studi su Federico II (Montevergine, 29 giugno-1o luglio 1995), a cura di P.M. Tropeano, Roma 1998, pp. 65-76; H. Houben, Sfruttatore o benefattore? Enrico VI e Montevergine, ibid., pp. 49-63; T. Leggio, Farfa, Rieti e Federico II, in Esculum e Federico II. L'imperatore e la città: per una rilettura dei percorsi della memoria. Atti del Convegno di studio, Ascoli Piceno, 14-16 dicembre 1995, a cura di E. Menestò, Spoleto 1998, pp. 285-306; M. Dell'Omo, Montecassino. Un'abbazia nella storia, Montecassino 1999, pp. 53-55, 197, 298; W. Kurze, Federico II e l'Italia: le grandi signorie monastiche tra Chiesa e Impero (Italia centrale), "Archivio Storico Italiano", 158, 2000, pp. 215-254; F. Panarelli, Il monachesimo nella Puglia di Federico II, in Federico II 'puer Apuliae'. Storia, arte, cultura. Atti del Convegno internazionale di studio in occasione dell'VIII centenario della nascita di Federico II (Lucera, 29 marzo-2 aprile 1995), Galatina 2001, pp. 57-80.