BUONMATTEI (Buonmattei), Benedetto
Nacque a Firenze verso la metà di luglio del 1581 da Vincenzo di Benedetto, non ricco discendente di un'antica famiglia cittadina (già detta del Rosso, poi de' Mattei), e da Beatrice di Giannozzo degli Stradi; fu battezzato in S. Giovanni il 9 agosto.
Primogenito di almeno sette tra fratelli (Giannozzo, Francesco e Giovan Battista) e sorelle (suor Ippolita, Costanza ed Elisabetta), aveva già mostrato una certa attitudine agli studi umanistici quando l'uccisione del padre (1591) lo costrinse a imparare l'abbaco e ad avviarsi alla mercatura. In quest'applicazione egli riuscì così bene che a quindici anni poté essere impiegato come aiuto del camarlingo dell'ufficio dell'Abbondanza e fu conteso da accreditati mercanti. Queste occupazioni lo portarono però a studiare più profondamente le matematiche, tanto che per tutta la vita e, si può dire, in tutte le opere, la mentalità sistematica e geometrica non lo abbandonerà mai. Uscito dall'età pupillare, intorno al 1599 decise di abbracciare lo stato ecclesiastico: a diciannove anni, così, poté finalmente dedicarsi alla "gramatica" e alle "lettere umane", avendo per maestro Marcello Adriani il Giovane, nello Studio patrio, dove ebbe valenti insegnanti anche in filosofia, in teologia scolastica e in teologia morale; nello Studio di Pisa, invece, frequentò per cinque anni i corsi di diritto civile e canonico, laureandosi (non sappiamo quando). Il 29 apr. 1611 conseguì a Firenze la laurea dottorale in teologia, dopo che aveva già ricevuto tutti gli ordini sacri (divenendo sacerdote nel 1608) da monsignor A. Marzimedici, arcivescovo di Firenze. Il suo principale biografo, G. B. Casotti, non ha dubbi sulla vocazione e sullo zelo religiosi del B., anzi più volte afferma che tutte le altre attività ed esperienze vennero sempre considerate da lui come mezzi per esercitare meglio il suo apostolato; comunque sia, il B., come altri ecclesiastici letterati o scienziati del suo tempo, non rifuggì dagli agi o almeno dalle possibilità di successo mondano che il suo stato e il suo ingegno gli offrivano. Tra il 1608 e il 1611 lo stesso arcivescovo gli affidò la direzione spirituale e temporale di monasteri femminili: di quell'esperienza fu frutto l'opuscolo Del modo di consecrar le Vergini, Venezia 1622, composto tra il 1611 e il 1616, probabilmente a Roma. In questa città il B. si trasferì nel 1611 per completare la sua preparazione sacerdotale e vi godé della protezione e dell'amicizia prima del marchese Piero Guicciardini, ambasciatore del granduca, poi del cardinale Benedetto Giustiniani, genovese, noto mecenate e protettore del defunto padre Prospero Buonmattei, parente del B. e generale dei vallombrosani. A Roma nel 1613 compì la stesura del primo dei suoi libri Della lingua toscana (l'opera che più l'ha reso famoso), che fece correre manoscritto per dieci anni (sarà pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1623) per sottoporlo al giudizio dei più autorevoli letterati italiani dell'epoca.
Un grave fatto domestico costrinse il B. a tornare a Firenze nel 1615 o 1616 (anno in cui era sicuramente in patria e "governatore" del monastero di S. Maria del Fiore di Pietrafitta): il fratello Giovan Battista volle vendicare la morte del padre ed egli accorse a riparare, non si sa come, l'imminente rovina di lui e della famiglia. Giovan Battista si salvò arrolandosi al servizio di Venezia nella seconda guerra del Friuli, in cui morì col grado di capitano (nell'agosto o nel settembre 1617, a quanto pare) e così, scrive il Casotti, "colla gloria di segnalate azioni lavò la macchia del commesso errore".
Giovan Battista dové comportarsi davvero in modo eccezionale (e il B. non mancò di rimproverare a F. Moisesso, autore di una Historia di quella guerra pubblicata a Venezia nel 1623, di averlo lasciato troppo in ombra) se la sua fama, come afferma il Casotti, aprì al B. le porte dell'alta società di Venezia, dove trovò nuovi protettori nei Contarini, in specie Francesco di Piero e i suoi figli: a uno di questi, Piero, abate di S. Zeno in Colle nel Trevigiano, A. Cantini dedicò la seconda edizione della grammatica del Buonmattei.
A un certo momento il B. si trasferì a Padova, dove lo accolse benignamente il vescovo monsignor M. Cornaro, che gli affidò di nuovo la direzione di monasteri femminili. In quella città egli strinse nuove amicizie con i letterati e i docenti della celebre università e trovò un ambiente quanto mai propizio per i suoi studi; la vasta erudizione gli permise d'insegnare privatamente, a molti e qualificati allievi, lingua toscana, retorica, filosofia, teologia, diritto civile e canonico e perfino geometria. Durante questo soggiorno a Padova fu nominato parroco della chiesa di S. Maria di Sala nel capitanato di Padova ma in diocesi di Treviso, ciò che lo costrinse a rinunziare alle piacevoli abitudini contratte in città.
L'uccisione, dovuta a un errore, dell'ultimo fratello rimastogli, Francesco, lo costrinse a tornare a Firenze per consolare la madre, ormai sola, che non lo volle seguire in quella sperduta parrocchia di campagna, e così nel gennaio o febbraio 1627 il B. decise di rimanere a Firenze.
Nella prima metà del 1626 Agnolo Cantini aveva ripubblicato a Venezia (presso Giovanni Salis), e all'insaputa del B., il primo libro della sua grammatica, con l'aggiunta dei primi due trattati del libro II e con il titolo d'Introduzione alla lingua toscana del sig. Benedetto Buommattei..., appena tre anni dopo la prima edizione. Benché entrambe le edizioni fossero incomplete, la fama del B. come grammatico e maestro della lingua toscana era ormai grande quando ritornò a Firenze. Le numerose accademie patrie se lo contendevano: l'Accademia della Crusca, sotto il reggimento dell'Insaccato (Lorenzo Franceschi), lo ammise tra i suoi membri il 17marzo 1627; l'Accademia degli Apatisti lo considerò sempre uno dei padri fondatori, perché fu tra i primi letterati che, riunendosi in casa di Agostino Coltellini, le dettero vita, ed ebbe, secondo l'"instituto", un nome anagrammatico, Boemonte Battidente (alla Crusca si chiamò il Ripieno); segnalata fu la sua attività (discorsi, lezioni, ecc.) anche nelle accademie degli Svogliati, degl'Infiammati, degl'Instancabili, degli Spensierati, degli Umoristi, dei Pazzi. Partecipò anche alla vita delle compagnie religiose (per esempio di S. Benedetto Bianco e Nero, di S. Alberto, di S. Bastiano della Congregazione della dottrina cristiana di S. Francesco) con prediche e altri interventi. Continuò naturalmente anche la sua attività di membro dell'Accademia fiorentina, a cui era stato ammesso verso il 1605, e nella quale già nel 1623 aveva letto un'orazione Delle lodi della lingua toscana, poi pubblicata in calce alle edizioni settecentesche della grammatica.
In quegli anni il B. scrisse e in parte pubblicò vari lavori di minore impegno o ampiezza, oltre alle orazioni sacre e profane. Nel 1632 ebbe dal granduca Ferdinando II un alto riconoscimento con la nomina a "lettore di lingua toscana" e a rettore del collegio universitario Ferdinando di Pisa, istituendosi per la prima volta quella cattedra nell'università di Pisa. Tale ambito onore rallegrò il B., che però fu amareggiato dall'indisciplinatezza degli studenti del suo collegio, dai quali non riuscì sempre a farsi amare o ubbidire. Per questo non rinunziò a tornare a Firenze "dove con onorato stipendio fu chiamato Lettore di Lingua Toscana nello Studio Fiorentino l'anno 1637" (Casotti). In patria riprese anche le lezioni sulla Divina Commedia che, prima di partire per Pisa, aveva tenuto soprattutto all'Accademia fiorentina e pubblicò la Division morale dell'Inferno di Dante...(Firenze 1638) e la Division morale del Purgatorio di Dante (ibid. 1640).
Si tratta di due tavole sinottiche, preludio a una grande opera che la morte gl'impedì di compiere; la terza tavola, sul Paradiso, fu fatta, per espresso invito del Coltellini che gli aveva donato le prime due, da Francesco Cionacci, autore di altri studi danteschi. Il B. lasciò inedita la maggior parte dei suoi, che ora costituiscono la massa più cospicua delle carte strozziane che lo riguardano nella Bibl. nazionale di Firenze (Fondo princ. II, III, 176; II, IV, 131-134; Magliab., cl. VI, 164). Benché il Casotti e altri avessero lodato le lezioni su Dante del B., solo ricerche recenti, condotte anche sugli inediti, hanno potuto accertare il valore del B. come dantista. Forse più che negli studi linguistici e grammaticali, nell'esegesi dantesca - dove comunque il suo gusto della ricerca lessicale, e grammaticale è sempre attivo e fruttuoso - egli mostra l'originalità del suo pensiero e l'indipendenza della sua posizione critica. Tende infatti a dare giudizi che sono al di fuori o addirittura contro i canoni aristotelici; afferma, fra l'altro, che Dante si è discostato da essi, quando l'ha ritenuto necessario, e così ha ottenuto quei mirabili risultati artistici che tutti conosciamo e gustiamo (mediante lo studio diligente e diuturno della lingua, beninteso, come afferma nell'orazione Dell'utilità che dallo studio delle lingue si può cavare, ms. della Bibl. naz. di Firenze, II, VIII, 20, c. 40).
Nel 1638 conobbe a Firenze John Milton, allora trentenne, che serbò grato ricordo di lui e degli altri letterati fiorentini.
Della sua attività all'Accademia della Crusca sono documento le tre cicalate fatte in tre solenni "stravizzi" e pubblicate nel 1635 a Pisa da Francesco della Dote con lo pseudonimo di Benduccio Riboboli da Matelica (col quale firmò anche l'idillio La Befana stampato del 1766). Allorché la Crusca rimase per alcuni anni inoperosa, il B. fu tra coloro che ne sollecitarono la ripresa. A tale scopo il 25 nov. 1640 il B. e altri si riunirono in casa dell'accademico più anziano, il Trito (Piero de' Bardi de' conti di Vernio), per riaprire l'accademia. Il B. fu eletto segretario e come tale infatti tenne il diario dell'accademia da quel giorno all'ottobre 1644 (la malattia dovette impedirgli di copiare le ultime annotazioni. come fa capire il Ricordo a c. 48 del cod. II, IV, 24 già alla Bibl. naz. di Firenze, ora di nuovo alla Crusca). Nel diario è notevole l'insistenza con cui egli stimolava gli accademici a occuparsi seriamente e più spesso della nuova edizione del vocabolario.
Col titolo Della lingua toscana libri II usciva a Firenze nel 1643 la terza edizione, ultima curata dal B., dell'opera che l'ha reso celebre.
Rispetto alle precedenti, questa ha il secondo libro completo dei suoi dodici trattati. La morte impedì al B. di pubblicare il terzo libro, di cui restano manoscritte (tra le carte strozziane della Bibl. nazionale di Firenze) parti incompiute, cioè il proemio, il trattato Dell'affisso (XXdell'opera e primo del III libro) e quello Della pronunzia. P. Fiorelli ha pubblicato negli Studi linguistici italiani il Trattato della pronunzia e il breve proemio del libro. La grammatica del B. ebbe diverse edizioni fondate sulla terza, a cominciar dalla quarta, curata dal Casotti (Firenze 1714), che contiene la Vita del B. scritta dallo stesso Casotti, le note del Salvini e, infine, l'edizione postuma delle Lodi della lingua toscana;le successive edizioni sono tutte ristampe della quarta, con o senza aggiunte. Per caso nell'anno 1643 fu ristampata a Venezia la prima edizione nella prima parte della Raccolta degli autori del ben parlare, curata da G. degli Aromatari d'Assisi (Subasiano).
Nel 1645 il B. fa colpito da "una lunga, e pericolosa infermità", che egli considerò un segno premonitore della morte. Guarì, ma si preparò spiritualmente e materialmente alla fine facendo un nuovo testamento (il terzo), col quale sostituiva con i poveri l'erede universale precedentemente istituito il cugino Raffaello Buonmattei. Il B. spiro il 1º genn. 1648 a Firenze; il 27 gennaio fu sepolto con solenni onoranze nella tomba di famiglia nella chiesa di S. Pancrazio.
Nei libri Della lingua toscana, come negli scritti danteschi, è la parte migliore del B., ma non nel senso che egli sopravanzi i suoi predecessori per genialità d'intuizioni o insondabile profondità di pensiero; come ha ben osservato P. Fiorelli (p. 114), la mentalità acquistata o arricchita durante la prima occupazione, quella di contabile, lo ha guidato anche nell'attività successiva: la tendenza all'ordine, alla chiarezza, alla completezza, alla sistematicità ne ha fatto un insigne "ragioniere della grammatica toscana". Questa premessa è importante ai fini di una più esatta valutazione moderna della grammatica del Buonmattei. Infatti, nella sua Storia della grammatica italiana (che è del 1908), C. Trabalza riconosceva, sì, in lui, il primo che concepì e attuò, in Italia, una grammatica metodica, ma poneva l'accento soprattutto sul fatto che il B., rispetto ai predecessori, "primo in Italia, applicò la speculazione filosofica con coscienza critica alla grammatica" (p. 302), segnando "il principio vero della dissoluzione della grammatica empirica e l'ingresso dell'intellettualismo o logicismo in essa e, per effetto dell'una e dell'altra causa, lo smorzarsi di ogni interesse per la grammatica storica" (p. 300). Coerentemente col suo punto di vista idealistico il Trabalza vedeva nelle speculazioni linguistiche del B. una logica troppo formalistica che egli applicava astrattamente come nelle esercitazioni accademiche: con la sua pur discutibile tripartizione delle lingue in "generali", "speziali" e "particolari" il B. si sarebbe avvicinato a una concezione della lingua precorritrice di quella vossleriana e crociana, se non avesse dimenticato la propria definizione di "lingua" come "linguaggio, parlare, o favella", prendendola poi come un'astrazione, ossia ritornando alla concezione della lingua "del miglior secolo", novello Bembo riveduto e corretto (Della lingua toscana, 3 ediz., Firenze, Pignoni, 1643, pp. 2 s.). Il Trabalza (p. 311-312)trovava prove di analoghe contraddizioni in altri punti dell'opera (per esempio là dove il B. tratta del nome e del verbo, pur riconoscendo qua e là che lo scopo principale della trattazione, mai perso di vista, è quello dell'insegnamento pratico. In realtà, se è vero che la parte speculativa "riscalda" spesso il B., è anche vero che egli talora abbandona o rifiuta le discussioni teoriche quando ne vede l'inutilità pratica: così, a p. 73 (libro I, tratt. VI, Degli accenti, cap. VI), dopo aver affermato, con tanto di esempi, che "l'accento nella nostra lingua è comportato sino alla sesta ultima sillaba ("Pòrgamivisene, Màndamivisene conclude: "Potrebbe dire alcuno che su la quinta, e su la sest'ultima se ne trovin di rado: io gli risponderei, che avesse ragione senz'entrare in altre novelle: perché in vero le più frequenti son l'altre"; inoltre alle pp. 257 s. (libro II, tratt. XII, Del verbo, cap. XXV) il B. dice, a proposito della prima persona dell'imperfetto indicativo in -a: "è stato introdotto da alcun tempo in qua di terminarla in O. e dire Io Ero, Amavo, Temevo, Sentivo, Pensavo. Il che essendo senz'alcun danno: anzi con qualche guadagno della favella, è stat'abbracciato da molti, almeno nella viva voce, e nelle scritture non così gravi, e... potrebbe introdursi in breve comunemente: perché di vero in questa maniera tutte le Persone in quel Numero son distinte.... Ma noi, per non indurre novità di nostro capriccio, non ci essendo ancora autori di momento, sopra' quali possiamo fondarci; porremo l'antica voce colla terminazione usata; senza dannare, o in alcun modo riprender chi la nuova usasse".
Questi esempi sembrano indicare una priorità dello scopo pratico sulla speculazione teorica e le eventuali contraddizioni od incertezze (si veda specialmente il secondo esempio) sono quelle di uno studioso che si rende perfettamente conto della responsabilità che si assume innovando, cioè allontanandosi da quei modelli e da quegli schemi che da molti erano ritenuti insuperabili. Anche la censura del Trabalza a proposito dell'atteggiamento del B. rispetto alla grammatica storica perde molto della sua forza di fronte all'alta considerazione che il B. mostra per l'uso non solo moderno, ma della lingua viva; fra l'altro il B. non esita a chiamare "antichi" i grammatici del secolo XVI (p. 113): "Gli antichi (cioè quei che intorno a cent'anni sono scrisson le regole di questa lingua) come quelli che cose nuove, e poco allora pregiate insegnarono, cercaron di proceder più che' potettero con le regole della Latina" (il B. si riferisce al fatto che essi vollero sostenere che le parti del discorso sono otto anche in italiano, ripetendo pappagallescamente ciò che si diceva per il latino). Un'edizione moderna finalmente completa di tutti gli scritti linguistici del B. ci porterebbe quasi certamente a concludere che di rigidità non va accusato lui, ma piuttosto i suoi pedissequi continuatori e compendiatori, i vari Corticelli, Puoti e Fornaciari.
È invece accettabile, ed è infatti sostanzialmente approvata dal Donzé, l'altra caratterizzazione storica del Trabalza: "Egli, riallacciandosi, per la parte scientifica, alla tradizione scaligero-sanziana, precorre tra noi la grammatica di Portoreale, e segna così un progresso grandissimo; per la parte empirica, si riallaccia alla tradizione bembesco-salviatana, riuscendo a comporre un corpo di regole molto ampio e ordinato nella disposizione della materia e nella chiarezza dell'esposizione" (p. 313).Anche se, nel suo sforzo di definire e di categorizzare, riesce talvolta macchinoso e cavilloso (tanto che, per esempio, la sua estensione a dodici delle parti del discorso non ha avuto fortuna), non sempre ciò si deve alla sua abitudine alle disquisizioni accademiche, ma piuttosto alla prevalente volontà, generalmente presente anche nelle esercitazioni di argomento frivolo, di dire in modo più chiaro e più sistematico quel che era stato detto in passato (così, sempre a proposito delle parti del discorso è notevole, alle pp. 113-14, la sua preoccupazione di dimostrare che tutt'e dodici le categorie erano già negli "antichi", i quali semplicemente non se ne sarebbero accorti).
A un sessantennio dalla Storia del Trabalza e a poco più di un decennio dalla pubblicazione del Trattato della pronunzia a cura di P. Fiorelli (con una breve ma succosa introduzione e ampie note d'aggiornamento e riferimenti bibliografici), manca un'edizione completa di tutti gli scritti del B., prosatore tra i più interessanti del suo tempo, se non altro per il modo in cui egli ha applicato le sue stesse teorie grammaticali. Non esiste opera, si può dire, in cui egli non ponga problemi grammaticali o lessicali; perciò, per una revisione dei giudizi dati sul B. linguista, è indispensabile un esame globale di tutta la sua opera alla luce delle conoscenze contemporanee, le quali hanno in parte superato il punto di vista puramente idealistico del Trabalza e possono permettere di vedere sotto una luce nuova certi atteggiamenti generali del B. (specialmente il suo spirito geometrizzante e classificatorio, unito alla tendenza a superare il formalismo grammaticale dei predecessori nella ricerca delle strutture meno evidenti).
Fonti e Bibl.: Per i manoscritti e le opere inedite del B. reperibili a Firenze si vedano: [G. Guasti], Le Carte strozziane del R. Arch. di Stato in Firenze. Inventario. Serie prima, I, Firenze 1884, pp. 483-486; II, ibid. 1891, pp. 452-453, 461-462 (nella sala di studio dell'Arch. di Stato di Firenze questi due voll. hanno la segnatura "Inventari, n. 190 e 191"; l'inv. n. 192 contiene gl'indici manoscritti dei due precedenti; i nn. 194, 196 e 197 sono inv. rispettivamente della II, III, IV e V serie delle Carte strozziane, ma l'unico con indice, il n. 197, non ha il Buonmattei; G. Mazzatinti, Inv. dei manoscr. delle Bibl. d'Italia, IX, v. 185; X, pp. 98, 135; XI, pp. 226, 234; XII, pp. 121, 152-153. Nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Urbinate lat. 1624, Lettere scritte da diversi a Paganino Gaudenzio dall'anno 1628,fin all'anno 1631 (f. 54r: lettera del B. da Firenze, 10 genn. 1631-32: puramente di cortesia; f. 291rv: 30 apr. 1633: glottologica intorno ad alcuni neologismi, parte della terminologia militare, parte dell'uso poetico, in risposta a quella del Gaudenzio del 21 aprile); Urbinate lat. 1625, Lettere scritte da diversi a Paganino Gaudenzio dall'anno 1635 fin all'anno 1641 (ff. 467r-468r: lettera del Gaudenzio al B.: domande sull'opportunità d'alcuni neologismi, Pisa, 21 apr. 1633).
Sulla biografia: [G. B. Casotti], Vita di B. B. scritta da Dalisto Narceate pastore arcade, Firenze 1714, (in vol. a parte o premessa alla IV ediz. della grammatica del B.); L. G. Cerracchini, Cronologia sacra de' vescovi e arcivescovi di Firenze, Firenze 1716; Id., Fasti teologali ovvero Notizie istor. del Collegio de' teologi della sacra univ. fiorentina dalla sua fondazione sino all'anno 1738, Firenze 1738, pp. 364-366; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 4, Brescia 1763, pp. 2404-2410. Sulle opere edite e inedite in generale: J.-Ch-Brunet, Manuel du libraire et de l'amateur de livres, I, Paris 1510, p. 188; A. Coltellini (con lo pseud. di O. Contalgeni), prefaz. a B. Ambrogi, Chiave della Toscana pronunzia,intorno al chiudere et aprire delle vocali E,ed O, Firenze 1674, pp. 3-5; Id., prefaz. a F. Ermini [ma del B.: Casotti, cit., p. 351, Delle imprese, lezione, Firenze 1689; D. M. Manni, Istorica notizia dell'origine,e del significato delle befane, Lucca 1766 (alle pp. 2834 dà la prima edizione dell'idilio La Befana del B.); col titolo di Notizia delle befane l'opuscolo fu ristampato come "giunta seconda" al tomo XXIII della nota opera dello stesso Manni, I sigilli antichi dei secoli bassi, Firenze 1773; G. Fontanini-A. Zeno, Biblioteca dell'eloquenza ital., I, Parma 1803, p. 46; I. Gaddi, De scriptoribus non ecclesiasticis,Graecis,Latinis,Italicis primorum graduum, I, Firenze-Lione 1648; A. M. Salvini, Discorsi accademici, II, Firenze 1713, n. 68; D. Moreni, Bibliografia storico-ragionata della Toscana, I, Firenze 1805, pp. 193-194; G. Poggiali, Serie de' testi di lingua stampati,che si citano nel Vocabolario degli Accademici della Crusca, Livorno 1813, I, p. 1; II, pp. 168-171; B. Gamba da Bassano, Serie dei testi di lingua, Venezia 1839, nn. 1829-30. Sul B. come dantista: E. Benvenuti, A. Coltellini e l'Accademia degli Apatisti a Firenze nel secolo XVII, Pistoia 1910; U. Cosmo, Con Dante attraverso il Seicento, Bari 1946, p. 52; A. Vallone, Aspetti dell'esegesi dantesca nei secoli XVI e XVII attraverso testi inediti, Lecce 1966, pp. 219-236; M. Aurigemma, in Enciclopedia Dantesca, I, Roma 1970, sub voce. SulB. come grammatico: oltre ai citati sopra, P. Calepio, Lettera sulla storia dell'ortografia italiana, in C. Bascetta, Una breve storia settecentesca dell'ortografia italiana (la lettera di P. Calepio a C. von Muralt), in Atti dell'Ist. veneto di scienze,lettere ed arti, classe di scienze morali e lettere, CXXIII (1964-65), pp. 148-150; C. Trabalza, Storia della gramm. ital., Milano 1908, pp. 3, 96, 124 e passim, spec. 300-316, 364-367, 390-392; R. Donzé, La grammaire générale et raisonnée de Port-Royal. Contribution à l'histoire des idées grammaticales en France, Berne 1967, pp. 25, 199; R. G. Faithfull, Teorie filolog. nell'Italia del primo Seicento con particolare rifer. alla filologia volgare, in Studi di filologia ital., XX (1962), pp. 148 n. 2, 161 ss.; P. Fiorelli, Il "Trattato della pronunzia" di B. B., in Studi linguistici ital., I (1960), spec. pp. 109-116; C. Jannaco, Il Seicento, in Storia letter. d'Italia, Milano 1966, pp. 91-94; B. Migliorini, Storia della lingua ital., 1963, pp. 452-458; Ž. Muljačić, Introduz. allo studio della lingua ital., Torino 1971, p. 264.