CAIROLI, Benedetto
Nacque a Pavia il 28 genn. 1825 da Carlo e da Adelaide Bono. Il padre, professore della facoltà medica e poi rettore dell'università di Pavia, proveniva da una famiglia di agiati agricoltori, e fu il primo podestà di Pavia dopo la ritirata degli Austriaci nel marzo 1848. La madre, di molti anni più giovane del marito, era figlia di un prefetto del Regno italico che dal regime napoleonico aveva avuto il titolo comitale.
Educato a sentimenti patriottici, quando divenne studente di giurisprudenza nell'ateneo cittadino partecipò attivamente al movimento nazionale e liberale della gioventù universitaria e, scoppiata nel '48 la guerra di indipendenza, si arruolò nella compagnia dei volontari pavesi, con la quale fece tutta la campagna raggiungendo il grado di tenente. La fine sfortunata della guerra determinò in lui un deciso orientamento verso il movimento mazziniano: sono di questo periodo i contatti con elementi repubblicani di Milano e di Mantova, a loro volta in relazione con il Comitato nazionale italiano diretto ed animato da G. Mazzini.
Ai principi mazziniani il C. rimase fedele anche dopo il fallimento del moto di Milano del 6 febbr. 1853, alla cui organizzazione aveva contribuito. "I miei amici ed io" - scriverà alla madre (Rosi, I Cairoli, p. 44) - "seguimmo la via indicata dal dovere. La nostra pazzia avrà altro nome in altri tempi". Non tarderà però a prodursi un ripensamento di quei principi e del tipo di azione che ne discendeva: "Ho veduto pochi dì orsono alcuni amici dell'interno che attestavano concordi il rinfrancarsi degli animi a speranza. Ma si vorrebbero battaglie, non scaramucce, non colpi di mano che fanno spreco di forze e di credito per il peggio del nostro povero paese. Di qui l'opposizione a quel sistema omeopatico d'insurrezione in che si impuntiglia Mazzini" (a G. Cadolini, 19 ott. 1856, ibid., p. 56).
Il decennio 1849-1859 fu per il C. un periodo di intensa attività politica. Colpito da un ordine di arresto dell'autorità militare austriaca, si salvò fuggendo da Pavia nel vicino Piemonte, mentre la sua casa venne perquisita. Iniziava così la sua emigrazione politica, difficile perché il governo di Torino, per ragioni di politica interna e internazionale, esercitava una attenta sorveglianza sui giovani esuli. Con G. Sacchi e G. Griziotti il C. fu poi espulso dagli Stati sardi: egli e gli amici si rifugiarono a Zurigo, rientrando peraltro in Piemonte nello stesso anno, 1853, senza subire più alcuna molestia. Stabilitosi nell'avita villa di Groppello, curò gli interessi di famiglia, ricoprendo anche la carica di consigliere comunale, mentre villa Cairoli diveniva presto un centro di azione patriottica. Il C. aderì alla politica del Cavour, che preparava intanto la seconda guerra per l'indipendenza nazionale, chiarendo tuttavia come ciò noncostituisse un'abdicazione ai principi. "è soltanto un concorso di forze - nulla più -. Il poi si vedrà e gli avvenimenti ci daranno norma e consiglio" (ibid., p. 64).
Allo scoppio della guerra il C. si arruolò nel 2º reggimento Cacciatori delle Alpi: tra gli altri incarichi ebbe anche quello di organizzare un battaglione di volontari da costituirsi in Pavia. Era a Tirano, diretto allo Stelvio per portare aiuto di uomini e di armi a G. Medici, quando seppe dell'armistizio di Villafranca: deluso da quelli che credeva i maneggi oscuri e sleali della diplomazia, addolorato per la morte in combattimento del fratello Ernesto, si strinse sempre più a Garibaldi.
Quando si cominciò a parlare di una spedizione nell'Italia meridionale non solo era deciso a parteciparvi, ma si adoperò per la sua preparazione, contribuendo alla raccolta di uomini, armi e denari in Lombardia: verso la metà dell'aprile 1860 consegnò a Garibaldi a Genova, a nome della città di Pavia, la somma di L. 37.130. Partita il 5 maggio la spedizione, il C. ebbe il comando della 7ª compagnia, quasi tutta composta di studenti dell'università pavese. A Calatafimi, il 15 maggio, la compagnia ebbe l'onore di scortare la bandiera dei Mille; alla presa di Palermo (27-29 maggio), mentre al ponte dell'Ammiraglio portava al fuoco la sua compagnia, il C. cadde gravemente ferito al ginocchio. Promosso colonnello, rimase immobilizzato a Palermo, ove gli amici A. Bargoni ed I. Nievo vegliarono su di lui prostrato dal male e dal dolore per la morte dell'altro fratello Luigi. A Palermo rimase fino al dicembre 1860 quando, ancora sofferente, fu portato in barella sulla nave per Napoli, e di qui in ferrovia a Pavia.
Eletto deputato nella VII legislatura (fu eletto poi continuativamente fino alla XVI), il C. portò nella politica attiva le idee e le illusioni della Sinistra garibaldina, e negli interventi parlamentari tenne vivo il sentimento patriottico auspicando vigorosamente la liberazione di Venezia e di Roma. Pur se i fatti di Samico (15 maggio 1862) e d'Aspromonte (29 ag. 1862) bruciarono le ultime possibilità del volontarismo irredentista garibaldino, gli insuccessi del Veneto e della Calabria non disanimarono Garibaldi ed i suoi, che nel 1864 diedero vita al Comitato centrale unitario con lo scopo di preparare i mezzi e gli spiriti per il compimento dell'unità italiana. Di questo comitato il C. fu presidente.
Dispiegò un'attiva opera sia all'interno, raccogliendo armi e denari, sia all'estero, tenendo o instaurando rapporti con gli esponenti di quei popoli che combattevano per la libertà e l'indipendenza. Sono di questi anni, fra il 1862 e il 1866, i contatti di Garibaldi, del C., di Mordini cm esponenti rivoluzionari polacchi e ungheresi per una comune azione contro l'Austria. In quegli stessi anni il Mordini proponeva la trasformazione del movimento garibaldino in un regolare partito; il C. avversò la proposta sostenendo che i garibaldini dovevano continuare ad esistere come gruppo di opinione rivoluzionaria. La sua tendenza prevalse, ed il garibaldinismo continuò la sua propaganda per un'azione rivoluzionaria, ma il fallimento dei moti del Friuli nel 1864 segnò la fine di questa linea politica.Decisamente all'opposizione quando il governo non mirava alla guerra all'Austria, il C. diveniva filogovernativo in caso di guerra. Nel 1866, divenne membro della commissione per l'arruolamento dei volontari, e partì per il campo al seguito del generale Garibaldi. La fine del conflitto lasciò un non celato malcontento nei garibaldini, i quali diressero ogni loro attività nel tentare la liberazione di Roma. La formazione del ministero Rattazzi (aprile 1867) era parsa rinvigorire le loro speranze sulla possibilità di un'azione rivoluzionaria per liberare Roma, donde lo sfortunato tentativo di Mentana (3 nov. 1867), alla cui preparazione il C., dopo qualche perplessità, si era dedicato con tutte le sue forze, e quello di villa Glori (23 ott. 1867), dove moriva il fratello Enrico e l'altro fratello Giovanni era ferito. Mentana fu un colpo mortale per il garibaldinismo insurrezionale. Il C. espose in una lettera a Giuseppe Garibaldi, che aveva sdegnosamente abbandonato il Parlamento, dimettendosi da deputato, l'esigenza di non disertare la Camera affinché il paese conoscesse, espresse nella sede più idonea, le istanze dell'opposizione; concludeva: "La responsabilità delle colpe governative non può pesare sull'opposizione, che le mette in risalto resistendo sempre. Se non trionfa col numero la colpa non è sua, ma degli elettori; se le sue proposte non sono ascoltate essa non piega alle minacce e così chiarisce gli equivoci ed addita al paese i pericoli e gli agguati. Gioverebbe invece il silenzio della Camera? La coscienza lo nega" (18 sett. 1868, in Rosi, I Cairoli, pp. 415 s.). Il problema quindi, già dibattuto da tempo nell'ambito della Sinistra, non era quello di sovvertire gli ordini esistenti, ma quello di operare all'interno delle strutture statali con una decisa legale opposizione, preparandosi a diventare forza, di governo. La situazione generale, d'altra parte, offriva non pochi argomenti sui quali l'opposizione di Sinistra poteva combattere il governo. Primo fra tutti quella tassa sul macinato, misura fiscale durissima ed estremamente impopolare. Contro questa tassa il C. combatté aspramente e la sua azione testimonia la validità della scelta parlamentare, scelta indispensabile per additare al paese i più gravi problemi nazionali e le soluzioni opposte dalla parte progressista.
Il C. venne frattanto eletto vicepresidente della Camera, dove non perse occasione per incitare alla liberazione di Roma. Anche dopo il 20 sett. 1870 continuò la sua opposizione al governo della Destra, prendendo in più occasioni la parola in favore di un allargamento del suffragio universale. In tal senso presentò alla Camera una specifica proposta nel giugno del 1872, accordandosi con Garibaldi e con gli amici di corrente per iniziare nel paese una più vigorosa azione politica. Frutto di queste intese fu il manifesto democratico lanciato da Garibaldi nel 1872. Lo stesso anno il C. sposava la contessina Elena Sizzo, di famiglia trentina.
Esponente della Sinistra intransigente, il C. fu all'opposizione anche nei confronti del Depretis (marzo 1876) primo ministero della Sinistra, che, secondo lui, si incamminava su una via politicamente poco onesta.
La Sinistra era arrivata al potere perché il gruppo dissidente toscano si era staccato dalla maggioranza della Destra a causa della questione ferroviaria. Il Depretis, dato l'appoggio determinante di questo gruppo, aveva dovuto adattare il programma esposto nel discorso di Stradella (10 ott. 1875) alla nuova situazione. Contro la sua politica compromissoria e duttile insorgeva la corrente della Sinistra intransigente: il C. ne era il leader, e poteva contare su un seguito di un centinaio di deputati, ottanta della Sinistra e venti dell'Estrema radicale.
Nel novembre del 1877, quando il ministro Zanardelli, molto vicino al C., uscì dal governo, virtualmente il primo ministero Depretis entrò in crisi, anche se con una gestazione molto laboriosa: si dimise soltanto nel marzo del 1878. Il re, seguendo le indicazioni parlamentari, diede l'incarico al C. che, pur nell'ambito della stessa maggioranza, era l'antagonista del Depretis, e il nuovo governo fu presentato alla Camera il 28 marzo 1878.
Era composto di appartenenti a quei gruppi settentrionali della Sinistra che esprimevano le aspirazioni innovatorie e democratiche della borghesia delle regioni economicamente più progredite. Queste zone di opinione pubblica ne salutarono con favore l'avvento, auspicando un più coerente liberalismo nell'azione del governo e una maggiore democraticità nelle istituzioni. Il C., che assunse la presidenza del Consiglio, affidò gli Interni a G. Zanardelli, le Finanze e Tesoro a F. Seismit-Doda, i Lavori Pubblici ad A. Baccarini, la Giustizia a R. Conforti, la Pubblica Istruzione a F. De Sanctis, la Guerra al generale G. B. Bruzzo e la Marina all'ammiraglio E. Di Brocchetti; il ministero degli Esteri fu affidato al conte L. Corti, ambasciatore a Costantinopoli. In politica interna il C. si proponeva la completa attuazione del programma di Stradella, che il Depretis aveva lasciato inadempiuto. Tra i settori d'azione politica: istruzione elementare obbligatoria, alleviamento della pressione fiscale indiretta, interessamento per le questioni agrarie.
L'avvio all'incremento della istruzione elementare era stato dato con la legge Coppino del 1877. Si poneva ora all'attenzione del ministero il problema di apprestare gli edifici scolastici necessari: la legge 13 dic. 1878, con la quale venne autorizzata a questo scopo la concessione di mutui ai comuni, mirava a un'azione combinata fra governo ed enti locali.
La Sinistra aveva impostato la campagna elettorale anche sulla abolizione della tassa sul macinato, e il Depretis ne aveva fatto un punto importante del programma, senza che poi la tassa venisse toccata. Nel luglio del 1878 il Seismit-Doda portò alla Camera un progetto per l'abolizione del macinato. La battaglia parlamentare fu aspra; alla Camera il progetto passò, ma al Senato trovò una decisa opposizione e, contrariamente al desiderio del ministero, la discussione fu rinviata. Circa le questioni agrarie l'attività del governo non andò oltre la costituzione di una commissione di indagine sulle condizioni dei contadini.
Altra grossa questione fu quella delle costruzioni ferroviarie. Al Parlamento, nei circoli politici ed economici e sulla stampa si dibatteva vivacemente come gestire le linee ferroviarie. Il primo ministero Depretis aveva optato per un deciso privatismo, mentre il Baccarini, ministro dei Lavori Pubblici col C., era per la gestione governativa. Non era facile adottare improvvisamente un opposto indirizzo, tanto più che urgeva risolvere il fatto che una società austriaca, la Südbahn, gestiva la rete Alta Italia. La soluzione escogitata, di darla in esercizio al governo per due ami, era la peggiore perché l'esercizio provvisorio, statale o privato che fosse, allontanava ogni investimento di capitale dalla rete. Pur tenendo conto dell'avversione del C. all'affarismo e all'alta finanza, il che lo avvicinava singolarmente al Sella, e della sua repugnanza alle connessioni fra potere politico e potere economico, il che lo faceva decisamente schierare su posizioni statalistiche, sarebbe interessante esaminare quanto abbiano potuto influire sul suo atteggiamento i legami che aveva con la Estrema radicale e, attraverso questa, con le società operaie.
Un impegno morale, prima che politico, il C. pose anche nella intransigente difesa delle guarentige statutarie, primo fra tutti il diritto di riunione per quelle associazioni repubblicane nell'addietro spesso osteggiate. Contro l'intrusione governativa nell'esercizio del diritto di voto si rivoltarono il C. e il suo gruppo, assertori di un moralismo destinato a rimanere senza nessuna reale incidenza sulla vita e sul costume politico.
In politica estera il ministero si trovò ad affrontare una situazione estremamente complessa. La rivolta scoppiata in Erzegovina nel luglio del 1875 e l'aprirsi della crisi orientale avevano riaccese le speranze dell'irredentismo. La posizione del governo di Vienna era ancora quella consacrata nella lettera diretta il 24 maggio 1874 da Andrássy all'ambasciatore austro-ungarico a Roma, conte Wimpffen. Il linguaggio era chiaro: l'Italia non aveva possibilità di successo perché l'Austria non era più isolata come nel 1859 e nel 1866; se il governo austriaco avesse ceduto le terre di lingua italiana, avrebbe provocato gli irredentismi delle altre terre dell'Impero oppure la conquista di territori confinanti; il principio etnografico avrebbe quindi sconvolto l'equilibrio dell'intera Europa; alle rivendicazioni italiane l'Austria poteva allora opporre le sue sul Quadrilatero. In alcuni ambienti italiani però, non soltanto irredentistici, si riteneva che le terre italiane soggette all'Austria potessero essere ricongiunte alla patria a seguito di complicazioni europee, segnatamente nella penisola balcanica. Ma la alleanza dei tre imperatori assicurava a Vienna l'appoggio delle due più formidabili potenze militari del continente, né il governo italiano poteva contare sulla Francia, bloccata dalla Germania, o sull'Inghilterra, fortissima per mare ma assai debole per terra. In un lungo colloquio coll'ambasciatore italiano a Vienna, di Robilant, nell'ottobre del 1877, Andrássy aveva ribadito l'impossibilità per l'Italia di ottenere le terre irredente; a qualsiasi tentativo l'Austria avrebbe risposto con la guerra. Si era però disposti a concedere compensi in territori non appartenenti all'Impero asburgico o posti sull'Adriatico. Un barlume di speranza parve riapparire con lo scoppio della guerra russo-turca (24 apr. 1877), che poteva indebolire, se non rompere, l'accordo austro-russo e offrire all'Italia l'occasione di schierarsi con l'Austria o con la Russia. In effetti il governo austriaco aveva fatto passi a Roma (7 marzo 1878) per intavolare trattative su eventuali compensi, beninteso a esclusione delle terre irredente, ma il governo era alla vigilia delle dimissioni, e il Depretis si era limitato a promettere di parlare in favore della proposta austriaca al suo successore in ogni caso l'Italia avrebbe avuto compensi solo nel caso in cui fosse stata disposta a partecipare a una eventuale guerra contro la Russia, e i compensi non sarebbero state le terre irredente, non Tunisi, su cui si appuntavano le mire della Francia, non l'Albania, che l'Austria non era disposta a lasciar entrare nella sfera italiana: rimaneva solo Tripoli, che però, in quel momento, non destava particolare interesse in Italia. Si correva dunque il rischio di partecipare gratuitamente alla ipotetica guerra. Il conte Corti, prima di dare la sua adesione definitiva al costituendo gabinetto, aveva voluto esporre al C. e all'altro influente componente del ministero, lo Zanardelli, la sua linea politica, che fu approvata: mantenere le relazioni con l'Austria-Ungheria su un piano di onesta e franca cordialità, non opporsi alla probabile occupazione della Bosnia-Erzegovina, già irrimediabilmente decisa dalle potenze europee.
La situazione internazionale non mancò di provocare attacchi al ministero. Particolarmente accanito fu il Cavallotti, che, nella seduta del 9 apr. 1878, consigliava una politica di collaborazione con l'Austria-Ungheria nella soddisfazione dei legittimi reciproci interessi, proponendo a questa di cedere le terre italiane irredente in cambio di acquisti territoriali nella penisola balcanica. Nella replica il ministro Corti respinse l'iniziativa del Cavallotti affermando di desiderare l'amicizia della duplice monarchia ma nell'ambito dei trattati esistenti. Designato a rappresentare l'Italia al congresso di Berlino, il Corti volle che le sue istruzioni, consone a queste direttive di politica estera, fossero discusse ed approvate dal Consiglio dei ministri (seduta del 7 giugno 1878).
Col congresso di Berlino l'Austria si prese la Bosnia-Erzegovina, l'Inghilterra Cipro, la Russia la Bessarabia. Ma sarebbe stato vano combattere contro le decisioni delle grandi potenze europee, che volevano spingere l'Austria verso oriente per equilibrare la spinta russa verso il Mediterraneo; daltra parte la questione dei compensi non sarebbe stata neppure ammessa alla discussione: il governo francese aveva subordinato la partecipazione al congresso alla condizione che vi fossero deferite solo le questioni derivanti dalla guerra russo-turca e che l'argomento rimanesse circoscritto a quelle che erano state all'origine di tale guerra. L'Italia non aveva dunque alcuna possibilità di azione diplomatica. Le decisioni del congresso suscitarono però nel paese delusioni pari alle illusioni già alimentate da certa stampa e certi uomini politici. Vi furono campagne di stampa, attacchi e accuse implacabili contro il C. e contro Corti; uomini di provenienza diversa si trovarono uniti nella protesta contro le pretese umiliazioni subite a Berlino.
Il primo ministero Cairoli cadde su una questione di politica interna, per l'attentato del 17 nov. 1878 al re Umberto I a Napoli, cui nei due giorni seguenti tennero dietro due attentati, a Firenze ed a Pisa. Il C., che accompagnava il re in carrozza, fece scudo al sovrano ricevendo in una gamba la pugnalata del Passanante, e il gesto gli valse la concessione motu proprio della medaglia d'oro al valor militare. L'opposizione di destra però censurò l'indirizzo liberale della politica interna, giudicata troppo tollerante verso organizzazioni e partiti sovversivi, e il gabinetto l'11 dic. 1878 riportò 263 voti contrari contro 189 a favore.
Il C. tornò alla direzione del governo nel luglio del 1879, succedendo al terzo ministero Depretis. Nella nuova formazione, tenne anche il portafogli degli Esteri e l'interim dell'Agricoltura; agli Interni andò T. Villa, alle Finanze B. Grimaldi, ai Lavori Pubblici A. Baccarini, alla Giustizia G. Varè, alla Pubblica Istruzione F. P. Perez, alla Guerra il gen. C. Bonelli. Punti fondamentali del programma erano l'abolizione della tassa sul macinato e l'estensione del diritto di voto. Il ministero non ebbe lunga vita: comprendendo anche rappresentanti di gruppi della Sinistra che non facevano capo al C., non aveva una solida base parlamentare. Il 19 nov. 1879 questi presentava al re le dimissioni, ricevendo il reincarico.
Il terzo ministero del C., che alla presidenza unì il portafogli degli Esteri, fu costituito con l'appoggio del Depretis, che assunse gli Interni; uscivano dal governo il Grimaldi, il Perez, il Varè, il Villa passava alla Giustizia, alle Finanze andò A. Magliani, all'Istruzione Pubblica F. De Sanctis, L. Medici all'Agricoltura. Il C. si trovò ad affrontare la recrudescenza dell'irredentismo, accentuatosi per la delusione suscitata negli ambienti nazionalisti dal congresso di Berlino e, fedele ai principi liberali che lo ispiravano, non volle opporre una repressione dura e continua. Non mancarono gli incidenti con l'Austria.
Sdegnato per il conflitto fra forza pubblica e dimostranti ai fimerali del generale garibaldino G. Avezzana, presidente dell'Associazione pro Italia irredenta (dicembre 1879), M. R. Imbriani pubblicò un opuscolo in cui rivelava come il Depretis, ministro dell'Interno, in un colloquio con lui e Menotti Garibaldi avesse dichiarato che i ministri italiani, malgrado le contrarie apparenze imposte da necessità diplomatiche, desideravano il ricongiungimento delle terre irredente alla patria. La rivelazione ebbe un'enorme eco in Austria tanto che furono inviate truppe alla frontiera italiana.
Il gabinetto cercò di superare la difficile posizione verso l'Austria-Ungheria tentando, con la missione a Berlino del conte Maffei di Boglio, segretario generale degli Esteri, una alleanza con la Germania, cui il Bismarck però pose come condizione l'instaurazione di buoni rapporti anche con Vienna. Il Maffei, favorevole alla combinazione con Berlino e con Vienna, nel gennaio 1881 chiese al C. di lasciargli tastare il terreno in via riservatissima a Vienna per avviare una trattativa sulla base del rispetto reciproco dei trattati esistenti e dell'arresto dell'espansione austriaca nel bacino adriatico. La controproposta austriaca, giunta a Roma nel febbraio, prevedeva l'accordo sulla base del rispetto dello statu quo in Oriente, compresa l'Albania. Ma il C. non credette di dar seguito immediatamente ai sondaggi perché l'attenzione del governo e dell'opinione pubblica si stava concentrando sulla questione di Tunisi.
La questione, pregiudicata già prima del congresso di Berlino, si era sviluppata a lato di esso. Il Bismarck aveva mirato a scopi ben precisi: orientare la Francia verso imprese coloniali per impegnarne le forze militari a scapito della sua efficienza bellica in Europa; impedire, attaverso la conseguente rivalità, un avvicinamento italo-francese. Incoraggiò così la Francia nelle mire su Tunisi, assicurandole il proprio appoggio. Anche Londra fece conoscere a Parigi il suo disinteresse per il futuro di Tunisi, con la riserva però che le condizioni del momento non richiedevano un'azione francese. Fin dal luglio 1878 il C. aveva sospettato che tra Francia e Inghilterra fosse intervenuto un accordo per Tunisi; a confermare questi sospetti il Menabrea, ambasciatore a Londra, comunicava con telegramma l'11 di quel mese che si parlava della Siria e della Tunisia quali compensi per la Francia. De Launay, ambasciatore, a Berlino, aveva suggerito una chiara spiegazione con la Francia, e Menabrea per conto suo aveva affrontato la questione con lord Salisbury, ministro degli Esteri, il quale non si era mostrato allarmato per l'eventuale azione francese a Tunisi. Il governo italiano non poteva più farsi illusioni sull'atteggiamento inglese. A chiarirne sempre più la posizione era valsa la proposta fatta nel maggio 1879 da quello italiano per un accordo su questioni marittime: Londra aveva accettato senza difficoltà di discutere per quanto riguardava l'Egitto, ma per Tunisi aveva declinato ogni discorso. Altrettanto vano era sperare appoggio da Berlino. Il C. cercò allora di mantenere formalmente a Tunisi lo statu quo e, nello stesso tempo, con iniziative economiche, di raggiungere una influenza uguale a quella francese, analogamente a quanto avveniva in Egitto tra Francia e Inghilterra. I rapporti italo-francesi nei riguardi di Tunisi rimasero apparentemente buoni fino al 1880, quando scoppiò una nuova crisi. La ferrovia Tunisi-Goletta, appartenente ad una compagnia inglese, e messa in vendita, fu contesa fra la società francese Bona-Guelma e la compagnia Rubattino, che potè, aggiudicarsela con un sussidio finanziario governativo. Il governo italiano chiese anche la posa di un cavo telegrafico fra Tunisi e la Sicilia; quello di Parigi indusse il bey di Tunisi a richiedere che il cavo italiano fosse collegato alle linee telegrafiche francesi. Ne seguirono lunghe trattative. L'attività italiana suscitò i sospetti del governo francese, che passò all'azione diplomatica, ottenendo dal Bismarck la conferma dell'atteggiamento benevolo del governo di Berlino (giugno 1880) nei riguardi delle aspirazioni francesi e assicurandosi che il governo di Londra al massimo sarebbe intervenuto, su richiesta, come arbitro nella controversia italo-francese. Su questa base il 24 apr. 1881 il governo di Parigi passò all'azione militare già predisposta.
Il 12 maggio 1881 il bey di Tunisi firmava il trattato con il quale si instaurava il protettorato francese sulla Tunisia. La grave crisi della politica estera italiana aveva già scatenato contro il C. fin dai primi di aprile, un'acre opposizione, alimentata da tutte le parti politiche. Respinta alla Camera il 7 aprile la richiesta governativa di rinviare la discussione sulla politica estera, il C. aveva presentato le dimissioni, respinte allora dal re, non essendo riuscito il presidente incaricato Depretis a costituire il governo. Ora, subito dopo la firma del trattato, il 14 maggio, il C. si dimise.
Come tanti uomini provenienti dal Partito d'azione, egli non "sentiva" la politica estera: la convinzione risorgimentale che l'Italia potesse fare da sé, come non aveva fatto capire che essa si era costituita a unità profittando anche dello scontro fra Francia e Austria nella Valpadana, dello scontro fra Prussia e Austria per la supremazia in Germania della lotta tra Francia e Prussia per l'egemonia in Europa, così non faceva ora comprendere le relazioni fra le grandi potenze, guidate da precisi interessi politico-economici. Ma la caduta del C. va inquadrata anche in un'altra prospettiva. Dopo l'unità, fra gli uomini del Partito d'azione si erano sempre più venuti individuando due schieramenti, con diversa funzione e obiettivi politici. Un settore, in sostanza, si poneva come propagatore e costruttore capillare del nuovo Stato liberale sorretto dai nuovi interessi economico-finanziari e da nuovi gruppi dirigenti; l'altro, che tendeva a rappresentare strati ed interessi popolari, sarebbe stato assorbito di fatto dal nascente movimento operaio. Nella Sinistra il C. aveva assunto una posizione di mediatore tra queste due tendenze, con qualche contenuta propensione per la seconda. Di grande ascendente morale, di alto prestigio, con una tradizione patriottica illustre, di carattere adamantino, era un avversario troppo pericoloso per i suoi stessi colleghi di partito e massime per il Depretis. Certo è che buona parte dei ministri che componevano il suo ministero entrò nel successivo ministero Depretis, e al solo C. vennero addossate le conseguenze politiche di una condotta che erà stata condivisa da tutto il gabinetto. Più che della esclusione dell'Italia da Tunisi, la maggioranza parlamentare si preoccupò delle novità della politica interna cairoliana.
Il C. lasciò il potere amareggiato soprattutto perché il suo successore, Depretis, che aveva agli Esteri il Mancini, nulla fece per far conoscere all'opinione pubblica il reale svolgimento della vertenza di Tunisi, e la sua amarezza si concretò in un rifiuto della vita pubblica. Lo smosse dal proposito l'imponente manifestazione di stima ricevuta a Roma in occasione della inaugurazione del monumento ai fratelli Enrico e Giovanni. Nel novembre 1883 il C., con Nicotera, Crispi, Zanardelli e Baccarini costituiva una corrente di opposizione intransigente (la "Pentarchia") per ricostituire una Sinistra pura e combattere il Depretis sulla base dell'antico programma governativo del Cairoli. Il Depretis però seppe svuotarla del suo contenuto innovatore; nel 1887, due pentarchi entravano nel gabinetto Depretis, lo Zanardelli alla Giustizia e il Crispi agli Interni.
Il C. tornò alla vita privata più che mai solitario. Circondato dall'affetto della moglie, dei pochi amici e dai ricordi di un passato glorioso, si ritrasse nella politica locale. Presidente del Consiglio provinciale di Pavia, si fece promotore di una serie di provvedimenti a favore dell'ateneo pavese. La lontananza dalla politica parlamentare non significava tuttavia disinteresse. Nella corrispondenza e nelle conversazioni private non nascondeva la sua avversione per la politica del Crispi, succeduto al Depretis nella presidenza del Consiglio (1887), ma più ancora per il Bismarck, che lo statista siciliano prendeva a modello. Insignito del collare dell'Annunziata, fu ospite del re nella villa di Capodimonte a Napoli, nella speranza che il clima marino potesse giovare alla sua salute ormai debolissima, e questo soggiorno rese vieppiù cordiali i rapporti fra il C. e il sovrano. Morì nella villa di Capodimonte l'8 ag. 1889; la salma fu trasportata a Gropello nel sepolcro di famiglia.
Fonti e Bibl.: Fonte basilare per uno studio sul C. è il ricco Archivio Cairoli conservato presso i Civici istituti di arte e storia di Pavia; dell'Archivio già esplorato da diversi studiosi ma in modo non sistematico, è stato avviato in questi ultimi anni il lavoro di sistematone. Carte del C. si trovano in altri importanti fondi, qualigli Archivi Bertani, Correnti, Garibaldi presso il Museo del Risorgimento di Milano, e il fondo Cairoli presso il Museo centrale del Risorgimento di Roma. Tra le fonti edite si citano gli Atti del Parlamento italiano. Discussioni, Camera, dalla VII alla XVI legislatura; il Libro verde: Documenti diplomatici concernenti gli affari d'Oriente, Roma 1879; oltre i volumi utili delle raccolte Documents diplomatiques français, 1871-1914, Paris 1928 ss., e Die grosse Politik der europäischen Kabinette, 1871-1914, Berlin 1922 ss.; Min. Affari Esteri, L'Italia in Africa.Serie storica, I, Etiopia. Mar Rosso, pt. I, 1857-85 (testo di C. Gigli), Roma 1958, ad Indicem;pt. II, 1859-82 (docc. a cura di C. Giglio), ibid. 1959, ad Indicem.
Assai ricca è la bibliografia. Si tenga presente però che per l'addietro oggetto di studio, spesso ispirato a criteri agiografici, è stata più la famiglia Cairoli che i singoli componenti. Nell'ambito di questa considerazione le opere fondamentali sono: F. Venosta, I fratelli Cairoli, Milano 1868, e M. Rosi, I Cairoli, Torino 1909 (nella riedizione Bologna 1929, in due volumi, è particolarmente studiata l'attività del C. dopo il 1870). Un avvio a una biografia del C., ancora mancante, può essere dato da M. Brignoli, B.C.,uomo politico e combattente, in Bollettino della Soc. pavese di storia patria, XII(1960), pp. 45-52. Se il periodo della vita del C. più indagato è stato quello delle sue presidenze del Consiglio, la sua attività di politica interna non è stata oggetto di specifica indagine. Entro questi limiti si raccomanda il volume di G. Carocci, A. De Pretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Torino 1956, ad Ind., mentre un primo avvio alle ricerche sulla politica interna del C. è in M. Brignoli, Brevi considerazioni sul discorso tenuto a Pavia il 15 ott. 1878da B.C., in Annali pavesi del Risorgimento, II(1964), pp. 195-205. Sulla politica estera dei governi Cairoli, per contro, la letteratura è vasta. Qui è sufficiente segnalare: R. Bonghi, La crisi d'Oriente e il congresso di Berlino, Milano 1878; S. Jacini, Pensieri sulla politica italiana, in Nuova antologia, 16 maggio 1889, pp. 201 ss.; A. Baccarini, Commemorazione di B.C. a Pavia il 26 maggio 1890, nel volume Discorsi politici 1876-1890, Bologna 1990; L. Chiala, Pagine di storia contemporanea, I, Torino 1895, passim;A. F. Pribram, Les traités politiques secrets de l'Autriche-Hongrie, Paris 1923, ad Ind.;L.Salvatorelli, L'Italia nella politica internazionale dell'era bismarckiana, in Riv. stor. ital., XI, (1923), pp. 113-29; C. Pagani, Ilconte Luigi Corti al Congresso di Berlino, in Nuova Antologia, 16 nov. 1975, pp. 67 s.; G. De Luigi, Il Mediterramo nella politica europea, Napoli 1925, pp. 159-66; G. Salvemini, Alla vigilia del Congresso di Berlino, in Nuova riv. stor., IX(1925), I, pp. 72-92; E. C. Corti, Il conte Corti al Congresso di Berlino, in Nuova Antologia, 16 apr. 1925, pp. 351 ss.; Id., Bismarck und Italien am Berliner Kongress 1878, in Histor. Vierteljahrschrift, XXIII(1926), pp. 456-71; Italicus [E. E. Berger], Italiens Dreibunds Politik 1870-1896, München 1928, ad Ind.;F.Crispi, Politica estera, a cura di T. Palamenghi-Crispi, Milano 1929, ad Ind.;D.E. Lee, The proposed Mediterranean League of 1878, in Journal of modern history, III(1931), pp. 33-45; A. Sandonà, L'irredentismo nelle lotte polit. e nelle contese diplom. italo-austriache, I, Bologna 1932 (cfr. Ind.in III, ibid. 1938); E. Passamonti, La questione di Tunisi all'indomani del trattato del Bardo…, in Riv. stor. ital., L(1933), pp. 373-421; LII (1935), pp. 49-126; C.Manfroni, La polit. europea dal 1870al 1914, Padova 1934, ad Ind.;C.Grove Haines, Italian irredentism during the Near Eastern crisis, 1875-1878, in Journal of modern history, IX(1937), pp. 23-47; A. Codignola, Rubattino, Bologna 1938, ad Ind.;F. Cataluccio, Italia e Francia in Tunisia, 1878-1939, Roma 1939; L. Salvatorelli, La Triplice Alleanza, Milano 1939, pp. 1-41; G. De Luigi, La conquista di Tunisi: storia diplomatica dal Congresso di Berlino al trattato del Bardo, Milano 1940, passim;L. Albertini, Le origini della guerra del 1914, Milano 1942, I, pp. 25-33, 40-43; W. Windelband, Bismarck und die europäischen Grossmächte 1879-85, Essen 1942, ad Ind.;C. Morandi, La Sinistra al potere, Firenze 1944; ad Ind.;I.Bonomi, La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto, Torino 1944, ad Ind.;B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari 1947, ad Ind.;F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, I, Le premesse, Bari 1951, ad Ind.;Id., Considerazioni sulla politica estera dell'Italia dal 1870 al 1915, in Orientamenti per la storia d'Italia nel Risorgimento, Bari 1952, pp. 19-49; I. Ganiage, Les origines du protectorat français en Tunisie, 1861-1882, Paris 1959, ad Ind.;A. Torre, La politica estera di B.C., in Annali pavesi del Risorgimento, II(1963), pp. 110-184, Vedi inoltre: E. Morelli, Ifondi archivistici del Museo centrale del Risorgimento. XI. Le carte Settembrini e Cairoli, in Rass. stor. del Risorg., XXVII(1940), p. 633; E. Ghiglione Giulietti, A. Cairoli e i suoi figli. Lettere inedite dal 1847 al 1871, Milano 1952; A. Mario, Marselli, C. e i moderati, Milano 1878; E. Graia, B. C. e la polit. ital., Roma 1879; F. Torraca, La fam. Cairoli, Napoli 1879; S. Cardillo-Briganti, B. C. nella storia d'Italia, Roma 1889; G. Bruzzesi, Nel primo anniversario della morte di B. C. Commemoraz., Milano 1890; E. Martinengo-Cesaresco, B. C. e l'impresa di Tunisi, in Rass. stor. del Risorg., XIII(1926), pp. 898 s.; M. Rosi, IlCongresso di Berlino e B. C., in Boll. dell'Ufficio stor. dello Stato Maggiore dell'Esercito, II(1927), pp. 162-70; I Cairoli, in IlCorriere della Sera, 12 nov. 1929; C. Giglio, Il primo gabinetto Cairoli e il problema dei compensi all'Italia, in Annali pavesi del Risorgimento, II(1963), pp. 187-94; A. Scirocco, Idemocratici italiani da Sapri a Porta Pia, Napoli 1969, ad Ind.