CAIROLI, Benedetto
Patriota e uomo politico, nato a Pavia il 28 gennaio 1825, morto a Capodimonte (Napoli) l'8 agosto 1889. In gioventù fu ardente neo-guelfo; e nel marzo del 1848 corse a combattere la prima guerra dell'indipendenza fra i volontarî pavesi, nella fiducia che Pio IX e Carlo Alberto avrebbero data la libertà a tutte le provincie italiane. Terminata la campagna, tornò in famiglia, della quale, alla morte del padre (1849), prese le redini, come il maggiore dei fratelli. Ma le cure famigliari non lo distolsero dal partecipare alle vicende politiche, ché anzi nel 1850 aderì al partito mazziniano, propagando nella provincia di Pavia e in quella di Mantova le cartelle del prestito nazionale, e facendo parte di quel comitato rivoluzionario del quale era anima Enrico. Tazzoli (v. belfiore, martiri di). Scoperte le fila della congiura, il C., insieme con G. Acerbi, fece in tempo a fuggire e a ricoverarsi in Piemonte, scampando alla sorte che incontrarono gli altri congiurati. Riparato a Genova, fece parte di quel comitato che in Piemonte cooperò al moto mazziniano scoppiato a Milano il 6 febbraio 1853, ma subito represso. Costretto a lasciare il Piemonte, si rifugiò in Svizzera, mentre l'Austria lo condannava per delitto d'alto tradimento. Fra i dolori dell'esilio considerò inutili, se non dannose, le agitazioni mazziniane del partito d'azione, e s'accostò alla politica realistica piemontese, ciò che gli permise di tornare in Italia, e di poter fissare la sua dimora a Genova, dove nel 1854 strinse relazione con Garibaldi.
Durante la guerra del 1859 il C., insieme coi fratelli Ernesto ed Enrico, s'arruolò nel secondo reggimento dei cacciatori delle Alpi e combatté da valoroso. Dopo Villafranca, tornò a Pavia e s'adoperò nei preparativi della spedizione dei Mille, recando a Garibaldi una cospicua somma di danaro, frutto di elargizioni di cittadini pavesi. Partì per la Sicilia col grado di capitano della settima compagnia, e combatté a Marsala e alla presa di Palermo, dove rimase gravemente ferito a una gamba.
Nel 1861 fu eletto deputato e prese viva parte alle discussioni parlamentari, schierandosi in quel partito politico della Sinistra, che, nel decennio precedente la liberazione di Roma, tenne sempre agitato il paese, specialmente per affrettare la conquista del Veneto e per abbattere il governo pontificio. Appartenne alla Società emancipatrice, fondata nel 1862. Dopo i fatti di Sarnico e d'Aspromonte egli, che aveva contribuito (1863) alla caduta del gabinetto Rattazzi, si riavvicinò al Mazzini, aiutandolo nella cospirazione in favore della Polonia, e per la liberazione del Veneto. Durante la guerra del 1866 fece parte della commissione reale per l'organizzazione dei volontarî, quindi partì egli stesso per il campo insieme con i fratelli Enrico e Giovanni; e dopo la pace, che non approvò, riprese il suo posto di combattimento alla Camera, stringendosi ancora una volta al Mazzini per le aspirazioni su Roma. Quando il Rattazzi risalì al potere (10 aprile 1867), il C. sperò dapprima in una politica favorevole a queste aspirazioni, ma dopo Mentana dovette constatare quanto indecisa fosse la condotta del Rattazzi. Dopo l'eccidio di Villa Glori il C. si recò a Pavia per consolare la madre duramente colpita dalla morte di Enrico. Scoppiata la guerra franco-prussiana, il C. incitò il governo all'occupazione di Roma e, negli anni successivi al 1870, prese poca parte ai lavori parlamentari dedicandosi alle cure famigliari, rese per lui più intense per il matrimonio contratto nel 1873 con la contessa Elena Sizzo. Dopo l'avvento della Sinistra al potere col Depretis (1876), egli appoggiò da principio le sorti del nuovo governo, quindi passò all'opposizione, contribuendo alla sua caduta (marzo 1878). Il 23 di quello stesso mese succedette al Depretis, del quale, a ogni modo, seguì le direttive nella politica estera; e in questo senso diede istruzioni al Corti, ministro degli Affari esteri, inviato a rappresentare l'Italia al congresso di Berlino (v.), convocato per definire le clausole del trattato di pace imposte dalla Russia alla Turchia, che si chiuse con risultati così sfavorevoli agl'interessi politici dell'Italia. Nell'autunno di quello stesso anno il C. accompagnò re Umberto I a Napolì e il 17 novembre, mentr'era in carrozza col sovrano, impedì, facendo scudo col suo corpo, che il Passanante potesse pugnalare il re, e rimase ferito a una coscia. Se questa sciagura valse ad aumentare la popolarità del C., fu tuttavia cagione di gravi accuse alla sua politica interna: il 19 dicembre il C. lasciò il potere, che fu assunto dal Depretis; ma, nonostante che le sue condizioni generali di salute fossero assai scosse, il 14 luglio 1879 tornò alla presidenza del consiglio dei ministri, assumendo anche il portafogli degli Esteri e dell'Agricoltura. Era un momento assai grave per la politica italiana, poiché le relazioni con l'Austria si facevano sempre più tese per la questione dell'irredentismo, e quelle con la Francia, che oramai tendeva sempre più evidentemente alla conquista della Tunisia, erano quanto mai critiche. Al C. fu rimproverato di aver seguito una politica estera, che, da una tanto ingenua quanto infelice frase di lui, fu detta delle "mani nette", assai lesiva agl'interessi dell'Italia, specialmente nei riguardi della Francia. E quando fu noto il trattato del Bardo, del 12 maggio 1881, con cui si riconosceva il protettorato della Francia su Tunisi, altissimo fu il clamore nei circoli politici italiani, che si ripercosse per tutto il paese. Il C. fu costretto a dimettersi e si ritrasse a vita privata. Pochi mesi prima di morire, affranto dal male, accettò l'invito di re Umberto I di andare nella villa reale di Capodimonte a ristorare la sua salute, e colà si spense chi era stato vittima di una posizione politica forse più subita che voluta.
Bibl.: M. Rosi, I Cairoli, 2ª ed., 2 voll., Roma 1929.