COTRUGLI (Contrugli, Cotrulli, Kotrulja, Kotruljević, Kotrulj, Kotruljić), Benedetto (Benko)
Figlio di Giacomo e di Nicoletta Illich, nacque a Ragusa, (Dubrovnik), forse intorno al 1410, in una famiglia mercantile immigrata probabilmente da Cattaro, anche se sono state avanzate ipotesi su di una origine serba o ebraica.
Il padre, Giacomo, era un ragguardevole mercante e imprenditore; nel 1429 fu inviato ambasciatore di Ragusa alla regina Giovanna II di Napoli, da cui ottenne la concessione dell'apertura, nel Regno, di consolati ragusei. Tornato più tardi a Napoli, o rimastovi, Giacomo continuò la sua attività di mercante con larghi aiuti da parte della regina, ricoprì la carica di maestro della Zecca e, fino al 1436, anno della morte, contribuì al mantenimento delle buone relazioni fra la corte angioina e la sua patria.
Sulle sue orme si sarebbe posto il C., anche se occorre precisare che egli non fu il solo continuatore della attività paterna: la famiglia Cotrugli al completo appare infatti impegnata in traffici che da Ragusa si diramavano per tutto il Mediterraneo centroccidentale e comportavano frequentemente compiti diplomatici e professionali, specie presso la corte napoletana.
Membri della famiglia erano stati ambasciatori di Ragusa presso il re di Ungheria nel 1407 e nel 1417;un Natale Cotrugli, per i buoni servigi resi ad Alfonso di Napoli, ottenne, a vita, nel 1444, diritti di tratta di grani dal Regno. Uno zio del C., Giovanni, era impegnato nel traffico di sale, salnitro e orzo, che importava a Ragusa dall'Italia meridionale e dalla Sicilia; unitamente al C. egli era legato per il commercio della lana spagnola alla compagnia fiorentina di Francesco di Nerone Neroni. Giovanni aveva collaborato anche con Giacomo, padre del C., e con un altro fratello, Nicola, attivo anch'egli nell'Italia meridionale. Un figlio di Giovanni, Andrea, ci è noto sia per aver rappresentato il C. nel noleggio di navi destinate al trasporto di sale per il re di Napoli Ferdinando (1464), sia per attività commerciali svolte in proprio e più tardi proseguite dal figlio Pietro. Impegnato nei traffici che legavano Ragusa all'Italia meridionale fu ancora un altro figlio di Giovanni, Marino.
Il maggior collaboratore del C. fu comunque suo fratello Michele, attivo nel commercio con l'Aragona, importatore di grani dalle Puglie e dalla Calabria, legato alla corte napoletana e in strette relazioni con le maggiori compagnie mercantili della sua città e dell'Italia meridionale. Anche se nel 1450 i due fratelli separarono i loro affari, Michele continuò a curare, fino alla morte, avvenuta nel 1455, gli interessi catalani del Cotrugli.
In sostanza, così come accadeva nei centri di più progredito sviluppo commerciale della penisola italiana, il mercante C. poteva contare, oltre che sui mezzi personali e sull'intraprendenza individuale, anche sul valido supporto di una organizzazione familiare in grado di fornirgli ogni possibile aiuto in un ambito geografico di notevole ampiezza.
Il C. avrebbe seguito studi di legge e li avrebbe interrotti controvoglia per dedicarsi alla mercatura in Ragusa e poi ben presto nell'Italia meridionale, in Sicilia ed anche in Africa. Centro delle sue attività, nel quinto decennio del secolo XV, sarebbe comunque rimasta la città adriatica ove, con il fratello Michele, si dedicò in particolare all'importazione di lana e di altre mercanzie dalla Catalogna, come testimonia una memoria del 1444: "ha fato et fa zerti trafighi delle lane et altro in le parte de Cathelogna" (Spremić, 1971, p. 97).
Con lo zio Giovanni e con i fratelli Niccolò e Sigismondo Giurgevic di Ragusa, fu legato alla compagnia fiorentina di Francesco di Nerone Neroni, e per suo conto esportò argento da Ragusa. Nel 1445-46 operò in Catalogna in collaborazione con altri mercanti della sua città: delle sue ingenti importazioni di lana spagnola a Ragusa si continua ad aver notizia fino al 1453. Ma a questa data la vita del C. aveva ormai conosciuto una svolta decisiva.
Nel 1451, munito di una raccomandazione del Senato di Ragusa per il re Alfonso, il C. lasciò la città natale per Napoli, senza peraltro avere alcun incarico ufficiale. Favorevolmente accolto dal sovrano e ben presto entrato nelle sue grazie, il C., probabilmente per la grande esperienza mercantile ormai maturata, divenne personaggio di rilievo della corte napoletana, non senza grave imbarazzo del governo raguseo che, se non gli riconosceva alcuna specifica funzione rappresentativa, non poteva d'altronde ignorare l'influenza che egli aveva sui rapporti fra Napoli e Ragusa.
Il C. approfittò di questa singolare posizione di favore presso il re Alfonso per avviare, durante un soggiorno a Ragusa nel 1452, una grossa speculazione: acquisiti tutti i diritti della città su di una ingente somma dovuta dai sovrani di Aragona per danni inferti a Ragusa, e impegnatosi, nel caso fosse riuscito a riscuotere, ad una graduale restituzione, grazie alla protezione del re Alfonso, e poi del re Ferdinando, riuscì ad eludere almeno parte dei suoi impegni e si trovò pertanto ripetutamente in vivo contrasto con il Senato raguseo.
Alternativamente minacciato e blandito dal governo di Ragusa, il C. non lasciò Napoli neppure dopo la morte di Alfonso, che lo aveva fra l'altro eletto uditore della Ruota e giudice delle cause e ne aveva invano sollecitato la nomina a console raguseo per tutto il Regno.
Egualmente favorito da Ferdinando, che lo confermò negli incarichi affidatigli dal padre, il C. fu da lui ufficialmente inviato a Ragusa nell'autunno del 1458; ciò nonostante, i suoi rapporti con la città d'origine continuarono a peggiorare, tanto che, dopo avergli inutilmente intimato, nel giugno del 1459, di tornare a Ragusa, il Senato lo condannò all'esilio nell'ottobre dello stesso anno.
L'intervento di Ferdinando ottenne che venissero prorogati i termini entro i quali il C. avrebbe dovuto far fronte agli impegni finanziari assunti con la sua città; grazie al sovrano, fu differita anche la data in cui sarebbe entrato effettivamente in vigore il provvedimento di esilio. In ogni caso il C. evitò in seguito di ritornare nella città adriatica senza la copertura diplomatica del suo sovrano: così nel 1462, quando passò per Ragusa diretto in Bosnia, dove Ferdinando lo aveva mandato come ambasciatore, il Senato gli dovette concedere salvocondotto "attento quod venit tamquam ambassiator regis Ferdinandi" (Spremić, 1971, p. 100).
Anche in seguito l'estrema necessità dell'aiuto aragonese indusse il governo di Ragusa a non insistere, ad onta delle proteste dei cittadini, nel perseguire il C.; ciò non comportò peraltro la sua assoluzione. Infatti, se la città si avvalse ogni tanto della sua intercessione per questioni di importazione e di esportazione; se consentì talora a qualche raguseo di recarsi a fargli visita; se non lo ostacolò quando tornò in Dalmazia nel 1466, in occasione di contatti ufficiali con Mattia Corvino, per conto di Ferdinando; si rifiutò d'altro canto di riconoscerlo come console dei Ragusei presso il re di Napoli e, soprattutto, non gli perdonò quel debito, nei confronti della Repubblica, che era ancora insoluto al momento della sua morte, nel 1469.
Di pari passo con il distacco dalla patria era proceduto l'impegno del C. al servizio di Ferdinando d'Aragona. Oltre che nelle missioni diplomatiche, cui già si è accennato, il C. fu impiegato dal sovrano soprattutto nella direzione della Zecca napoletana, fra il 1460 e il 1468, e della Zecca dell'Aquila (1469), dove gli successe in seguito il figlio Giacomo. Anche se mancano precise informazioni in proposito, è tuttavia probabile che già sotto Alfonso il C. fosse stato preposto alla Zecca napoletana.
Sposatosi a Ragusa nel 1444, il C. ebbe dieci figli, cinque maschi e cinque femmine. Di essi Iacopo diresse la Zecca dell'Aquila dal 1469al 1475, quando venne privato del suo incarico. Nell'Italia meridionale rimasero anche due figlie, Caterina, sposata all'Aquila, ed Eleonora, monaca in S. Gerolamo di Napoli. A Ragusa la famiglia fu continuata dal figlio Gerolamo, ancora minore al momento della morte del padre, ma non conobbe più le fortune che l'avevano caratterizzata nei decenni centrali del Quattrocento.
Insignito del titolo di miles (la sua famiglia non apparteneva al ceto patrizio), il C. è ricordato da un documento raguseo del 1464 come "regius consiliarius et commissarius" (Spremić, 1971 p. 101): titolo che lo qualifica come uomo di corte più che mercante, e che contribuisce a chiarire quelle propensioni per l'attività letteraria e per la riflessione dotta che meritano al C. un posto di qualche rilievo nel quadro dell'umanesimo napoletano.
Come lo stesso C. afferma, nella lettera dedicatoria dell'unica sua opera pervenutaci, il trattato Della mercatura e del mercante perfetto, scritto nel 1458, i fati avevano voluto "che in sul più bello del nostro philosofare fummo rapiti dallo studio et rimpiantati nella mercantia. La quale per necessità ci convenne seguire et abbandonare la soave dolcezza dello studio, al quale eravamo totalmente dediti". Mercante per forza (e questo spiega anche il suo inclinare più alla vita di corte che a quella dei negozi), il C. stese più di un lavoro letterario, di cui abbiamo solo indirettamente notizia.
Latina, e su di un tema caro agli umanisti, era un'opera, De uxore ducenda, anteriore al 1458, cui il C. accenna nel sesto capitolo della sua opera sulla mercatura, affermando di averla dedicata al raguseo Volzo Bobali e di avervi trattato "difusamente in sermon latino d'ogne osservanza delle moglie et dell'officio loro, et dello allevare figliuoli et di tutti gli ordini che denno esser servati in ciascaduno della famiglia...".
Altre opere del C. sarebbero state un Della natura dei fiori, nota ai biografi dalmati ottocenteschi, ed un Della navigatione, di cui dette notizia Gino Luzzatto soltanto nel 1954 citando un volume "manoscritto De Navigatione di Benedetto Cotrugli Raguseo, del 1464, di cui, mettendolo in vendita, pubblicava l'indice la libreria Lubrano di Napoli, nel 1914, e che non sappiamo dove ora si trovi" (Luzzatto, p. 43).
La stessa unica opera pervenutaci del C. sembra essersi salvata in modo abbastanza casuale. Composta nel 1458, rimase manoscritta, forse in più copie (se ne segnala una a Firenze nel 1484: cfr. Peruzzi, App., p. 102), per oltre un secolo. Portata a Venezia dal mercante raguseo Giovanni Giuseppi, venne pubblicata da Francesco Patrizi di Cherso nel 1573, tradotta in francese e pubblicata a Lione dieci anni dopo, e riedita a Brescia nel 1602.
L'opera non sembra aver avuto una grande circolazione, probabilmente per la sua ormai scarsa efficacia come manuale tecnico e venne riscoperta soltanto nella seconda metà dell'Ottocento dagli storici della ragioneria che, ponendo mente all'anno di composizione del lavoro del C., gli attribuirono il merito di aver per primo descritto (nel tredicesimo capitolo, del libro I: "Dell'ordine di tenir le scritture mercantilmente") il sistema della partita doppia. Per molti anni, fra Otto e Novecento, si continuò a insistere quasi soltanto su questo particolare aspetto del trattato del C., che o rappresenta il punto d'incontro fra i manuali di tecnica mercantile dei due secoli precedenti ed i trattati sulle scritture che seguiranno, essendo... un volume di tecnica, nel quale è stato incluso un capitolo sulla tenuta dei conti... "una opera di transizione da un periodo all'altro..." (Melis, p. 605).
Ma le indagini sulle attività mercantili del C. (a partire almeno dal volume dello Zebić, 1963) e sulla splendida stagione dei traffici aragonesi hanno portato ultimamente, soprattutto per merito del Tenenti, ad un riesame complessivo dell'opera, in quanto testimonianza di rilievo per la storia della mentalità e della società del Mediterraneo latino nel corso del Quattrocento.
Dedicato all'amico e concittadino Francesco Stefani, il trattato Della mercatura (edito in Vinigia, all'Elefanta, 1573; Lyon 1583; Brescia 1602) comprende quattro libri: "il primo è un vero e proprio repertorio di regole mercantili, mentre gli altri tre libri contengono insegnamenti e precisamente il secondo sull'osservazione della religione, il terzo sulle virtù morali e politiche e il quarto sul governo della famiglia, della casa e sul vivere economico del mercante" (Bacotich, p. 185).
Trovatosi ad essere esperto nelle cose della mercanzia (anche, e soprattutto, per la straordinaria ampiezza del giro d'affari della sua famiglia, possiamo aggiungere) il C., come spiega nella lettera prefatoria, aveva da tempo deciso di rimediare al modo "inetto, disordinato, dissoluto et vano" con cui erano in genere esercitati gli affari mercantili. Finalmente, sebbene lontano dalla "patria... dilettevole", aveva ceduto alle insistenze dell'amico Francesco Stefani. In attesa di partire come ambasciatore per Ragusa e rifugiato a Castel Serpico, mentre Napoli era in preda alla peste, il C. desiderava portare all'amico questa operetta che concluse il 26 ag. 1458. Aveva perciò intrapreso a scrivere "quello che io sento dell'arte della mercanzia", soprattutto per coloro che, ancor giovani, potevano e volevano apprenderne le regole fondamentali, senza venire meno a quei principî di onestà che molti vecchi mercanti avevano purtroppo tralasciato e senza timore - motivo da sottolineare - di intraprendere un'arte non nobile. "La qual mercantia bene essercitata et dirittamente osservata è non solamente comodissima, ma etiandio necessarissima al governo umano et per conseguente nobilissima".
La meditata scelta dell'uso del volgare, piuttosto che del latino, la frequente citazione dei classici antichi e medievali (Aristotele, Cicerone, Senofonte, Marziale, Teofrasto, i Padri della Chiesa, gli autori scolastici), l'attenzione costante rivolta al problema della formazione e dell'educazione dell'uomo, prima ancora che del mercante, tutto questo svela nel C. una variegata e profonda preparazione umanistica ed un convinto, conseguente, intento pedagogico.
L'opera del C. "non è soltanto un trattato tecnico, ma è molto di più: il protagonista è l'uomo che, in quanto diventa un perfetto mercante, raggiunge le doti necessarie alla mercatura in un grado così elevato che la perfezione acquisita in quel campo gli permette di attingere il culmine della piena umanità. La figura era certamente coniata per una società capace di ispirarla, e capace di comprenderla, quella della città mercantile di modello italiano del suo tempo e - in questa città - per una sfera aristocratica ben individuabile, quella dei grandi mercanti" (Cinti, pp. 361 s.).
In realtà l'opera è scritta quando il C. ha ormai praticamente lasciato la mercatura per farsi uomo di corte e, nonostante gli spunti amari sulla corruzione e sulla disonestà che dominano gli ambienti vicini ai sovrani, egli è ben convinto del passo che ha compiuto, tanto da giungere alla teorizzazione della necessità di abbandonare la mercatura e di dedicarsi eventualmente alla politica una volta raggiunti i cinquant'anni (p. 104 dell'editio princeps).
Questa scelta è assolutamente conseguente a tutta l'impostazione teorica della figura del mercante: per il C. egli persegue certo, e con gravi rischi, i suoi scopi di arricchimento, ma ha anche una precisa funzione all'interno della società: la sua condotta deve essere sempre esemplare perché, se egli viene meno ai suoi doveri e alla sua etica professionale, il danno colpisce tutta la collettività.
Dal "mercante perfetto" nasce dunque il possibile uomo "perfetto" e negli ultimi tre libri dell'opera il personaggio del C. tende a perdere le sue specifiche caratteristiche professionali per divenire semplicemente un ottimo pater familias, alle prese con i problemi della conduzione, dell'amministrazione e del "governo" di quella sorta di repubblica che è la famiglia, a lui necessaria non meno che a tutti i membri sui quali si estende la sua autorità.
Come lo stesso C. aveva sperimentato, era all'interno della famiglia, se ben governata e guidata, che si riproponevano, in una sorta di processo ciclico, le condizioni per l'ascesa mercantile, e, al di là di essa, nello stesso vantaggio della società, per l'affermazione sociale dei membri più giovani. Pur nella convinzione della fissità delle strutture politiche, economiche e sociali - fossero quelle della Repubblica di Ragusa o quelle del Regno napoletano - il C. non rinunciava a credere nelle possibilità di perfezionamento di tutte le singole attitudini dell'uomo.
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